Scheda sui generi letterari dei Salmi
canone biblico
Al termine del vangelo di Luca ( Lc 24, 36 – 47) l’apparizione del risorto a tutta la comunità degli apostoli riunita viene descritta come un’esperienza di incontro umanissimo, tanto che Gesù deve ripetutamente affermare di non essere un fantasma e farsi portare qualcosa da mangiare. Questa realtà della resurrezione viene poi spiegata da Gesù stesso come il compimento di quel mistero di cui Gesù aveva già parlato durante la sua esistenza storica, ossia il mistero racchiuso nelle Scritture di Israele, distinte in Mosè, profeti e Salmi.
Due elementi intendiamo qui approfondire:
1. il cuore delle Scritture è nel mistero pasquale di Cristo.
2. la tripartizione in Mosè, profeti e scritti non è solo occasionale ma significativa per una teologia dell’Antico Testamento.
1. Al v. 46 la lunga citazione delle parola di Gesù è aperta da un “così sta scritto”, che introduce chiaramente il riferimento alla Scrittura. Gesù risorto diviene quindi esegeta, così come aveva già fatto con i discepoli di Emmaus, per racchiudere in una formulazione sintetica, alla luce della sua persona, tutto il contenuto delle Scritture di Israele. Egli, attraverso la parabola storica della sua vita, morte e resurrezione, diviene nel suo stesso corpo risorto il principio ermeneutico chiave di tutta la Scrittura. Tutta la Scrittura, infatti, non fa altro che affermare le sofferenze del messia e la sua resurrezione il terzo giorno, ed anche la predicazione, nel suo nome, della conversione e del perdono dei peccati a tutti i popoli, cominciando da Gerusalemme. Il contenuto della Scrittura, considerata nella sua globalità, è quindi da un lato il mistero pasquale di Cristo, la sua morte e resurrezione, e dall’altro la predicazione apostolica ed ecclesiale che sotto la spinta dello Spirito Santo porta a compimento la partecipazione di tutti i popoli a questo mistero. Se infatti la morte e resurrezione di Cristo è un evento sperimentato come puntuale dalla comunità apostolica, la predicazione e la testimonianza, cominciando da Gerusalemme, estende nello spazio e nel tempo della storia la partecipazione al mistero pasquale.
I testi dell’antico testamento sono attraversati da una corrente vitale, un’energia teleologica, finalizzata, che impedisce ad essi di fissarsi su se stessi e che li proietta costantemente in avanti, verso il loro compimento. Questa corrente vitale non poteva sostenersi storicamente se non fondandosi su circoli “ispirati”, che non si sono limitati a ripetere gli schemi dei loro ambienti di provenienza sociale, di tipo sacerdotale, o sapienziale / regale, ma hanno fortemente innovato e raffinato la sensibilità religiosa del popolo di Dio, anche attraverso gravi polemiche e frizioni con le classi dominanti. Intendo parlare dei circoli profetici. La profezia è un fenomeno particolare, presente non solo in Israele ma anche nei popoli mediorientali. Tuttavia solo in Israele essa ha costituito in modo così radicale la coscienza critica del popolo dal punto di vista della relazione con Dio, pagandone le conseguenze in modo diretto e personale. La critica ai sacrifici e al tempio e ad una religiosità appagata dalle forme e incapace di una sintesi tra culto e vita, il sincretismo cultico, la ricerca di appoggi politici con grandi imperi erano interpretati come segni di un abbandono del Dio vivente a cui sarebbe seguita una catastrofe salutare, quella dell’esilio. Catastrofe dell’esilio come mutamento delle sorti, come passaggio radicale dal negativo al positivo, dove il popolo sperimenta la vicinanza benevola di Dio e il suo sostegno.
