TESARIO D’ESAME INTRODUZIONE ALLA BIBBIA

 

domande per esame introduzione alla bibbia

Corso di introduzione alle Scritture

 

1. Cosa si intende per cristologia dall’alto e per cristologia dal basso?

2. Definisci i termini “trama”; “trama di rivelazione”; “trama di risoluzione”. Prova a descriverle in Gn 22, il racconto del sacrificio di Isacco.

3. Che tipo di linguaggio adottano le parabole di Gesù e con quale fine?

4. Cosa vuol dire “scritto apocrifo”?

5. Quali sono le lettere di Paolo pseudoepigrafiche?

6. Con quali immagini Paolo descrive la sua vocazione?

7. Cosa intende Paolo quando usa il termine “vangelo”?

8. Qual’è il contesto storico del secondo Isaia (cc. 40 – 55)?

9. Cos’è un genere letterario? Spiega a partire da un esempio biblico.

10. Che finalità ha l’accusa profetica nei confronti del popolo?

11. Come si può comprendere il fenomeno dell’ispirazione (dettatura, approvazione successiva, ispirazione comunitaria, ispirazione del testo)? Commenta 2 Tm 3, 15 – 16.

12. Gv 4, 1 – 42. Quale simbolismo e quale tipologia? Prova a mostrare…

13. Quali sono le parole chiave che il redattore sacerdotale usa nel racconto del passaggio del mare (Es 13,17 – 14, 21) e qual’è la sua visione teologica?

14. Qual’è il percorso con cui Dio ristabilisce l’alleanza nel racconto del diluvio (Gn 6, 1 – 9, 17)?

15. In quante parti si può suddividere l’Antico Testamento e qual’è il ruolo di ciascuna parte?

16.Cosa vuol dire “libri deuterocanonici” dell’AT? Elencane almeno 5.

17. Che differenza c’è tra tipologia e allegoria? Quale?

18. Perchè Eb 10, 1 – 18 non può essere usato per motivare una teologia della sostituzione tra AT e NT?

19. Definisci le espressioni “senso letterale” e “senso spirituale” delle Scritture.

20. Spiega in che senso si può affermare che la Scrittura è Parola di Dio.

 

IN AGGIUNTA PER GLI STUDENTI DELL’ISTITUTO

Lettura accurata del Documento “Interpretazione della Bibbia nella vita della Chiesa” PCB 1993. Ci sarà una domanda in particolare sul c. I: metodi e approcci per l’interpretazione.

Lettura e preghiera III Avv. A – Mt 11, 2 – 11.

SCHEDA DI LETTURA III Avvento TO Anno A per accompagnatori

Lettura

In questa sezione del Vangelo, fino al c. 12, il lettore è invitato a prendere posizione riguardo a Gesù di fronte alla contestazione degli scribi e farisei, ai dubbi di Giovanni il Battista e all’invito che Gesù fa ai suoi discepoli di conoscere il Padre che solo il Figlio è in grado di rivelare (11, 27). Il testo della liturgia della terza domenica di Avvento ci presenta il dubbio del Battista (v. 2  – 3) e la risposta di Gesù (vv. 4 – 6) , e in aggiunta un commento di Gesù alle folle sull’identità del Battista (vv. 7 – 15. Il testo della liturgia si ferma al v. 11).

La domanda del Battista, che si trova in carcere dal momento in cui Gesù ha iniziato il suo ministero (v. 2 cfr. 4, 12) scaturisce dal suo ascolto delle opere di Cristo, così diverse dalle sue. Se infatti il Battista aveva predicato l’imminente giudizio divino (cfr. 3, 11 – 12), Cristo invece predica l’amore del nemico (cfr. 5, 38 – 48) e accoglie i peccatori (cfr. 9, 10 – 17).   Il Battista si chiede se è Gesù “colui che deve venire”, il messia che doveva raccogliere il grano nei granai e pulire la paglia con fuoco inestinguibile, ossia portare il giudizio definitivo di Dio (3, 11 – 12).

La risposta di Gesù agli inviati del Battista è indiretta. Essi stessi dovranno prendere posizione e giudicare  ciò che ascoltano e vedono,  cioè le opere intese come segni del messia: la proclamazione del vangelo ai poveri (cfr. 5, 3), la guarigione dei lebbrosi (8, 1 – 4), la resurrezione dei morti (cfr. 9, 23 – 26), la restituzione della vista ai ciechi (9, 27 – 31). Con loro anche noi lettori siamo invitati a vedere in queste opere il compimento delle profezie messianiche di Isaia (cfr. Is 35, 5 – 6a; 26, 19; 29, 18; 61, 1). Di fronte alla misericordia di Dio è sempre possibile che coloro che si credono giusti si scandalizzino, per questo Gesù proclama beato colui che non si scandalizza (v. 6).

Mentre i discepoli del battista se ne vanno, Gesù riflette con le folle sull’identità del Battista. Non è un uomo senza spina dorsale, che va dietro ad ogni vento come la canna (v. 7), non è un potente che veste con abiti di lusso (v. 8). Egli è un profeta, anzi più che un profeta (v. 9), colui di cui parla Malachia,  come il grande  Elia che ritorna (cfr. v. 14), quale messaggero che prepara la via di Dio (v. 10 cfr. Mal 3, 1; Es 23, 20).

Ci sono due epoche della storia, quella della preparazione, caratterizzata dall’attesa del giudizio e dalla conversione, il cui profeta è Giovanni il Battista, e quella del Regno instaurato dalla croce di Gesù, li dove si compiono tutta la legge e i profeti (v. 13). Nella croce è contenuta una sapienza nuova, la sapienza dell’amore, che è stata giustificata dalle opere di misericordia del Cristo (v. 19)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Suggerimenti per la preghiera

1. Mi dispongo davanti a Dio in preghiera. Sto in ginocchio o seduto, per entrare in colloquio con il Signore, o meditare su ciò che leggo, a seconda di ciò che voglio.

2. Leggo con attenzione il brano di Vangelo.

3. Chiedo al Signore il dono di una conoscenza interiore di lui, che per me ha compiuto le opere dell’amore.

4. Vedo i discepoli di Giovanni che si recano da Gesù con il dubbio del loro maestro. Non è forse che Gesù è troppo buono per poter essere considerato il messia? Anche nella mia vita spesso vorrei un Dio che giudica e mette a posto le cose…

5. Ascolto la risposta di Gesù e considero tutti i suoi miracoli, tutti i segni di vita che ha compiuto. Li sento veri anche per me, capaci di rivelare nella mia vita il volto di un Dio che non condanna, ma salva.

6. Entro in colloquio con Gesù, il messia che viene a riscattarmi dalla morte nella sua croce e chiedo umilmente la sapienza che viene dalla croce.

7. Concludo con un Padre Nostro.

Gli occhi e le mani di Maria (Omelia Immacolata Concezione)

 

“Come può accadere questo, poiché non conosco uomo?” La domanda di Maria non nasce da una mancanza di fede nei confronti dell’annuncio dell’angelo Gabriele, ma è una legittima richiesta di avere dei segni da parte di Dio, di conoscere le modalità con cui il progetto del Signore si sarebbe manifestato e compiuto nella sua vita.

