Il potere della croce

Omelia per Cristo re, Anno C

Il re è colui che detiene il potere, che concentra nella sua persona il controllo di tutte le leve che, una volta azionate, cambiano le strutture e la società. Gesù è re, perchè ha certamente un potere in grado di cambiare, di trasformare radicalmente il mondo. Ma in che senso? Non si tratta di una potenza che opera sul piano delle strutture immediatamente politico – economiche, per impedire o favorire l’aggregarsi di forze, in grado di repererire e controllare energia, materie, o anche informazione, che è il petrolio dei nostri tempi. è una potenza che opera radicalmente a monte, in ciò che origina ogni movimento esterno, in quel luogo invisibile che è il cuore umano e la sua intenzionalità. è una potenza che opera un cambiamento, un ribaltamento radicale, che plasma il cuore dell’uomo e lo rende veramente umano, capace di riconoscere la bontà, l’innocenza e la verità.
Come si converte il buon ladrone? Precisamente riconoscendo l’innocenza di Gesù, la sua sofferenza innocente, come una potenza in grado di salvarlo. Questo è il grande ribaltamento, la grande trasformazione operata dalla croce di Cristo, ossia riconoscere che il vero potere non opera sul piano visibile delle potenze derivate, quelle che l’uomo può manovrare, ma sul piano invisibile dell’amore, un’amore che soffre per noi, che si dona, che perdona, un amore il cui simbolo e la cui manifestazione piena risiede nella croce. La leva del potere più grande della storia, un potere in grado di ribaltare la storia è la croce e Gesù è il re che l’ha azionata per primo, causando una catena incontrollabile di ribaltamenti, in terra e in cielo.
Non sono i potenti che si tengono strette le loro cariche per salvarsi a cambiare la società ma la croce di colui che non ha salvato se stesso per salvare gli altri. Questa croce oggi si trova nelle terre dimenticate dell’Africa, li dove si consuma il sacrificio economico degli ultimi della terra; si trova tra le onde del mar mediterraneo, li dove tante donne e bambini sono morti in cerca di una migliore speranza; si trova nelle stanze degli ospedali, dove si consuma il dramma di anziani che muoionno in solitudine o di bambini a cui non è stata concessa la libertà di nascere. Questi sono coloro che cambieranno il mondo, grazie alla potenza trasformante dell’amore di Dio. Anzi l’hanno già cambiato, perchè la grazia ha già operato in loro, in modi a noi sconosciuti per costruire il Regno di Dio, un regno che poggia sulle fondamenta degli ultimi della terra.
Anche nella nostra vita personale non sono sempre i nostri successi ad indicare la verità più profonda di noi stessi, e a cambiarci, a trasformarci nella capacità di riconoscere il bene che è intorno a noi, ma le nostre sconfitte. è dentro ai contrasti, alle difficoltà nel lavoro che io scopro che gli altri esistono e che il progetto di Dio per me non si riduce ad un disegno teorico partorito dalla mia mente. è dentro alle fatiche di un rapporto matrimoniale che scopro come l’altro non è riducibile ad una risposta ai miei bisogni, e che la mia vocazione è qualcosa che mi supera infinitamente, un dono che passa attraverso la croce per generare il bene e l’amore. è dentro al la sofferenza che genera l’educare quando sembra che nulla dei nostri sforzi passi, che i miglioramenti e i cambiamenti siano troppo lenti per poter essere attribuiti a qualche merito di colui che educa… precisamente in questo momento il sacrificio di colui che si dona ha un senso e opera il cambiamento attraverso la legge della croce che il Signore Gesù ha promulgato come re.
Sacrificio è certamente una parola scomoda e ambigua. Ma il sacrificio del re che governa la storia sulla croce non è altro che il dono dell’amore di Dio, un dono capace di vincere ogni ingiustizia, ogni tentazione verso i male e lo scoraggiamento che può attraversare l’uomo che soffre e combatte in questa vita.

IL PROFETA ISAIA E L’ISPIRAZIONE (DV III, 11)

Scheda su storia biblica

In Es 33, 11 si legge che il Signore parlava con Mosè faccia a faccia. Ma il profeta Isaia scrive: “Io ho visto il Signore”(6, 1). Su Mosè scrive qualcun altro mentre il profeta parla in prima persona e ha un’esperienza sconvolgente e diretta della presenza del Signore, che poi si traduce in una parola da annunciare.

Egli appartiene alla classe sacerdotale ed incontra il Signore nel tempio dove riceve il mandato da parte di Dio stesso, in una visione in cui la presenza bruciante degli angeli Serafini loda il Signore tre volte santo, il cui lembo della veste riempie il tempio.  Se Dio è santo nulla lo può toccare, neanche l’angelo, che infatti può toccare il fuoco soltanto con le pinze, per bruciare l’impurità delle labbra del profeta.

Con le labbra purificate Isaia potrà fare esercizio di “parrhesia” ossia di franchezza e di schiettezza nei confronti del suo popolo, condannandone l’ipertrofia religiosa, scollegata da un’autentico esercizio della giustizia (cfr. 5, 8 – 25)

Poi parlerà al re di Gerusalemme Acaz, nei giorni dell’assedio del re di Damasco Rezin e del re Di Samaria Pecah. L’ appello del profeta al re è quello di credere, perché credere (aman) da stabilità e resistenza (7, 9), a Gerusalemme, città della pace, nella quale scorrono piano le acque della fonte di Siloe (8, 6). Il profeta invita il suo re e il suo popolo a non strafare né cercare aiuti dagli Assiri, ma credere nella potenza di Dio.