Il profeta si inserisce in questo contesto come colui che prima annuncia la sventura e poi annuncia la salvezza, perché Dio non punisce se non per salvare e usare misericordia. Non solo, ma egli stesso nel suo corpo e nella sua esistenza paga il peccato del popolo, subendo l’opposizione e il rigetto. Il profeta stesso, dunque, assume su di se il destino di Gerusalemme e del suo popolo.
La tradizione isaiana, meditando su questo, va oltre. Ad essa infatti dobbiamo la figura del servo sofferente, colui che non si limita a condividere, ma assume su di se ed espia il peccato del popolo e per questo viene saziato da Dio e riceve in eredità le moltitudini ( Is 53, 10 – 11 ).
Figura misteriosa che assume i tratti del popolo stesso, perseguitato ed esiliato, e di un singolo profeta come Mosè o come Geremia, il servo sofferente di jhwh è anche l’annuncio di un futuro profeta. In questa figura si collegano le origini, Mosè, che dalla tradizione profetica e deuteronomica viene interpretato come un profeta, e la fine, dove questo servo diviene “luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra”. Non a caso il terzo Isaia sviluppa l’annuncio della salvezza delle nazioni, che ricostruiranno le mura di Gerusalemme ( cfr. Is 60, 10 ).
Non è allora difficile comprendere come al cuore di questa tensione, di questa direttrice profetica delle Scritture di Israele, vi sia ciò che Gesù svela come il mistero dei patimenti e della resurrezione nel terzo giorno del Cristo, nel cui nome “saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme”.
2. Tutta la Scrittura risulta composta di tre parti: legge di Mosè, profeti e Salmi. Questa tripartizione, presente già nel libro del Siracide (cfr.prologo del Siracide, che parla di legge, profeti e scritti successivi) e nel giudaismo intertestamentario (cfr. Talmud Babilonese, Baba Batra 14b; Ketubot 50a), vuole indicare la globalità delle Scritture Sacre dell’Antico Testamento, con una chiara distinzione tra i libri della legge di Mosè (Pentateuco), che parlano dell’evento fondatore del popolo di Israele, ossia l’esodo e il dono della legge sul monte Sinai, e i profeti (cfr. scheda su canone). C’è poi una terza classe di scritti, qui rappresentata dai Salmi, e che più genericamente viene indicata come libri di sapienza.Cosa può indicare questa tripartizione? Essa può avere una rilevanza per una teologia dell’Antico Testamento? Sarebbe auspicabile che una riflessione su questo modello tripartito dell’Antico Testamento, ci aiutasse a comprendere il suo compimento nel mistero pasquale e nell’annuncio del Vangelo senza svuotarlo di consistenza e autonomia (modello di sostituzione, cfr. lezione precedente), anzi proprio valorizzando la storia di rivelazione in esso contenuta. Il nostro obiettivo è dunque mostrare che la lettura canonica dell’AT, secondo le parola affidate al Gesù risorto da Luca, non aggiunge un principio ermeneutico estrinseco al testo stesso dell’AT, ma obbedisce a linee di sviluppo interne ad esso.
C’è anzitutto il Pentateuco, con i suoi cinque libri ( Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio ) che per la tradizione, anche ebraica, risale integralmente a Mosè. Oggi sappiamo bene che ben poco è stato scritto dalla stessa mano di Mosè, ma quello che tale tradizione ci riporta è un contenuto di verità teologica. Fino al Deuteronomio, in cui il popolo si trova alle porte della terra promessa, ma ancora non la possiede e Mosè è ancora in vita, siamo nel contesto dell’evento fondatore di Israele, ossia dell’uscita dall’Egitto, del passaggio nel deserto e della consegna della legge sul monte Sinai. Mosè infatti muore prima di entrare nella terra promessa. L’evento fondatore del popolo di Israele viene riletto nella storia alla luce dell’infedeltà di Israele e della fedeltà di Dio, manifestata attraverso i profeti. Così Mosè stesso assume una connotazione profetica: egli è infatti il profeta potente, che il signore conosceva faccia a faccia che aveva operato con segni e prodigi nella terra d’Egitto contro il faraone ( Dt 34, 10 – 12 ) e che annuncia l’arrivo di un profeta come lui, a cui il popolo dovrà dare ascolto ( Dt 18, 15 – 22 ). Egli è colui che accusa il popolo dopo il suo peccato di idolatria e poi intercede per lui presso Dio (cfr. Es 32, 21 – 35), anticipando le caratteristiche del ministero profetico.