Maria ha fede e si abbandona alla Parola di Dio: “Ecco la serva del Signore, sia fatto in me secondo la tua Parola”. Alcuni di voi potrebbero pensare, proprio alla luce della solennità di oggi, che è l’immacolata concezione: “Per forza Maria ha accolto la Parola, era senza peccato, per lei tutto è stato più facile”. Non è stato tutto facile per Maria, né all’inizio, né durante la vita del Figlio, né tantomeno sotto la croce, dove quel si l’ha pronunciato con immensa sofferenza.

In questa affermazione infatti si nasconde un inganno: Maria è stata più libera  di noi, perché non condizionata e indebolita dal peccato, certo, ma questo non vuol dire che non fosse tentata anche lei, anche Eva è stata tentata e non  aveva il peccato! Se era più libera, ciò significa che era più libera anche di rispondere di no a Dio, e se ha risposto di si è un merito più grande da parte sua!  Pensate: Dio ha deciso di sospendere tutto il suo immenso progetto di rivelazione e redenzione dell’umanità  davanti alla libertà di una sconosciuta ragazzina di dodici anni. Dio ha voluto che la redenzione del genere umano coinvolgesse la libertà dell’uomo al punto da farlo dipendere totalmente dal si di una donna libera!

Maria è una donna libera! Libera  di abbandonarsi totalmente alla Parola di Dio, al mistero di un Altro, Dio, in cui lei era totalmente immersa, riempita, con la sua libertà umana.

Nella libertà di Maria recuperiamo anche tutto il valore del femminile , inteso come dipendenza, abbandono, forza che nasce da una consapevole debolezza.  Tutta la nostra società è stata forgiata dal maschile, per cui ha valorizzato la capacità di fare, trasformare, di progettare la realtà, porsi degli obiettivi e trovare i mezzi per raggiungerli.  Maria ci rivela la nostra necessità di recuperare il femminile nella società e nella vita, perché non tutto nella vita può essere progettato, tante cose debbono invece essere solamente accolte. La volontà di Dio, prima che nelle qualità e nei punti di forza che abbiamo, si manifesta nella paziente e umile ricerca di quei segni d’amore che ci indicano la strada, come Maria, che all’angelo chiede “come” ed egli gli risponde con il segno della gravidanza di Elisabetta.

Dobbiamo avere occhi “femminili”, gli occhi di Maria, per cogliere questi segni. Occhi educati dalla preghiera ad affidarci ad un Altro, che ci avvolge e desidera riempirci con la sua grazia, occhi abituati a cogliere l’estrema delicatezza e il grande rispetto che Egli ha della nostra libertà.

Dobbiamo avere mani “femminili”, le mani di Maria, per progettare il mondo non solo a partire dalle grandi conquiste e scoperte della scienza e della tecnica, ma anche a partire dalla sofferenza degli ultimi, dei piccoli, dei bambini, dei giovani. Per costruire l’uomo, le mani femminili, prima di modificare, si impegnano a custodire pazientemente l’umano, con tutte le sue fragilità.

Penso soprattutto ai giovani: chiediamo a Maria i suoi occhi, per scorgere in essi i segni della volontà di Dio e per aiutarli a rispondere con generosità alla loro vocazione, che è la strada della loro felicità. Chiediamo a Maria le sue mani, per “custodire” la fragilità umana dei loro percorsi, senza compromessi col male – l’alcool, con la droga, che sembra ormai avere acquistato una patente di normalità nella loro vita-, ma anche con tutta la tenerezza e la fiducia di cui hanno bisogno per crescere.

 

Cristologia dal basso e dall’alto

 

CRISTOLOGIA DAL BASSO E DALL’ALTO.

Con la locuzione cristologia bassa o dal basso si intende l’elaborazione di un pensiero sistematico su Gesù Cristo a partire dalla sua storia di uomo, della stirpe di Israele, proveniente da Nazareth di Galilea, che dopo il battesimo al fiume Giordano da parte del Battista ha cominciato un ministero di carattere profetico e apocalittico, particolarmente incentrato sulla sua persona. Emergono in particolare il suo misterioso rapporto con IHWH, il Dio d’Israele, da lui chiamato in modo scandalosamente confidenziale abbà, i miracoli da lui compiuti, come segni messianici che adempiono le antiche profezie, e il suo continuo richiamo rivolto ai discepoli, soprattutto a partire da un certo momento in poi, della necessità della sua morte in croce che sarebbe avvenuta a Gerusalemme per il rifiuto dei capi del popolo. Il compimento di tale cristologia è nel mistero della resurrezione, che svela ai discepoli il mistero del Figlio di Dio, morto e risorto secondo le Scritture. Una cristologia dal basso si occupa quindi, a partire dal mistero pasquale, di identificare nella storia di Gesù come uomo i segni della sua identità di Figlio di Dio. Un esempio di cristologia dal basso è il vangelo di Marco.

Per cristologia alta o dall’alto si intende una dottrina su Gesù Cristo elaborata a partire dal suo mistero immanente di Figlio di Dio, Parola di Dio coeterna al Padre, prima della creazione, poi incarnatosi in un dato momento storico nel seno della vergine Maria e la cui vicenda umana si compie definitivamente nel mistero pasquale della morte resurrezione e ascensione in cielo. Un esempio di cristologia alta è il Vangelo di Giovanni o gli inni delle lettere agli Efesini e ai Colossesi. (Ef 1, 3 – 14; Col 1, 15 – 20).

 

Mt 13, 1 – 51. La sapienza profetica e parabolica di Gesù

 

Il discorso in parabole di Gesù è un’unità redazionalmente ben delimitata dallo spostamento geografico di Gesù in 13, 53a: “quando Gesù terminò queste parabole, partì di la..”. Prima di questo discorso si trovano alcune dispute di Gesù con i farisei (cfr. Mt 12, 1 – 8. 9 – 14. 22 – 32. 38 – 42). Al centro di tali dispute la citazione del canto del servo (Is 42, 1 – 4) mostra che l’attività taumaturgica di Gesù e la sua ritrosia a renderla pubblica sono indice della mitezza con cui il servo porta avanti la sua missione (non griderà né si udrà la sua voce nelle piazze), senza reagire alla violenza degli avversarsi con una violenza eguale e contraria. Il lettore di Matteo si trova davanti al mistero del non ascolto del popolo (12, 38 – 42), che pretende un segno per la sua incapacità di aprire il cuore alla parola di Gesù, che è ben più della parola profetica! (v. 41).

La sezione delle parabole cerca di penetrare in modo sapienziale nel mistero del non ascolto del popolo di fronte alla predicazione profetica, anzi più che profetica, di Gesù. Ora quando in 13, 53 – 58 l’evangelista racconta del rifiuto di Gesù da parte dei nazaretani, il lettore sarà più preparato a comprendere tale evento.