Credere significa allora sapere che il Signore darà un segno nel corpo di un bambino, incarnazione di tutte le promesse di Dio, il cui nome è Emmanuele, che significa Dio con noi. Questo bambino è il simbolo stesso di Gerusalemme, che per quanto in pericolo e sofferente per l’imminente invasione assira, sarà nutrito anch’esso di panna e di miele (7, 10 – 25).  Questo segno, piccolo e ancora da vedere, a sentire Isaia, ricopre tutta la misura del cosmo, perché avviene dal profondo degli inferi oppure lassù in alto. Sembra qui essere ricordata la promessa della progenie della donna, destinata a sconfiggere il nemico (cfr. Gn 3, 15) e la traduzione greca parlerà di una vergine, parthenos.  L’apocalisse porterà a compimento questo percorso con il segno grandioso della donna che soffre nelle doglie del parto per mettere al mondo l’umanità nuova, dall’alto (cfr. Ap 12, 1 – 2).

Questa promessa verrà successivamente ripresa, e associata alla fine delle guerre (Is 9, 3 – 6) e la vita si riconsoliderà come un germoglio che nasce, come il trono di Davide (Is 9, 5). In Is 11 la promessa riguarda una giustizia che rispetta i deboli (Is 11, 3 – 5),  attraverso un re che trionfa certamente, ma solo per mezzo della parola, per ristabilire una pace di carattere cosmico ed ecologico.

Il profeta Isaia parla in un tempo preciso e datato (734 – 701) e la sua parola è il frutto di una vocazione di Dio. Egli invita a confidare in Dio pur dentro la precaria situazione politica del regno di Giuda. Egli annuncia il segno di un bambino che nasce, segno umano e al tempo stesso cosmico, segno che rappresenta una rinascita della monarchia davidica e al tempo stesso il popolo nella sua globalità. Il bambino è segno del giudizio di Dio per la misericordia. Il profeta parla “per ispirazione”, dentro alla sua concezione del mondo e della storia, dentro alla sua contestazione della classe politica e sacerdotale di Israele dentro alle forme letterarie che egli utilizza passa la Parola di Dio, una Parola destinata ad attraversare i sentieri della storia, ben oltre la vicenda storica del profeta. Non è Dio che detta antecedentemente le parole da lui pronunziate, perché Isaia è un vero autore. Non è Dio che successivamente approva le parole di Isaia come ispirate. Piuttosto è Dio che dentro alla sensibilità e al discernimento storico di Isaia, dentro alle parole storiche del profeta, entra con la Sua Parola e la rende eterna.

Almeno due secolo più tardi, nel corso dell’esilio in Babilonia della popolazione di Giuda, una serie di oracoli annunciano il ritorno dei deportati, in una visione di gioia e di festa nella quale Gerusalemme viene dipinta come una madre che finalmente ha ritrovato la sua fecondità dopo anni di vedovanza. All’interno di questa raccolta dalla tonalità fortemente positiva e tutta protesa al futuro (Is 40 – 55), denominata deutero – Isaia, si trovano quattro poemi, detti canti del servo (Is 42, 1 – 9; Is 49, 1 – 7; Is 50, 4 – 11: Is 52, 13 – 53, 12). Nel primo poema è Dio a parlare e chiamare il suo servo di cui egli si compiace, e che ha una missione universale, rivolta a tutte le nazioni e segnalata dallo stile della mitezza. Nel secondo poema Is 49, 1 – 7 è il servo stesso a parlare, chiarendo di essere stato chiamato fin dal grembo materno (vv. 1b. 5) come servo di Dio: “Mio servo tu sei”. Gli interlocutori/testimoni del servo sono le isole e le nazioni lontano (v. 1) , perché la missione ricevuta da Dio è di portare la salvezza di Dio fino ai confini della terra (v. 6). Il terzo canto (Is 50, 4 – 11) è pronunciato dal servo in prima persona: egli si autodefinisce come lingua e orecchi da discepolo, che sta in umile e riverente ascolto del suo Dio e che per questo trova la forza di indurire la faccia dinanzi agli insulti e agli sputi. È Dio a salvarlo (v. 9). Nel quarto canto non c’è più la voce del servo, sostituita da una collettività non ben identificata . Essi sono testimoni coinvolti nella sua vicenda, che ha avuto una fine tremenda. È stato ucciso.

Il gruppo di spettatori da una testimonianza molto importante, di un cambiamento di mentalità, ossia di una conversione che essi hanno attraversato. Prima giudicavano questo servo percosso da Dio ed umiliato (v. 4), cadendo in quel facile e triste meccanismo antropologico per cui dalla situazione sofferente di una persona si tende a dedurre una qualche colpevolezza, come motivazione almeno recondita. Poi hanno capito che “con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo” (v. 8) e che non vi era inganno nella sua bocca ne aveva commesso violenza (v. 9). Cosa ha prodotto tale conversione dello sguardo? Sono gli stessi testimoni a rivelarlo quando affermano di “essere stati guariti per le sue piaghe”.

Questo servo non risponde al peccato e alla violenza con una violenza fustigatrice di segno opposto, anzi egli si lascia umiliare, senza aprire la bocca (v. 7). Il suo silenzio era già stato anticipato nel primo poema (Is 42, 2 – 3) come forma di mitezza e misericordia. Come Geremia, imprigionato e gettato in un pozzo e poi alla fine trascinato in Egitto da un gruppo di ribelli, questo servo subisce nel suo corpo il destino a cui porta il peccato del popolo. Più di Geremia egli offre se stesso in sacrificio di riparazione, addossandosi l’iniquità del suo popolo, e compiendo la  volontà del Signore per giustificare le moltitudini (v. 10).  Egli è morto ma nello stesso tempo vive, generando le moltitudini.