I profeti infatti attualizzano nell’oggi il tempo fondatore dell’origine. Se il popolo non è più nel deserto, luogo in cui sperimenta il fidanzamento con Dio (Ger 2, 2), se oggi si trova nella terra che il Signore gli ha dato, deve ricordarsi che essa è dono di JHWH. Deve dunque ricordarsi che egli stesso appartiene a jhwh e ha con lui un rapporto d’amore, di possesso, assimilabile a quello di un matrimonio. Il castigo di Dio è ciò che permette al popolo di rendersi conto di questa appartenenza ed è poi il Signore stesso a farlo tornare a lui. Il ruolo del profeta e del servo è di effettuare la mediazione nell’alleanza tra Dio e il suo popolo, attraverso un’insieme di atti di accusa e di intercessione e profezie di salvezza.
La sapienza allarga la dimensione dell’oggi della salvezza al sempre della riflessione universale. La dinamica storica di peccato e salvezza viene fatta oggetto di una meditazione sul funzionamento generale della giustizia divina tramite il principio di retribuzione e la sua critica. I proverbi istruiscono il giovane al principio di retribuzione divina, per il quale la benedizione e maledizione di Dio scaturIscono dal comportamento sapiente dell’uomo. I saggi esilici e postesilici, come Giobbe e Qohelet estendono tale riflessione all’esperienza di una sofferenza non meritata, di un castigo in fondo inspiegabile e ingiustificabile. La lotta del saggio sofferente con Dio per comprenderne la giustizia è l’altro versante della preghiera di supplica del giusto sofferente (cfr. Sal 22). La comprensione di Giobbe, così come la lode del giusto nella sventura, scaturisce da un improvvisa risposta salvifica di Dio, che non spiega ma fa entrare nel suo mistero amoroso. Supplica e lode indissolubilmente legate nella memoria salvifica dell’agire di Dio sono al cuore del libro dei Salmi, che permette di accedere alla coscienza credente dell’uomo che soffre e gioisce che trova nella relazione con Dio il senso di quanto vive (Cfr,. scheda su generi letterari dei Salmi). Dietro a questa figura si intravede il corpo sofferente del popolo stesso in esilio, che cerca motivazioni teologiche per la sventura subita e allarga il raggio della sua riflessione all’esperienza fondamentale di ogni uomo.
Come si può vedere nella sapienza viene ricapitolata e allargata ad un orizzonte universale l’esperienza di salvezza del popolo in mezzo alla sventura e alla concreta possibilità della fine. Nei primi capitoli della Genesi (Gn 1 – 11) la riflessione sapienziale dei circoli deuteronomistico – profetici e sacerdotali arriva a comprendere i giorni della creazione dell’uomo e l’origine dell’umanità nel bene e nel male. Qui la storia di Noè servo di Dio (Gn 6 – 9) racconta come il disordine causato dall’umanità provoca la morte dell’umanità stessa e la rigenerazione può avvenire solo grazie all’obbedienza del servo. Come si vede si tratta ancora una volta di una generalizzazione universalistica dell’esperienza di fede dello stesso Israele.
Come abbiamo potuto solo intravedere il criterio canonico di lettura delle Scritture non è estrinseco a questi testi, ma obbedisce ad una direzione teleologica presente negli stessi testi. Il loro senso non si esaurisce nell’intenzione storica del singolo Scrittore sacro ma tende a generare una serie di testi, in una linea che trova il suo compimento nel mistero pasquale di Cristo.