La composizione del discorso matteano è suddivisibile in due parti. La prima  (vv. 13 – 35) è composta di un’introduzione (1 -3a) e della parabola del seme (3b – 9). A tale parabola segue poi un dialogo tra Gesù e i discepoli sul perché parla in parabole, con la conseguente citazione del profeta Isaia ( 10 – 17), la spiegazione della parabola del seminatore (18 – 23), e le tre parabole della zizzania, del granello di senape e del lievito (24 – 33). Infine una conclusione motiva ancora il discorso parabolico di Gesù (34 – 35).

La seconda parte è composta da un’introduzione, caratterizzata da uno spostamento di luogo, dall’esterno all’interno della casa dei discepoli (36a). Dalla loro domanda scaturisce la spiegazione della parabola della zizzania (37 – 43) a cui seguono altre tre parabole (tesoro nascosto, mercante di perle e rete, vv. 44 – 50). Infine una conclusione, sempre in forma parabolica, allude al lettore, che deve essere come uno scriba che, diventato discepolo di Gesù, deve raccogliere dal suo tesoro cose nuove e cose antiche (51 – 52).

Gesù parla seduto sulla spiaggia, in posizione di maestro e la folla sta in piedi sulla spiaggia. Il contesto spaziale  è funzionale ad un appello sapienziale al popolo di Israele, rappresentato dalle folle, ad ascoltare il vero maestro, in un confronto velatamente polemico con gli scribi e farisei della pericope precedente. Da questo sfondo emergono successivamente i discepoli (v. 10) che intessono un dialogo diretto con Gesù e che soli possono “vedere e comprendere”. Infatti la spiegazione della parabola del seminatore è rivolta a loro soli, come pure la spiegazione della parabola della zizzania e le  successive parabole del tesoro nascosto, della perla e della rete.

La conclusione è chiaramente diretta al discepolo, che è invitato ad essere uno scriba sapiente, capace di tenere insieme cose antiche e cose nuove (cfr. Sap 8, 8), diventando discepolo del regno dei cieli. Il Regno dei cieli infatti è caratterizzato da una logica nuova di “sovrabbondante giustizia”, che è il compimento della legge antica (cfr. Mt 5, 17 – 20).

 

Come si manifesta nelle parabole il mistero di questa sovrabbondante giustizia, già spiegata da Gesù maestro con la legge dell’amore data sul monte delle beatitudini?

Anzitutto si tratta di una parola che il seminatore semina e che porta frutto a seconda del terreno in cui nasce. Nella parabola del seminatore c’è un elemento irrealistico che rende possibile l’interpretazione: lo spreco di seme, che viene seminato anche nella strada, sui sassi e tra le spine. Ora, nessun agricoltore butterebbe via le sue sementi in questo modo. Ciò significa che la logica della parabola non si muove secondo i binari del realismo quotidiano che ne costituisce lo sfondo, ma a partire da un contrasto irrealistico e sovrabbondante con l’esperienza quotidiana. Riconoscere tale contrasto è il primo passo per l’interpretazione della parabola. Essa è infatti tutta costruita sull’opposizione polare tra il seminatore che getta il seme dappertutto in parti uguali e senza alcun previo discernimento e la diversa natura dei terreni, che permette un diverso sviluppo. I primi tre casi sono, sebbene a livelli diversi di crescita, tutti in definitiva negativi per la fruttificazione del seme. Gli ultimi tre invece, sebbene con percentuali diverse, sono riassumibili in un’unica categoria di terreno buono.

Anche la spiegazione mette l’accento sulla diversità nell’accoglienza della parola che è il seme, in rapporto alla parola stessa che viene donata con infinita liberalità a tutti. Essa richiama il lettore all’importanza dell’accoglienza e della cooperazione del discepolo alla parola di Dio che viene seminata nel suo cuore.

Rimane tuttavia il problema, stringente per i discepoli di Gesù, di come possa la parola di Dio, che è onnipotente e realizza ciò che dice, non compiere ciò per cui era stata pronunciata (cfr. Is 55, 10 – 11). Dietro alla loro domanda sul perché Gesù parli in parabole e non si manifesti in modo chiaro e ultimativo a tutte le folle sta la richiesta di comprensione del mistero di un servo che non grida la sua voce in piazza (cfr. 12,  19) e che invece parla in modo solo apparentemente semplice e in realtà molto oscuro. Il mistero della mancata accoglienza della parola di Dio da parte delle folle si collega al misterioso stile parabolico di Gesù, che sembra in qualche modo accettare e venire incontro a tale mancata comprensione.

Il motivo del guardare e non vedere, udire e non ascoltare (v. 13), che mette in relazione ascolto e comprensione del cuore, si collega al compimento della profezia di Isaia (Is 6, 9 – 10) in cui il parlare del profeta non sembra produrre una comprensione ma piuttosto un ulteriore incomprensione del popolo. Questa citazione ricollega la parola di Gesù al ministero della predicazione dei profeti, che non è mai stato accompagnato da un successo umano e politico, anzi, dal rifiuto radicale e violento di un popolo refrattario all’ascolto del loro Dio. Questo rifiuto si riproduce ora nella relazione tra Gesù e il popolo di Israele, dietro a cui si nasconde l’ostilità dei capi e dei farisei. Questa citazione Isaiana, nella forma della LXX da cui Matteo la trae, ha però una conclusione assai oscura. È possibile che l’ultimo stico della profezia (e io li guarirò) proprio perché con i verbo al futuro anziché al congiuntivo, possa essere letto come un’affermazione e non come una negazione. Quindi nella profezia di Isaia la salvezza passa in ogni caso, anche attraverso la mancata comprensione del popolo. Matteo coglie proprio questo aspetto quando afferma:”a colui che non ha sarà tolto anche quello che ha”, perchè sottintende il fine pedagogico che colui che non ha possa rendersi sempre più conto di non avere e quindi essere guarito.

Se allora il progetto di Dio passa attraverso il rifiuto del popolo, questo ha un riflesso anche nello stile di Gesù e dei suoi discorsi parabolici. Gesù parla in parabole perché il popolo che crede di capire si accorga realmente di non capire, così che a colui che non ha sia tolto anche quello che crede di avere.  Chi, come i farisei, ha già la verità in tasca, comprenderà di non comprendere e questo può avere due conseguenze diametralmente opposte, o un rifiuto sempre più radicale di ciò che non si comprende oppure un riconoscimento della propria ignoranza ed un’umile apertura a quella verità che può essere donata solo da Dio. Chi invece ha il cuore disposto e umile del discepolo, potrà ascoltare e comprendere ed essere beato in questa comprensione! Le parabole quindi non sono un linguaggio quotidiano e semplice ma complesso e caratterizzato da più livelli di significato, per adattarsi all’ascolto e all’apertura di cuore dell’interlocutore.