Gerusalemme è ormai una sposa che deve esultare per il numero di figli che arriveranno da lei (Is 54, 1; 60), grazie a questo servo che Dio ha consacrato con l’unzione perché evangelizzi i poveri  (cfr. Is 61, 1).  In un tempo in cui il ritorno effettivo dall’esilio, modesto e ostacolato da problemi ed egoismi (cfr. Is 56, 10 – 12), aveva spento i grandi entusiasmi iniziali si rinnova la promessa di un messia, un unto di spirito santo che porta la consolazione agli afflitti ( Is 61, 2-3).

Siamo ormai al termine dell’esilio babilonese, nel V secolo a.C., ben lontani dalla parola storica del profeta Isaia. Eppure attraverso successive riscritture in tempi diversi, quella Parola ha attraversato la storia e si è fatta libro! Un libro che attesta la fecondità di Dio dentro al peccato e all’infedeltà dell’uomo, fecondità di un bambino che nasce e fecondità di una città che ritorna ad avere figli. È un popolo che rinasce grazie alla promessa di Dio che inevitabilmente si compie.  Qui il fenomeno dell’”ispirazione” non può che oltrepassare i confini di un solo autore, per diventare una realtà comunitaria, di popolo. È lo Spirito che ha parlato al popolo lungo tutta la sua storia, attraverso figure singole di profeti e i loro discepoli.

E poichè il libro di Isaia non è il frutto di un solo autore così l’ispirazione comunitaria ha reso possibile la produzione di un testo ispirato. Un testo scritto per la fede dei suoi lettori e in grado di suscitarla, perché ogni testo della bibbia è ispirato da Dio /ispirante Dio, e utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia (cfr. 1 Tm 3, 16).

 

 

 

 

Lettura e preghiera XXXIV TO Anno C – Cristo Re

SCHEDA PER ACCOMPAGNATORI XXXIV TO Anno C

Lettura e preghiera su Lc 23, 33 – 43  XXXIV T.O. C  – Cristo Re

A differenza di Marco (cfr. Mc 15, 22 – 26), l’evangelista Luca descrive fin da subito e in primo piano la crocifissione di Gesù in mezzo ai due ladroni (cfr. Lc 23, 33 – 34) e aggiunge una parola di Gesù sulla croce, rivolta a suo Padre: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno (Lc 23, 34a).  L’effetto è di mettere in risalto la missione di Gesù che,  come pastore divino, è venuto a cercare, trovare e salvare ciò che era perduto, i malfattori, proprio condividendo la loro condizione di uomini senza legge (cfr. Is 53, 12 e Lc 19, 10). La croce porta al culmine tutto il ministero di Gesù, teso a offrire la salvezza e il perdono dei peccati a tutti gli uomini, manifestando l’amore gratuito del Padre (cfr. Lc 7, 47). Il perdono che Gesù chiede al Padre sulla croce è motivato dall’ignoranza dell’uomo a riguardo del suo peccato e apre la possibilità di una futura conversione (cfr. At 3, 14 – 20; 4, 12).   Denudato delle sue vesti, Gesù condivide la tremenda situazione dell’uomo incappato nei briganti, del giusto sofferente e vicino alla morte, sui cui panni si getta la sorte (cfr. Lc 10, 30; Sal 22, 19), mentre tutti intorno lo guardano (v. 35; cfr.  Sal 22, 18 – 19) e lo deridono (v. 35. 36. 39; cfr. Sal 22, 8 – 9), mettendo in ridicolo la salvezza da parte del Signore.  Tre personaggi in serie (capi v. 35; soldati v. 36 – 37; il malfattore crocifisso con lui v. 39), dall’alto al basso della scala sociale, ridicolizzano l’attribuzione regale e messianica del crocifisso. Essi tentano Gesù ad interpretare come autosalvezza la sua elezione da parte del Padre (cfr. Lc 4, 9 – 12): sarebbero disponibili a credere solo ad uno che è in grado di salvare se stesso,  pur avendo mostrato di poter salvare gli altri (v. 35. 39).  Ma Gesù, il vero re dei Giudei (v. 38) resiste a questa tentazione e proprio la sua fedeltà porta a compimento il disegno del Padre, la salvezza di tutti gli uomini. Improvvisamente infatti attorno alla croce la situazione si ribalta. Prende la parola l’altro malfattore, che dopo aver riconosciuto i suoi peccati davanti alla sofferenza innocente di Gesù, si rivolge direttamente a lui e lo supplica facendo appello  alla sua qualità di messia, venuto a portare il Regno di Dio (vv. 40 –  42). Proprio la morte impotente e innocente di Gesù rivela che egli è il Cristo, l’eletto, il Re di un Regno radicalmente nuovo, che sta per essere instaurato. Gesù, con la sua risposta, mostra che questo Regno è già iniziato “oggi”, con la fede dell’uomo peccatore, che si pente e supplica colui che è vittima innocente dei nostri peccati (cfr. v. 47 – 48). Il Paradiso consiste nello stare con Lui (v. 43), avendo riconosciuto la propria fragilità e debolezza.

 

 

Suggerimenti per la preghiera

1. Mi dispongo davanti a Dio in preghiera. Sto in ginocchio o seduto, per entrare in colloquio con il Signore, o meditare su ciò che leggo, a seconda di ciò che voglio.