Che questa apertura alla guarigione del popolo che rifiuta Gesù sia non solo presente nell’ambigua citazione di Isaia, ma venga fatta propria nell’intenzione teologica dell’evangelista è confermato poi dalla parabola della zizzania e dalla sua spiegazione. Come il padrone di casa impedisce ai servi di sradicare la zizzania, così Gesù impedisce ai discepoli di condannare coloro che rifiutano il suo messaggio, risolvendo così in modo arbitrario e definitivo il problema del terreno cattivo. Questo atto sarebbe in definitiva una mancanza di fede nell’onnipotenza della parola di Dio e nella sovrabbondante giustizia divina. I discepoli devono pensare soltanto a gettare nel mare  la rete che prende ogni genere di pesci, senza chiedersi né giudicare preventivamente quali siano quelli buoni e quelli cattivi (vv. 47 – 48).  Solo il giudizio definitivo di Dio potrà operare una separazione (vv. 49).

Le parabole del Regno costituiscono dunque un invito ad una penetrazione sapienziale profonda del mistero di Dio e della sua giustizia sovrabbondante che si compiono in Gesù. Come Gesù è il servo mite che porta la giustizia con misericordia (cfr. 12, 20 cit. di Is 42, 3), così il suo insegnamento parabolico rispetta la libertà dell’interlocutore e non gli impone una verità per via di sillogismi o dimostrazioni. Lo invita piuttosto a convertire il cuore, riconoscendo la propria incomprensione, per ricevere in dono la sapienza del Vangelo ed entrare da scriba discepolo e non da maestro presuntuoso nel mistero del Regno dei cieli che si compie in Gesù.

 

 

 

Lettura e preghiera per Immacolata concezione (Lc 1, 26 – 38)

 

SCHEDA PER ACCOMPAGNATORI Immacolata concezione Lc 1, 26 – 38

Lettura di Lc 1, 26 – 38.

L’indicazione temporale iniziale del sesto mese (v. 26) ricollega il racconto dell’annunciazione a Maria, con la precedente annunciazione a Zaccaria (cf. v. 24 e v. 56).  Lo stesso angelo, Gabriele, compie l’annuncio e le tappe di tale evento sono le stesse: apparizione e saluto da parte dell’angelo, turbamento da parte di Zaccaria e Maria, invito dell’angelo a non temere e spiegazione dell’annuncio, obiezione da parte di Zaccaria e Maria, risposta dell’angelo e concessione di un segno per la fede.

Oltre alle analogie tra i due racconti vi sono anche le diversità. Elisabetta è una donna sterile avanti negli anni, Maria è vergine e se nel caso di Zaccaria si tratta del compimento di una sua preghiera e di un suo desiderio, non altrettanto si può dire per Maria, che invece accoglie un invito del tutto inaspettato e gratuito da parte di Dio. Inoltre se Zaccaria è un sacerdote nell’atto dell’offerta e l’incontro con l’angelo avviene nel santo dei santi del Tempio di Gerusalemme, invece di Maria non si sottolinea qui la parentela (viene sottolineata solo per Giuseppe, per evidenziare la linea della generazione davidica) e l’incontro con l’angelo avviene nella sconosciuta Nazareth, nella regione della Galilea, lontano da Gerusalemme.

Il narratore intende così sottolineare particolarmente la condizione umile di Maria: nulla di umano può giustificare o meritare in Lei questa straordinaria chiamata di Dio. Essa è totalmente gratuita e immotivata, è un’iniziativa unilaterale da parte di Dio, che non risponde ad alcuna preghiera precedente. Dio è l’unico protagonista di quest’azione. L’azione dello Spirito infatti non si limita a riempire di forza il bambino, come per Giovanni (cfr. v. 15), ma arriva fino a produrre la maternità stessa di Maria, con una potenza fecondatrice che si esprimerà in modo simile nel giorno di Pentecoste (“scenderà su di te/voi”cfr. At 1, 8).

Notevolmente diversa è anche la risposta di Maria. Se Zaccaria afferma l’impossibilità di credere alla parola dell’angelo (v. 18), invece Maria pone una richiesta sulle “modalità” con cui accadrà quanto affermato dall’angelo (v. 34) e gli fornisce l’opportunità  per chiarire il carattere verginale del concepimento. Ella ha bisogno di capire, ma poi si dispone totalmente al servizio della parola di Dio comunicata dall’angelo (v. 38), a differenza di Zaccaria, che rimane chiuso nella sua incredulità (v. 22).

La sproporzione tra Zaccaria e Maria è segnale di un compimento che eccede tutte le umane aspettative e che mostra il peccato dell’uomo nel rimanere chiuso in prospettive anguste e limitate. In Maria si compiono tutte le promesse dell’Antico Testamento (cfr. v. 32 – 33; 2 Sam 7, 12 – 16). Ella è la vergine che concepisce e partorisce il figlio atteso, l’emmanuele, il Dio con noi, (cfr. Is 7, 14) e la gioia a cui la invita l’angelo è quella di Gerusalemme, che vede il Regno di Dio definitivamente instaurato dentro di se (cfr. Zc 9, 9; Sof 3, 14 – 15). La Parola dell’Antico Testamento si compie in lei, piena della grazia di Dio (v. 28) e insieme libera di comprendere e accogliere questa Parola con tutta la sua umanità (v. 38). Questa Parola che non è impossibile a Dio compiere (v. 37) è Gesù, figlio di Davide suo padre (v. 32) e insieme Figlio di Dio (v. 34 cfr. Rm 1, 3 – 4).  La fede di Maria rende possibile il compimento di questo Parola nella sua carne e nella storia dell’umanità.

 

Suggerimenti di preghiera

 

1. Mi dispongo davanti a Dio in preghiera. Sto in ginocchio o seduto, per entrare in colloquio con il Signore, o meditare su ciò che leggo, a seconda di ciò che voglio.

2. Leggo con attenzione il brano di Vangelo.

3. Chiedo al Signore il dono di una conoscenza interiore di lui, che per me si è fatto uomo nel seno della Vergine Maria, per amarlo e seguirlo sempre più.

4. Vedo il percorso dell’angelo, che dal seno di Dio si reca a Nazareth, piccolo villaggio sconosciuto alla periferia dei grandi imperi e del territorio di Israele. La Parola di Dio si compie nell’umiltà e nel nascondimento di una ragazzina di 12 anni, non nelle stanze del potere religioso o politico.

5. Ascolto la voce di Maria che chiede spiegazione all’angelo e poi si affida totalmente a Dio. Lasciandomi ispirare dalle parole dell’angelo, contemplo l’umanità di Maria, che ha bisogno di conoscere, e allo stesso tempo il suo abbandono radicale alla potenza della Parola di Dio.

6. Entro in dialogo con Maria e con Gesù.

7. Concludo con un Padre Nostro.

 

Omelia I Avvento Anno A

 

La pasqua è imminente e Gesù sta per partire dai suoi discepoli. È dunque naturale che cerchi di rassicurarli quanto al suo ritorno. Ma quali saranno i tempi del suo ritorno?

Sarà improvviso, dice Gesù, come il diluvio per la generazione di Noè. A noi questo paragone ci fa un po’ problema, perché Gesù paragona il suo ritorno al tremendo diluvio che ha ucciso un’intera generazione di uomini. Gesù rincara la dose: il figlio dell’uomo verrà come un ladro, quando meno te l’aspetti. Addirittura si paragona ad un ladro, che ti porta via le cose, i beni… ma lui non è forse venuto sulla terra per portarci l’amore di Dio? Perché queste immagini così dure, così legate ad un giudizio, secondo cui di due persone che fanno lo stesso lavoro, uno sarà preso e l’altro lasciato?

La chiave del pensiero di Gesù sta nei verbi che caratterizzano la vita della generazione prediluviana: mangiavano, bevevano, prendevano mogli e  marito. Si tratta  della vita che scorre secondo le sue routines animali, che sembrano non dover mai finire. Questa è la vita secondo l’apparenza, che per molti è l’unica realtà: un’eterno ritorno di atti e di cose senza senso, un processo che si autoalimenta eternamente, in cui si mangia, si beve e si fanno figli senza uno scopo particolare, ma semplicemente perché è la vita che ti porta avanti. Questa era la mentalità della generazione del diluvio e di molti oggi. È una specie di sonno della ragione e dello spirito, che impedisce di andare in profondità, di cogliere la realtà, di stare svegli ed essere sobri.

Vegliate, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà! Vegliate vuol dire state svegli, saper guardare in profondità alla vostra vita, a quel bene, a quell’amore che è seminato in essa e che vi conduce verso orizzonti molto più grandi di quelli che potete immaginare, verso l’orizzonte della vita eterna, del dono di Dio che è per sempre.  Certo, per chi non lo attende e che è rimasto attaccato a tutto ciò che possiede, il figlio dell’uomo verrà come un ladro, a portargli via ciò che ha. Ma a chi lo attende e ha compreso che  Gesù, è l’orizzonte dell’amore di Dio per lui, Gesù sta alla porta e bussa e “se uno mi apre verrò da lui e cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3, 20). Allora il giudizio non sarà più qualcosa che fa paura, ma solo il compimento di una comunione d’amore che è cresciuta lungo tutta una vita…

L’invito di Gesù a stare svegli “spiritualmente” è diametralmente opposto alle tendenze della nostra società,  che ha perso l’orizzonte del definitivo e naviga nelle acque di un’acquietamento irresponsabile delle esigenze della coscienza. Giovani e adulti passano le loro serate facendo uso di alcool, per addormentare le ansie di una vita senza lavoro e senza futuro. Le persone sempre più stressate dalle routine quotidiane devono fare uso di ansiolitici. I ragazzi non riescono più a divertirsi se non addormentandosi con le droghe. Tutto questa  accade proprio mentre c’è più necessità di coscienze sveglie, di energia morale, di educazione ai valori,  perchè assistiamo al ribaltamento  della giustizia e dell’onestà e  alla distruzione del più elementare senso civico in larghi strati della popolazione e nel ceto politico.  Stare svegli vuol dire ritrovare il senso e la gravità dei valori in gioco nella nostra società, del bene comune, che non può esistere senza il senso delle istituzioni, della convivenza civile nell’equilibrio dei poteri, della cura verso i più poveri , gli immigrati e le vittime di ogni violenza. Stare svegli vuol dire ritrovare la passione per la giustizia sociale, per una nuova armonia tra l’uomo e la natura, la passione per l’uomo e il suo destino eterno. Stare svegli vuol dire costruire l’uomo, con amore, con serietà, con passione, giorno dopo giorno, sapendo che l’avvento improvviso del Regno di Dio farà fruttificare in modo definitivo la nostra passione quotidiana.

IL VANGELO DI PAOLO (cfr. DV 17)

Introduzione a Paolo

Per comprendere meglio cos’è il Vangelo alla sua origine e perché ha dato forma ad un genere letterario dobbiamo ricorrere a San Paolo, il primo autore neotestamentario che ha coniato questo termine, prendendolo dalla traduzione greca LXX di Isaia e adattandolo alla sua particolare visione e missione.

Il messaggio di Isaia è di grande consolazione, è un Vangelo per gli umili e i poveri di Sion. In Isaia si trova non a caso una ricorrenza significativa del verbo “evangelizzare”, che sarà poi usato da Paolo e dai Vangeli. Qual è l’esatta connotazione di questo verbo?

In Is 40, 9 il messaggio che il misterioso annunciatore deve portare a Gerusalemme è un evento già verificatosi, ossia la presenza di Dio: “Ecco il vostro Dio”. Dio, attraverso l’annunciatore, esprime un messaggio del quale egli stesso è il contenuto.

In Is 52, 7 – 10  la liberazione e la salvezza di Sion sono una realtà già presente ed accaduta e l’evangelizzatore ha solo il compito di rendere Sion consapevole  che su di essa ormai regna definitivamente il suo Dio. Egli porta in se stesso, nel suo corpo di annunciatore (cfr. i piedi) la bellezza del messaggio che annuncia.

Saranno poi le folle, (Is 60, 6) le moltitudini provenienti da tutte le nazioni ad evangelizzare Gerusalemme, ossia a proclamare la lode del Signore portando tutte le ricchezze del mondo (cammelli, dromedari, oro e incenso).

In Is 61, 1 – 3 il verbo evangelizzare si trova al centro di due verbi di invio profetico (consacrare e mandare) il cui soggetto è Dio. Seguono poi una serie di altre azioni all’infinito (fasciare, gridare, consolare, allietare, dare) che sono tutte specificazioni dell’azione di “evangelizzare”.

Dunque l’azione di evangelizzare in Isaia non è solo un messaggio vocale, ma è una realtà che passa attraverso la persona dell’annunciatore (servo o moltitudini), trasformandolo con la bellezza di ciò che annuncia. Si tratta di Dio stesso e della sua presenza nel popolo, capace di regnare senza più nemici: la parola evangelizzatrice attesta e in certo modo rende presente Dio stesso a Gerusalemme. Evangelizzare comporta quindi anche la proclamazione di quella liberazione e consolazione, che il popolo possiede quando Dio regna su di lui.

Questa digressione isaiana ci aiuta ad comprendere la tematica teologica del Vangelo in Paolo.

 

Nel contesto della prima lettera ai Corinzi, in cui Paolo si mostra preoccupato dell’unità della Chiesa corinzia a causa delle divisioni e fazioni che vi erano nate, a causa di anime pervase da entusiasmi carismatici e da una sapienza umana che tendeva a staccarsi dal Vangelo, alla fine Paolo è costretto a chiarire il “Suo” vangelo, perché i Corinzi vi possano aderire trovando in esso il sostegno della fede e il fondamento dell’unità ecclesiale. Al c. 15 Paolo inizia solennemente introducendo la proclamazione del Vangelo con un avvertimento a mantenerlo nella forma in cui l’hanno ricevuto da lui, perché altrimenti avrebbero creduto invano. Si usano qui dei termini tecnici in greco ( annunciare, ricevere ) che mostrano che qui Paolo sta compiendo un’operazione di trasmissione di un deposito tradizionale che lui stesso ha ricevuto (cfr. 11, 23). Il vangelo che Paolo annunzia non è quindi qualcosa che lui si è inventato, altrimenti avrebbe corso invano (Gal 2, 2), ma che ha ricevuto per rivelazione di Gesù Cristo (1, 12) e confrontandosi con gli apostoli ( 1, 13 ). Ciò dunque che Paolo annuncia lo ha ricevuto per mano di Dio e della Chiesa stessa e in tal modo lo trasmette ai Corinzi perché anch’essi lo ricevano nella stessa forma.  La forma è l’essenza stessa del Vangelo e per questo non deve essere mutata, per la salvezza di coloro che lo ricevono. Il riferimento alla salvezza mostra che il dinamismo del Vangelo oltrepassa la pura e semplice proclamazione orale. Il Vangelo non è semplice annuncio orale ma, come esprime il termine stesso nella sua duplice accezione – esso può indicare sia l’annuncio di vittoria che la ricompensa per tale annuncio – è anche ricompensa interiore ed esteriore (1 Cor 9, 18), ossia giustizia e potenza di Dio che opera per la salvezza (1, 16 – 17) e infine salvezza stessa, attraverso segni e prodigi (Rm 15, 19). Ritroviamo qui l’originaria accezione isaiana di questo termine: evangelizzare significa annunciare da parte di Dio un evento già accaduto, ossia la presenza di Dio e la sua salvezza.