2. Leggo con attenzione il brano di Vangelo.

3. Chiedo al Signore Gesù di poterlo seguire fin sotto la croce, con dolore e dispiacere perché per i miei peccati il Signore va alla passione.

4. Vedo le persone che agiscono, osservo come si comportano. Es: rifletto sul fatto che Gesù viene crocifisso in mezzo ai due malfattori. Egli prende su di se la nostra miseria e il nostro peccato, qualunque esso sia.

5. Medito su cosa dicono i personaggi.  Es: “oggi sarai con me nel paradiso”. Chiedo al Signore che ogni giorno della mia vita sia questo “oggi”, in cui invoco il Signore e sono con Lui.

6. Concludo con un Padre Nostro.

 

 

Omelia XXXIII TO Anno C

I contemporanei di Gesù avevano ammirazione per il tempio di Gerusalemme, ricostruito verso il 536 a. C. dopo la prima distruzione ad opera dei Babilonesi quarant’anni prima. Esisteva già da almeno trecento anni e continuò ad esistere per altri 600. L’ultimo restauro fu effettuato da Erode il grande a partire dal 19 a.C. fino al 40d.C..  Al tempo di Gesù si trovava nel pieno del suo splendore architettonico e con la sua presenza da più di 9 secoli poteva essere considerato il simbolo dell’elezione eterna di Dio nei confronti del  popolo di Israele. Ogni ebreo come Gesù, ammirandone le pietre preziose e gli ornamenti votivi, ne restava abbagliato, come se la garanzia e la testimonianza dell’elezione di Dio fossero tutte contenute in una costruzione umana. Immaginiamo quanto scandalo deve aver suscitato la profezia di Gesù, secondo cui di questo tempio non ne sarebbe rimasta pietra su pietra! Profezia destinata a realizzarsi da li a quarant’anni, con l’avvento di Tito al comando dell’esercito romano.

Da vero profeta Gesù sa guardare il cuore umano dal punto di vista di Dio e scuote le coscienze addormentate sui simboli esteriori. Dio distrugge il tempio per liberare il cuore dell’uomo e guarire la vista dall’abbaglio che l’ha accecata.

Ciascuno di noi è tentato di costruirsi il suo tempio di Gerusalemme, qualcosa su cui confida totalmente, come se fosse il suo Dio. Anche la nostra società contemporanea ha il suo tempio sacro: la crescita economica, con il suo mito di consumi sempre crescenti. La crisi che stiamo attraversando sta progressivamente distruggendo questo tempio in cui confidavamo e la conseguenza è un escalation della paura, a tutti i livelli.  Viviamo nella cultura del sospetto, della paura dei terroristi, del rifiuto egoistico degli altri, degli stranieri che “ci portano via il benessere”.

Di fronte alla paura il messaggio di Gesù è duplice.

1. Non lasciarsi condizionare da una comunicazione catastrofica, che da rilevanza solo a ciò che è negativo: “quando sentirete parlare di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate”. Nella paura c’è una specie di inganno, una deformazione della realtà, in cui certi problemi, certe fatiche vengono assolutizzate e non si vede più via d’uscita. Per questo Gesù ci esorta: “Non lasciatevi ingannare”: la realtà è molto più ampia, complessa e ricca di cose belle e potenzialità futuro di quanto non venga comunicato nei media.

2. “con la vostra perseveranza salverete le vostre anime”. La perseveranza significa aderire profondamente alla realtà, con i suoi elementi di fatica, ma anche con i suoi aspetti positivi, che lentamente progrediscono. La vera crescita nasce da una conversione dello sguardo, che ricerchi l’obiettività e non si lasci condizionare  dall’onda emotiva massmediatica. La vera crescita è quella culturale e morale, che scaturisce da cuori aperti alla verità e disponibili a costruire il bene concretamente realizzabile, anche in situazioni difficili. Per tutto questo è necessaria la perseveranza.

Il messaggio di Gesù contiene un importante incoraggiamento nei confronti dei suoi discepoli. Non c’è bisogno di preparare prima la propria difesa, perché la testimonianza del cristiano scaturisce dall’onestà e dalla rettitudine del suo cuore, della sua vita. Perseverare nell’onestà, nel rispetto del bene comune, nella ricerca della giustizia, nei valori che orientano e motivano il lavoro, l’impegno familiare e sociale: sono atteggiamenti propri del cristiano. In un tempo in cui il pessimista fa la figura dell’intelligente, la fede del cristiano nella provvidenza di Dio motiva il suo agire nel mondo con un’incrollabile certezza: non c’è nemmeno un capello, nemmeno un frammento del nostre impegno qui in questa vita, che vada perduto, che sia inutile per la costruzione del Regno di Dio.

 

Meditazione sul Salmo 136

 

MEDITAZIONE SUL SALMO 136 (14/11)

Questo Salmo è caratterizzata dalla ripetizione: “perché eterno è il suo amore”. Lodare è non stancarsi di ripetere! L’amore di Dio è eterno. È un alleanza in cui l’amore di Dio per noi è eterno, per cui non ci stanchiamo di ripetere la lode.