Al v. 3 si ripetono i termini tecnici della trasmissione dopo i quali inizia il contenuto stesso del Vangelo, quello che Paolo ha cura che rimanga nella stessa forma in cui lui stesso l’ha ricevuto. Esso si sviluppa in quattro stichi, con un parallelismo aba’b’. Questo mostra che si tratta proprio di una formula tramandata oralmente, per facilitare la memorizzazione nella comunità cristiana.

A Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture

B e fu sepolto

A’ è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture

B’ e fu manifestato a Cefa e ai dodici.

Si può vedere il parallelismo nel riferimento alla Scritture, nell’opposizione semantica morì / fu risuscitato e nei verbi al passivo fu sepolto / fu manifestato.

Il cuore del Vangelo sta nel mistero Pasquale di Cristo, morto e risorto. Non a caso i racconti della passione e della resurrezione di Cristo sono certamente il nucleo più antico del Vangelo come genere letterario. Tutto si sviluppa attorno a questo nucleo generativo, che è il mistero della passione di Gesù Cristo, della sua morte in croce e della sua resurrezione avvenuta il terzo giorno. Un elemento importante è il riferimento alle Scritture. Gesù è morto e risorto il terzo giorno secondo le Scritture di Israele. In questo evento di morte e resurrezione del messia la prima comunità cristiana ha visto il compimento delle Scritture di Israele, che in questo contesto vengono viste complessivamente alla luce della direttrice profetica, che annunciava il messia trafitto (Zc 12, 10 – 12) e il servo di jhwh sui cui si è abbattuto il castigo che ci da salvezza ( Is 53 ).  Anche l’espressione “terzo giorno” è un luogo teologico classico delle scritture di Israele per indicare la salvezza operata misteriosamente da Dio.

Quindi il Vangelo ha certamente un contenuto, che è la rivelazione di Dio in Gesù Cristo, nella sua morte e resurrezione. Esso è dunque Vangelo di Dio, nel senso che procede da Dio e che ha Dio per oggetto (Rm 1, 1; 15, 16) , e similmente vangelo del Figlio (Rm 1, 9).

L’evento della resurrezione richiede poi dei testimoni, persone dalle quali fu visto Gesù e quindi apparve: Esse sono anzitutto  Cefa e i dodici. Viene confermata la priorità di Pietro all’interno del collegio dei dodici. Attraverso una serie di connessioni con la particella temporale “poi” (epeita) si chiariscono anche gli altri testimoni, più di 500 e poi giacomo e tutti gli apostoli.

Da ultimo, come staccato dal precedente consesso degli apostoli, ma al contempo sempre parte della lista, si colloca Paolo stesso, il quale si rappresenta come un aborto davanti alla manifestazione di Gesù risorto.  L’aborto è immagine profetica e sapienziale (Gb 3, 16) per indicare una promessa di vita e di vocazione che è mancata, ma la grazia di Dio è stata più forte e non è stata vana (1 Cor 15, 10).

Il processo con cui la rivelazione di Dio è entrata nella vita di Paolo e l’ha trasformata è descritto da Paolo stesso con un’immagine legata alla generazione anche nella lettera ai Galati (cfr. 1, 15 – 16). Infatti la sua vocazione è stata una chiamata fin dal grembo della madre, come è avvenuto al profeta Geremia, consacrato, ossia messo a parte da Dio per la sua missione prima che uscisse alla luce della vita (Ger 1, 5; cfr. anche Is 49, 1b). Come per Geremia ( cfr. Ger 15, 10 ) anche per Paolo tale vocazione sembra smentita dai fatti, ma poi per grazia di Dio ritrova la propria fecondità.

Questo processo rigenerativo che si è attuato nella sua persona non è estraneo al Vangelo,anzi proprio il Vangelo è il percorso attraverso cui si compie tale rigenerazione che rende padri, figli e fratelli e che crea la famiglia della comunità cristiana. Scrivendo ai Corinti Paolo stesso ammette di essere lui ad averli generati tramite l’annuncio del Vangelo (1 Cor 4, 15; cfr. anche Gal 4, 18 – 19), ristabilendo la sua priorità rispetto a tutti i maestri e pedagoghi che facevano mostra di sapienza presso la comunità corinzia.

Quindi il Vangelo, oltre a essere di Dio e di Cristo, in senso soggettivo e oggettivo, come abbiamo visto sopra, è anche di Paolo (cfr. Rm 2, 16) sia nel senso che  lui è l’annunciatore, sia in un senso lato, che lui stesso  è in qualche modo oggetto di tale rivelazione, perché la porta nella sua carne. Come già si era visto in Isaia, l’annunciatore porta nel suo corpo la bellezza trasformante del messaggio che annuncia. Paolo è infatti colui che ri – presenta nella sua carne, attraverso le sofferenze legate all’annuncio, Gesù cristo crocifisso (Gal 3, 1), fino al punto di poter affermare che non è più lui a vivere (Gal 2, 20) ma è Cristo a vivere in lui e a produrre nella sua carne i segni della sua presenza (cfr. Gal 6, 17).

 

MOSÈ, PROFETI E ALTRI SCRITTI (DV 14 – 15)

Scheda sui generi letterari dei Salmi

canone biblico

Al termine del vangelo di Luca ( Lc 24, 36 – 47) l’apparizione del risorto a tutta la comunità degli apostoli riunita viene descritta come un’esperienza di incontro umanissimo, tanto che Gesù deve ripetutamente affermare di non essere un fantasma e farsi portare qualcosa da mangiare. Questa realtà della resurrezione viene poi spiegata da Gesù stesso come il compimento di quel mistero di cui Gesù aveva già parlato durante la sua esistenza storica, ossia il mistero racchiuso nelle Scritture di Israele, distinte in Mosè, profeti e Salmi.

Due elementi intendiamo qui approfondire:

1. il cuore delle Scritture è nel mistero pasquale di Cristo.

2. la tripartizione in Mosè, profeti e scritti non è solo occasionale ma significativa per una teologia dell’Antico Testamento.

1. Al v. 46 la lunga citazione delle parola di Gesù è aperta da un “così sta scritto”, che introduce chiaramente il riferimento alla Scrittura. Gesù risorto diviene quindi esegeta, così come aveva già fatto con i discepoli di Emmaus, per racchiudere in una formulazione sintetica, alla luce della sua persona, tutto il contenuto delle Scritture di Israele. Egli, attraverso la parabola storica della sua vita, morte e resurrezione, diviene nel suo stesso corpo risorto il principio ermeneutico chiave di tutta la Scrittura. Tutta la Scrittura, infatti, non fa altro che affermare le sofferenze del messia e la sua resurrezione il terzo giorno, ed anche la predicazione, nel suo nome, della conversione e del perdono dei peccati a tutti i popoli, cominciando da Gerusalemme. Il contenuto della Scrittura, considerata nella sua globalità, è quindi da un lato il mistero pasquale di Cristo, la sua morte e resurrezione, e dall’altro la predicazione apostolica ed ecclesiale che sotto la spinta dello Spirito Santo porta a compimento la partecipazione di tutti i popoli a questo mistero. Se infatti la morte e resurrezione di Cristo è un evento sperimentato come puntuale dalla comunità apostolica, la predicazione e la testimonianza, cominciando da Gerusalemme, estende nello spazio e nel tempo della storia la partecipazione al mistero pasquale.

I testi dell’antico testamento sono attraversati da una corrente vitale, un’energia teleologica, finalizzata, che impedisce ad essi di fissarsi su se stessi e che li proietta costantemente in avanti, verso il loro compimento. Questa corrente vitale non poteva sostenersi storicamente se non fondandosi su circoli “ispirati”, che non si sono limitati a ripetere gli schemi dei loro ambienti di provenienza sociale, di tipo sacerdotale, o sapienziale / regale, ma hanno fortemente innovato e raffinato la sensibilità religiosa del popolo di Dio, anche attraverso gravi polemiche e frizioni con le classi dominanti. Intendo parlare dei circoli profetici. La profezia è un fenomeno particolare, presente non solo in Israele ma anche nei popoli mediorientali. Tuttavia solo in Israele essa ha costituito in modo così radicale la coscienza critica del popolo dal punto di vista della relazione con Dio, pagandone le conseguenze in modo diretto e personale. La critica ai sacrifici e al tempio e ad una religiosità appagata dalle forme e incapace di una sintesi tra culto e vita, il sincretismo cultico, la ricerca di appoggi politici con grandi imperi erano interpretati come segni di un abbandono del Dio vivente a cui sarebbe seguita una catastrofe salutare, quella dell’esilio. Catastrofe dell’esilio come mutamento delle sorti, come passaggio radicale dal negativo al positivo, dove il popolo sperimenta la vicinanza benevola di Dio e il suo sostegno.

Il profeta si inserisce in questo contesto come colui che prima annuncia la sventura e poi annuncia la salvezza, perché Dio non punisce se non per salvare e usare misericordia. Non solo, ma egli stesso nel suo corpo e nella sua esistenza paga il peccato del popolo, subendo l’opposizione e il rigetto. Il profeta stesso, dunque, assume su di se il destino di Gerusalemme e del suo popolo.

La tradizione isaiana, meditando su questo, va oltre. Ad essa infatti dobbiamo la figura del servo sofferente, colui che non si limita a condividere, ma assume su di se ed espia il peccato del popolo e per questo viene saziato da Dio e riceve in eredità le moltitudini ( Is 53, 10 – 11 ).

Figura misteriosa che assume i tratti del popolo stesso, perseguitato ed esiliato, e di un singolo profeta come Mosè o come Geremia, il servo sofferente di jhwh è anche l’annuncio di un futuro profeta. In questa figura si collegano le origini, Mosè, che dalla tradizione profetica e deuteronomica viene interpretato come un profeta, e la fine, dove questo servo diviene “luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra”. Non a caso il terzo Isaia sviluppa l’annuncio della salvezza delle nazioni, che ricostruiranno le mura di Gerusalemme ( cfr. Is 60, 10 ).

Non è allora difficile comprendere come al cuore di questa tensione, di questa direttrice profetica delle Scritture di Israele, vi sia ciò che Gesù svela come il mistero dei patimenti e della resurrezione nel terzo giorno del Cristo, nel cui nome “saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme”.

2. Tutta la Scrittura risulta composta di tre parti: legge di Mosè, profeti e Salmi. Questa tripartizione, presente già nel libro del Siracide (cfr.prologo del Siracide, che parla di legge, profeti e scritti successivi) e nel giudaismo intertestamentario (cfr. Talmud Babilonese, Baba Batra 14b; Ketubot 50a), vuole indicare la globalità delle Scritture Sacre dell’Antico Testamento, con una chiara distinzione tra i libri della legge di Mosè (Pentateuco), che parlano dell’evento fondatore del popolo di Israele, ossia l’esodo e il dono della legge sul monte Sinai, e i profeti (cfr. scheda su canone). C’è poi una terza classe di scritti, qui rappresentata dai Salmi, e che più genericamente viene indicata come libri di sapienza.Cosa può indicare questa tripartizione? Essa può avere una rilevanza per una teologia dell’Antico Testamento? Sarebbe auspicabile che una riflessione su questo modello tripartito dell’Antico Testamento, ci aiutasse a comprendere il suo compimento nel mistero pasquale e nell’annuncio del Vangelo senza svuotarlo di consistenza e autonomia (modello di sostituzione, cfr. lezione precedente), anzi proprio valorizzando la storia di rivelazione in esso contenuta. Il nostro obiettivo è dunque mostrare che la lettura canonica dell’AT, secondo le parola affidate al Gesù risorto da Luca, non aggiunge un principio ermeneutico estrinseco al testo stesso dell’AT, ma obbedisce a linee di sviluppo interne ad esso.

C’è anzitutto il Pentateuco, con i suoi cinque libri ( Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio ) che per la tradizione, anche ebraica, risale integralmente a Mosè. Oggi sappiamo bene che ben poco è stato scritto dalla stessa mano di Mosè, ma quello che tale tradizione ci riporta è un contenuto di verità teologica. Fino al Deuteronomio, in cui il popolo si trova alle porte della terra promessa, ma ancora non la possiede e Mosè è ancora in vita, siamo nel contesto dell’evento fondatore di Israele, ossia dell’uscita dall’Egitto, del passaggio nel deserto e della consegna della legge sul monte Sinai. Mosè infatti muore prima di entrare nella terra promessa. L’evento fondatore del popolo di Israele viene riletto nella storia alla luce dell’infedeltà di Israele e della fedeltà di Dio, manifestata attraverso i profeti. Così Mosè stesso assume una connotazione profetica: egli è infatti il profeta potente, che il signore conosceva faccia a faccia che aveva operato con segni e prodigi nella terra d’Egitto contro il faraone ( Dt 34, 10 – 12 ) e che annuncia l’arrivo di un profeta come lui, a cui il popolo dovrà dare ascolto ( Dt 18, 15 – 22 ). Egli è colui che accusa il popolo dopo il suo peccato di idolatria e poi intercede per lui presso Dio (cfr. Es 32, 21 – 35), anticipando le caratteristiche del ministero profetico.