Ma non si ripete sempre la stessa cosa: siamo creature immerse nel tempo e nella variazione. Ogni volta si ripete qualcosa di uguale ma c’è sempre anche qualche novità. Che cosa è uguale e che cosa cambia di volta in volta? Di uguale c’è che ad ogni sezione è sempre Dio che agisce. In ebraico si tratta di participi. È come se si dessero tante definizioni di Dio: lui è colui che ha fatto grandi prodigi, lui è colui che ha fatto i cieli con sapienza… e ancora è colui che ha percosso l’Egitto nei suoi primogenti, è colui che ha guidato il suo popolo, egli è colui che nella nostra umiliazione si ricorda di noi. Una volta a catechismo si imparava che Dio è l’essere perfettissimo: era una definizione. Anche in questo salmo la bibbia ci vuol dare una definizione di Dio, non però basata sulla filosofia, ma sul modo di agire di Dio.

Abbiamo detto cosa c’è di uguale, ma cosa c’è di nuovo?  C’è che Dio pur essendo sempre lo stesso e pur essendo sempre lui ad agire, non fa mai una cosa uguale all’altra, in tutte le sue azioni scopriamo sempre qualcosa di nuovo e diverso. C’è come una progressione nel suo agire, e ogni episodio è assolutamente nuovo. Chi recita questo salmo infatti è un solista e ad ogni frase il coro ripete: eterno è il suo amore! Quindi ogni intervento di Dio è come isolato dai precedenti, come a dire che non è causato da essi, ma solo dalla volontà di Dio che vuole fare ancora qualcosa di nuovo. Lui che è eterno ogni volta fa qualcosa di nuovo, come a dire che la sua eternità non è pura staticità, ma continua e travolgente novità, è l’eternità dell’amore che  non finisce mai di coinvolgerci nella sua storia e di stupirci.

In Mt 26, 30 Gesù si avvia alla sua passione con il canto del Salmo: può essere in modo particolare il Salmo 136, dato che come altri Salmi veniva cantato alla conclusione del pasto pasquale. Gesù, andando alla passione, è pienamente e consapevolmente dentro questo movimento dell’amore di Dio, egli sta per donare tutto se stesso al padre sulla croce, e allora sceglie di concentrare tutto il significato di questo dono in un segno tanto piccolo quanto comune: il pane (cfr. Sal 136, 25).  Egli “sceglie” di diventare questo pane che Dio nel suo amore da ad ogni vivente, come culmine della sua storia d’amore nei confronti di Israele e attraverso di lui di tutti gli uomini.

Questo pane “segno” tanto piccolo quanto comune, è l’ultima novità di Dio, ma che racchiude tutte le novità precedenti e tutte le azioni di Dio descritte nel Salmo. Non a caso il Salmo nella tradizione ebraica veniva cantato come rendimento di grazie sul pane. È infatti il pane della creazione, frutto della terra e del lavoro dell’uomo. Non ci sarebbe il pane se Dio non fosse colui che ha steso la terra sopra le acque e che ha fatto i cieli con sapienza. Nel pane Dio si rivela come colui che crea lo spazio e le condizioni di abitabilità per noi e poi mette tutto in movimento attraverso il tempo (creazione degli astri) in un universo ordinato: non ci sarebbe il pane se non ci fossero i giorni e le notti e le stagioni a consentire la crescita del grano e se non fosse ciclicamente stabilito il tempo della mietitura.

Ma non ci sarebbe il pane della cena pasquale se Dio non si fosse impegnato nella storia con un popolo particolare il popolo ebraico. Allora il pane della cena ricorda l’afflizione dell’Egitto, la schiavitù ma ricorda ancor più l’azione liberatrice di Dio, l’azione potente con cui ha percosso il faraone,  l’azione potente con cui ha fatto passare Israele in mezzo al mare della morte, liberandolo e nello stesso tempo generandolo come popolo. Quello che prima dell’arrivo in Egitto era una famiglia di 12 fratelli e che contava 70 persone all’uscita dall’Egitto è divenuto un popolo di 300 000 persone. Così la liberazione dell’Egitto è anche definitivamente l’atto di nascita di questo popolo e tale nascita, attraverso il mare e nel deserto, è un continuo confronto con la morte. Ogni nascita, anche la nostra nascita, è stata un passaggio attraverso la fragilità e il confronto con la morte: ogni nascita prelude alla nascita definitiva, quella che attraverso la morte ci passa davvero. Tutto questo è come contenuto, registrato nel pane pasquale, come un file la cui memoria non può essere cancellata.

Ma l’esodo del popolo e il suo ingresso nella terra promessa e conquista è anche una faticosa, mai terminata lotta contro la tentazione di ritornare alla schiavitù. Un cammino di maturazione, di purificazione in cui il popolo impara che la vera libertà e felicità non sta nel consegnarsi schiavi degli idoli (l’Egitto con i suoi frutti ingannevoli e poi il vitello d’oro), ma nel servire Dio. Dalla servitù al servizio. Anche noi diventiamo adulti così, passando da quegli idoli che hanno schiavizzato e reso infelice la nostra adolescenza, alla matura comprensione che il senso più vero e bello della nostra vita è servire Dio, fare la sua volontà. Il travaglio, la sofferenza sono il passaggio del mare attraverso cui Dio ci ha parlato e ci ha liberato, facendoci comprendere come riconoscere la sua azione nella nostra vita, rendergli grazie e lodarlo e infine servirlo facendo la sua volontà sia il vero scopo della nostra vita.

“Egli nella nostra umiliazione si è ricordato di noi ci ha liberato dai nostri oppressori”: questa storia di liberazione che ha nell’esodo il suo modello fondatore si ripete ad ogni passaggio della storia del popolo di Israele. L’invasione degli assiri e la distruzione di Samaria, e ancora l’invasione dei babilonesi e la distruzione di Gerusalemme e del suo tempio nel 587 a.C. e l’esilio durato quasi un secolo. Sono i profeti ad indicare al popolo che tutto questo non accade per caso, ma è Dio che sta purificando il popolo dalla sua idolatria, e che lo accompagna con amore anche nella terra dell’esilio. Sono ancora i profeti ad indicare che ci sarà presto un ritorno e una ricostruzione di Gerusalemme e che la gloria del Signore risplenderà a Gerusalemme per tutti i popoli. Ecco: “Il signore nella nostra umiliazione si è ricordato di noi, ci ha liberato dai nostri oppressori”: con questa frase è riassunta tutta la storia profetica di Israele, ma è in qualche modo riassunta anche tutta la nostra vita. Tutta la nostra vita infatti è una giostra un po’ paradossale di umiliazioni ed esaltazioni, dove stentiamo a trovare l’equilibrio. Il punto di equilibrio non sta in noi stessi, ma ce lo ricorda il Salmo: “eterno è il suo amore”:   ogni volta è il suo amore che si fa uscire da noi stessi, ci risolleva dalla fatica, dal peccato, dalle sofferenze. Ogni volta è sempre lui, il suo amore a vincere, in ogni evento e in ogni istante della nostra vita.

Conoscere questo è sapienza, perché comporta il sapere che Dio è “per definizione” colui che dona il pane ad ogni vivente, ossia che supera la  morte con il dono di una di un amore eterno. I libri sapienziali non sono altro che una riflessione su chi è Dio per tutti gli uomini alla luce di come ha agito e agisce nella storia del suo popolo.

Dai proverbi che condensano tutta la sapienza in brevi massime parallele, alla cui base c’è una sostanziale fiducia del principio di retribuzione divina; fino ad arrivare a Giobbe, la più estrema e radicale messa in questione della retribuzione divina: “se il giusto soffre, dov’è la giustizia di Dio?” Sapienza è qui entrare nel mistero di Dio con tutta la nostra esistenza senza pretendere di spiegarlo, ma fidandosi dell’infinita onnipotenza e saggezza di Dio che con i suoi paradossi supera il modo umano di comprendere. È il punto a cui i saggi arrivano dopo l’esilio e il dramma della sofferenza ingiusta subita dal popolo. Tutta questa sapienza è simbolicamente concentrata nel pane, che il Signore dona ad ogni vivente, quale umile fiducia nella vittoria della vita contro ogni potenza di morte.

Questa vittoria è iscritta nel pane in cui Gesù ha scelto di donarsi a noi, il pane dell’eucarestia, che è il pane del ringraziamento ossia il pane sul quale si benedice Dio per tutto ciò che ha compiuto per noi, quel pane attraverso il quale per l’azione dello Spirito, entriamo misteriosamente dentro l’atto con cui Cristo si è donato a noi, e così tutta la storia della salvezza per noi si compie. In questo pane tutta la storia è ricapitolata, tutta la bibbia riassunta, perché Dio ha attraversato la morte e l’ha distrutta definitivamente. Questo è il pane della resurrezione e il farmaco dell’immortalità.

Ora mangiando questo pane anche noi entriamo nell’opera di salvezza che Dio ha compiuto per il suo popolo, anche noi usciamo dall’Egitto e riconosciamo di avere ricevuto in eredità la terra.

OSEA 2, 4 – 25 E LA TEOLOGIA DEI PROFETI.

 

Siamo di fronte ad un testo inaugurale, che concentra in una sola pagina l’insieme del messaggio del profeta, proprio all’inizio del libro.

La forma è quella di un’ accusa  (cfr. v. 1 “accusate vostra madre”) intentata contro una moglie infedele, dove il marito tradito fa comparire i figli come accusatori (cfr. v. 4a). I personaggi costituiscono un intrigo metaforico che vede come referenti reali Dio (marito/non marito) e Israele  (madre-moglie/prostituta).

Se la madre rappresenta così Israele peccatore, i figli rappresentano Israele  nella sua successione storica. Viene sdoppiato l’interlocutore, in modo tale che l’uditore assuma la veste dell’accusatore di se stesso (cfr. Is 5, 3).

Il testo si può suddividere in due parti, una caratterizzata dall’accusa ( 1 – 15 ) e l’altra da una promessa di salvezza ( 16 – 24 ).  In realtà le due parti sono più collegate tra loro di quanto non si pensi. Al v. 16 la congiunzione “perciò” sembra piuttosto strana perché introduce non una conseguenza logica, ma un ribaltamento di prospettiva, cioè un passaggio dal giudizio alla salvezza. Tale congiunzione compare anche precedentemente al v. 8 e al v. 11 dove viene introdotta la punizione comminata dal marito tradito.  Da questo solo elemento si può dedurre che la punizione come tale non ha un valore definitivo nel discorso complessivo del profeta.  Inoltre al v. 10 troviamo descritti i beni che lo sposa dona alla sua sposa ( grano, vino nuovo e olio ) senza che essa si renda conto dell’identità del donatore e al v. 24 questi stessi beni vengono ridonati alla sposa attraverso la terra. Il collegamento tra il discorso di accusa e la promessa di salvezza è dunque evidente e bisogna comprenderne bene il significato.

Al v. 4b l’accusa dichiara uno stato di fatto, come motivazione dell’accusa stessa: la relazione amorosa e sponsale è stata rotta, infranta dal comportamento infedele della moglie, i cui segni sono chiaramente gli idoli a cui la moglie si è data. L’espressione “lei non è più mia moglie e io non sono più suo marito” non va intesa come una formula di ripudio da parte di Dio, altrimenti non avrebbe senso l’invito alla conversione immediatamente seguente. Piuttosto è la motivazione dell’accusa: ossia il comportamento infedele della moglie ha rotto la relazione sponsale e questo deve essere il motivo e il contenuto dell’accusa.