I profeti infatti attualizzano nell’oggi il tempo fondatore dell’origine. Se il popolo non è più nel deserto, luogo in cui sperimenta il fidanzamento con Dio (Ger 2, 2), se oggi si trova nella terra che il Signore gli ha dato, deve ricordarsi che essa è dono di JHWH. Deve dunque ricordarsi che egli stesso appartiene a jhwh e ha con lui un rapporto d’amore, di possesso, assimilabile a quello di un matrimonio. Il castigo di Dio è ciò che permette al popolo di rendersi conto di questa appartenenza ed è poi il Signore stesso a farlo tornare a lui. Il ruolo del profeta e del servo è di effettuare la mediazione nell’alleanza tra Dio e il suo popolo, attraverso un’insieme di atti di accusa e di intercessione e profezie di salvezza.

La sapienza allarga la dimensione dell’oggi della salvezza al sempre della riflessione universale. La dinamica storica di peccato e salvezza viene fatta oggetto di una meditazione sul funzionamento generale della giustizia divina tramite il principio di retribuzione e la sua critica. I proverbi istruiscono il giovane al principio di retribuzione divina, per il quale la benedizione e maledizione di Dio scaturIscono dal comportamento sapiente dell’uomo. I saggi esilici e postesilici, come Giobbe e Qohelet estendono tale riflessione all’esperienza di una sofferenza non meritata, di un castigo in fondo inspiegabile e ingiustificabile. La lotta del saggio sofferente con Dio per comprenderne la giustizia è l’altro versante della preghiera di supplica del giusto sofferente (cfr. Sal 22). La comprensione di Giobbe, così come la lode del giusto nella sventura, scaturisce da un improvvisa risposta salvifica di Dio, che non spiega ma fa entrare nel suo mistero amoroso. Supplica e lode indissolubilmente legate nella memoria salvifica dell’agire di Dio sono al cuore del libro dei Salmi, che permette di accedere alla coscienza credente dell’uomo che soffre e gioisce  che trova nella relazione con Dio il senso di quanto vive (Cfr,. scheda su generi letterari dei Salmi). Dietro a questa figura si intravede il corpo sofferente del popolo stesso in esilio, che cerca motivazioni teologiche per la sventura subita e allarga il raggio della sua riflessione all’esperienza fondamentale di ogni uomo.

Come si può vedere nella sapienza viene ricapitolata e allargata ad un orizzonte universale l’esperienza di salvezza del popolo in mezzo alla sventura e alla concreta possibilità della fine. Nei primi capitoli della Genesi (Gn 1 – 11) la riflessione sapienziale dei circoli deuteronomistico – profetici e sacerdotali arriva a comprendere i giorni della creazione dell’uomo e l’origine dell’umanità nel bene e nel male. Qui la storia di Noè servo di Dio (Gn 6 – 9) racconta come il disordine causato dall’umanità provoca la morte dell’umanità stessa e la rigenerazione può avvenire solo grazie all’obbedienza del servo. Come si vede si tratta ancora una volta di una generalizzazione universalistica dell’esperienza di fede dello stesso Israele.

Come abbiamo potuto solo intravedere il criterio canonico di lettura delle Scritture non è estrinseco a questi testi, ma obbedisce ad una direzione teleologica presente negli stessi testi. Il loro senso non si esaurisce nell’intenzione storica del singolo Scrittore sacro ma tende a generare una serie di testi, in una linea che trova il suo compimento nel mistero pasquale di Cristo.

Lettura e preghiera di Mt 24, 37 – 44. I Avvento, anno A.

SCHEDA DI LETTURA I Avvento TO Anno A per accompagnatori.

 

Lettura e preghiera di Mt 24, 37 – 44. I Avvento, anno A.

Questo discorso di Gesù che leggiamo nella prima domenica di Avvento è parte di un più ampio contesto, in cui Gesù risponde alla domanda dei discepoli: “dicci quando accadranno queste cose e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo (Mt 24, 3b)”.  Il cuore del messaggio di Gesù è l’attesa della sua venuta, la “parusìa”.  Egli è il risorto e nel tempo della storia è colui che guida il diffondersi del vangelo fino ai confini del mondo (24, 14) mentre si diffondono segnali di distruzione (guerre, carestie e terremoti) ma che non sono ancora segno della fine (cfr. vv. 6 – 8). L’ora della fine è infatti sconosciuta (v. 36). Si tratta di qualcosa di improvviso, di cui gli uomini non si rendono conto, immersi come sono nei loro affari quotidiani, esattamente come era accaduto per la generazione di Noè (v. 37).  In superficie tutto sembra scorrere secondo l’ordinarietà più tranquilla: la vita continua attraverso le routine quotidiane del mangiare e bere e la formazione di nuove famiglie (v. 38). L’apparenza di una vita che continua nella sua autonomia sembra costituire una buona motivazione per non porsi troppe domande sul senso delle cose e su Dio.  Tuttavia il giudizio è già in atto, un giudizio che riguarda le azioni degli uomini e il loro orientamento al vero e al bene e che improvvisamente viene manifestato attraverso il diluvio (cfr. 1 Ts 5, 1 – 11). Perchè il diluvio? Perché solo la distruzione di ciò in cui l’uomo confida gli consente di rendersi conto che la verità della sua esistenza non risiede in se stesso e nella superfice della sua esistenza, ma in Dio (vv. 40 – 42). Vegliare (v. 42) significa mantenere costantemente questa consapevolezza, che l’esistente è provvisorio. Poichè l’ora della venuta del figlio dell’uomo è sconosciuta, si deve vivere nella costante attesa del suo ritorno (v. 44). Se per coloro che non l’aspettano il figlio dell’uomo viene come un ladro, nella prospettiva del giudizio (v. 43 cfr. Ap 3, 3), invece per coloro che l’aspettano l’incontro sarà fonte di gioia e di pace (cfr. Ap 3, 20).

 

Suggerimenti per la preghiera

1. Mi dispongo davanti a Dio in preghiera. Sto in ginocchio o seduto, per entrare in colloquio con il Signore, o meditare su ciò che leggo, a seconda di ciò che voglio.

2. Leggo con attenzione il brano di Vangelo.

3. Chiedo al Signore il dono della sapienza evangelica, che mi permette di mantenere il cuore libero per Dio e per il Suo Regno.

4. Rifletto sul fatto che sono anche oggi davanti alla decisione fondamentale della mia vita, vegliare nell’attesa del Signore, oppure lasciarmi andare al sonno di colui che è immerso nella routine delle cose.

5. Metto davanti a Dio tutto ciò che ingombra il mio cuore, tutto ciò a cui sono affezionato e attaccato in modo eccessivo, facendo consistere in esso la mia realizzazione e felicità. Chiedo una fede salda nel Signore.

6. Entro in colloquio con Gesù e concludo con un Padre Nostro