L’azione di denudamento da parte di Dio è una minaccia che funge come invito alla moglie/prostituta di denudarsi “simbolicamente”, ossia di spazzare via i suoi idoli. L’accusa/minaccia non avviene dunque in un contesto “forense”, dove si tratta semplicemente di identificare il crimine e comminare la sanzione corrispondente, ma nel contesto di una lite bilaterale, denominata rib (cfr. scheda), dove c’è ancora la speranza di convincere l’altra parte, così da ripristinare un giusto rapporto.  Inoltre la punizione minacciata può essere certamente interpretata come anticipatrice di un nuovo inizio, dal momento che l’autore biblico parla del giorno della nascita,  quando si è nudi. Si suggerisce la possibilità di un nuovo inizio, fondato sulla consapevolezza della propria colpa e sulla confessione della divina misericordia.  Il riferimento al deserto,  alla terra arida, alla sete, fanno pensare ad una catastrofe storica come quella dell’esilio, avvenuto per il regno del Nord (scheda su Regno del Nord) attorno alla fine dell’VIII secolo.  Alla siccità del terreno si accompagna la sterilità negli affetti, la perdita di fecondità degli uomini, perché Dio smette di amare i figli di Israele.

La colpa viene mostrata al v. 7 accompagnata dall’idea di vergogna, appellativo che spesso veniva usato per il Dio cananeo Baal (cfr. Ger 3, 24), ed è chiaramente collegata all’idolatria.

Ai v. 8 – 9 si prospetta l’intervento punitivo di Dio, che come si vede non è semplicemente una sanzione comminata in ragione del male commesso, ma è un’azione finalizzata a far si che Israele non commetta più questo male. Si capisce allora chiaramente il senso dell’accusa di Dio, che è finalizzata al ristabilimento della relazione con Israele.

Il rapporto tra colpa e punizione viene ancora ripreso nei v. 10 – 15 con maggiore dettaglio sull’elemento sanzionatorio.

Al v. 16 un nuovo perciò introduce il ribaltamento di prospettiva. Proprio quel deserto che era stato presentato come luogo di mancanza di vita e di punizione da parte di Dio viene occasione di una nuova rivelazione da parte di Dio ( la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore ). Il deserto luogo della generazione di Israele al tempo dell’esodo, diviene il tempo di una nuova generazione, una rinascita, dal momento che “la stessa sposa risponderà, come nei giorni della sua giovinezza, quando uscì dal paese d’Egitto”. Il Signore riesce a “sedurla”: viene qui usato il verbo “aprire” termine con accezione prevalentemente negativa (cfr. Es 22, 15), che implica una qualche violenza, e che quindi si ricollega alla precedente azione violente di accusa e di castigo. Tuttavia in questo contesto il termine assume una nuova connotazione, positiva. Aprire vuole dire penetrare nel cuore, nel luogo della più profonda intimità ed interiorità, per poterla finalmente convincere. E infatti ella risponderà positivamente (v. 17) e affermerà l’esatto contrario di quanto l’accusa aveva detto all’inizio: “Marito mio” (vv. 18-19). Così le vigne, un tempo devastate da Dio (vv.11. 14), vengono ridonate: esse rappresentano il paese intero (cfr. Nm 13, 23 – 24) e sono il simbolo della gioia.

Tutto il brano si conclude ai vv. 20 – 25 con una nuova alleanza attraverso la terra. È un alleanza che coinvolge la totalità dei viventi e della creazione, la cui fecondità è una risposta in termini di beni alle privazioni precedenti. Essa è simbolo della fecondità del popolo (v. 25) grazie alla relazione d’amore ristabilita con Dio. Le qualità divine di giustizia e fedeltà vengono compartecipate dalla sposa e la conoscenza acquista una valore totale, interiore (v.22).

Possiamo a questo punto tentare una chiave di interpretazione globale di questo oracolo di Osea, inserendolo nel più ampio contesto di tutta la raccolta profetica. L’espressione “parlare al cuore”(v. 17) è una specie di chiave di volta della predicazione profetica, che sottolinea il miracolo di una parola di Dio che opera sovranamente e intimamente la trasformazione del cuore dell’uomo, passando attraverso l’accusa e la punizione, che sono finalizzate alla salvezza e alla manifestazione dell’amore di Dio. Anche nei profeti Geremia ed Ezechiele il ristabilimento dell’alleanza dopo l’accusa e la punizione avviene per un’intervento gratuito e intimo di Dio, che trasforma il cuore dell’uomo dopo averlo purificato (cfr. Ger 31, 33 e Ez 36, 26 – 27 ). In fin dei conti tutta la raccolta profetica si caratterizza per l’accusa di Dio nei confronti del popolo finalizzata alla sua salvezza. Essa infatti ha la funzione di aprire gli occhi del popolo sul suo peccato e sulla dimensione idolatrica della sua esistenza, per annunciare dopo il castigo il ristabilimento delle sorti e la definitiva trasformazione del cuore dell’uomo ad opera di Dio. Una storia secolare, quella dei due regni, che ci viene narrata dai libri dei re e delle cronache, con la predicazione dei profeti e la catastrofe del primo e del secondo esilio è stata necessaria perché Israele arrivasse alla comprensione più profonda dell’agire di Dio.

Dopo il primo esilio e appena prima del secondo esilio, quello ad opera dei Babilonesi, avvenuto all’inizio del VI secolo, il regno del Sud, grazie all’operato del re Giosia, aveva conosciuto una nuova floridità politica e religiosa. Il culto venne centralizzato a Gerusalemme e venne rinnovato il libro della legge. L’opera degli scribi integrò e recepì la predicazione profetica nel nuovo libro della legge, che successivamente verrà chiamato Deuteronomio, dalla traduzione greca della LXX. Qui tutta la legge si concentra in un unico precetto, quello di amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze (Dt 6, 5 – 6). I precetti si fondono nel cuore dell’Israelita fedele, e sono oramai giunti ad una tale grado di concentrazione spirituale da potersi tenere come un segno nella mano, tra gli occhi e sugli stipiti delle porte. Qui Israele è come la sposa di Osea, che vede nel rapporto con Dio non l’osservanza delle leggi esterne ma una relazione interiore e vivente d’amore.

 

 

 

Lettura e preghiera di Lc 21, 5 – 19 XXXIII T.O. Anno C

 

SCHEDA DI LETTURA XXXIII TO Anno C

Preghiera su Lc 21, 5 – 19  XXXIIIT.O. C

Gesù si trova nel tempio di Gerusalemme e qui insegna al popolo di Israele come autentico profeta (v. 5). Egli annuncia quel che Geremia aveva già profetizzato per i suoi tempi, ossia la distruzione del tempio (cfr. Ger 26, 1 – 6). Come aveva predetto in 19, 44 riguardo a Gerusalemme, anche qui con una simile formulazione (non resterà pietra su pietra) avverte di non confidare su una bellezza esteriore, segno di una religiosità che indurisce il cuore piuttosto che disporlo ad incontrare Dio (vv. 5-6). Il popolo, stimolato dalla curiosità per un annuncio che evoca scenari apocalittici, chiede al maestro di esplicitare i segni che indicheranno questo avvenimento di distruzione (v. 7). Ma Gesù non risponde direttamente, limitandosi a prevenire quell’agitazione e quel turbamento che colgono gli uomini di fronte agli annunci di sventura. Le guerre, le rivolte non sono segni della fine del mondo e chi lo afferma finisce per fare il mestiere del falso profeta, che identifica il messia con se stesso (8-9). Certo alla fine dei tempi ci saranno anche terremoti, carestie e pestilenze e segni grandi nel cielo (vv. 10 – 11), ma solo dopo che sarà trascorso il tempo della storia, caratterizzato dall’umile presenza dei profeti cristiani (v. 12).  A partire dal v. 12 infatti Gesù si rivolge più chiaramente ai suoi discepoli, descritti come profeti. Finchè ci sono loro a testimoniare Gesù con una sapienza ispirata (v. 15)  di fronte ai persecutori (vv. 12 – 13), la storia continuerà a svolgere il suo percorso nell’attesa del ritorno del messia. Sono loro che tengono in piedi il cosmo, finchè il vangelo non sia arrivato fin ai confini del mondo con la loro testimonianza perseverante (v. 19 cfr. At 1, 8). Gesù stesso, signore della storia, donerà ai suoi lo Spirito Santo (v. 15) per renderli testimoni credibili della sua resurrezione (cfr. At 2, 1 – 4). Questo significa che il discepolo deve privarsi di mezzi umani che possano ostacolare l’opera di Dio attraverso lo Spirito Santo (v. 14)  e fortificarsi contro le divisioni e i contrasti che possono sollevarsi anche all’interno delle famiglie (v. 16 – 17).  Il discepolo avrà la forza della perseveranza, della costanza in mezzo alle avversità, e proprio attraverso tale costanza egli porterà un frutto che rimane per sempre.

 

 

 

 

 

Suggerimenti per la preghiera

 

 

1. Mi dispongo davanti a Dio in preghiera. Sto in ginocchio o seduto, per entrare in colloquio con il Signore, o meditare su ciò che leggo, a seconda di ciò che voglio.

2. Leggo con attenzione il brano di Vangelo.

3. Chiedo al Signore di poterlo conoscere interiormente come maestro misericordioso, per amarlo e seguirlo sempre più.

4. Vedo le persone che agiscono, osservo come si comportano. Es: rifletto sul modo con cui  il popolo di Israele confida nel suo tempio di mattoni, quasi sostituendolo al Dio vivente. Qual è il mio tempio di Gerusalemme, il mio rifugio idolatrico? Cosa significa per me non confidare più nel “tempio di Gerusalemme” e abbandonarmi alla custodia di Dio, che non permetterà che nemmeno un capello del mio capo perisca?

5. Medito su cosa dicono i personaggi.  Es: l’avvertimento di Gesù, di non preparare prima la nostra difesa, è una provocazione per la nostra mentalità, tesa a programmare ogni evento e prevedere ogni situazione. Cosa significa per me abbandonarsi alla potenza e alla sapienza dello Spirito Santo senza prepararmi prima?  Quale povertà mi è richiesta?

6. Concludo con un Padre Nostro.

Esercizio per giovedì 14

 

 

DOMANDE SU Os 2, 4 – 25.

–          LEGGI CON ATTENZIONE IL TESTO

–          IDENTIFCA I PERSONAGGI: CHI È LA MADRE E CHI SONO I FIGLI?

–          CHI SONO GLI AMANTI DELLA MADRE?

–          CHI È L’ACCUSATORE?

–          CI TROVIAMO IN UN TRIBUNALE DAVANTI AD UN GIUDICE?

–          DAL V. 16 IN POI COSA CAMBIA?

–          COSA RAPPRESENTA IL DESERTO?