Esercizi Spirituali su Atti degli apostoli (V meditazione)

At 11,27–30; 12,24–25; 13,1–3. L’inizio della missione paolina

  1. Koinonìa e missione universale

Un gruppo di profeti viaggia da Gerusalemme fino ad Antiochia. Come abbiamo già visto per Barnaba la profezia è un carisma che è dono di Dio e non è frutto dell’imposizione delle mani da parte dell’autorità: la parola del profeta può avere molti frutti, tra cui incoraggiare nelle prove, consolare, predire.  Il legame tra Gerusalemme e Antiochia non è dunque caratterizzato solo da una responsabilità ministeriale da parte della Chiesa madre, ma anche da un flusso di carismi, che arricchiscono Antiochia. La risposta della giovanissima Chiesa di fronte alla profezia di Agabo è la manifestazione concreta di questa koinonìa (comunione ecclesiale) che si è stabilita con Gerusalemme. La colletta, di cui Paolo si farà portatore ben oltre i bisogni di questa carestia, è vista già qui come il dono materiale delle Chiese della gentilità in risposta al dono della fede ricevuto dalla Chiesa giudeo-cristiana di Gerusalemme (cfr. Rm 15,25-27).  Tale colletta viene consegnata agli “anziani” (presbiteri) di Gerusalemme, prima interessante indicazione di un incarico ministeriale, distinto da quello degli Apostoli, a capo della Chiesa madre.

La comunione ecclesiale è un fatto insieme concreto e spirituale, che mostra il disegno di Dio in atto (Giudei e pagani insieme, che fanno della loro differenza un dono reciproco). L’elezione del popolo di Dio è per tutti i popoli e il loro ingresso nella salvezza porta a Gerusalemme le ricchezze delle nazioni (cf. Is 60,1-5). Tale comunione è insieme anche apertura universale della Chiesa, a tutti i tempi e tutti i luoghi. La Chiesa di Antiochia si mostrerà pronta a donare due dei suoi più autorevoli membri, Paolo e Barnaba, per una missione che oltrepassa i suoi confini territoriali.

La diaconia materiale di Paolo e Barnaba per Gerusalemme è il riflesso del dono spirituale ricevuto. Alla luce di questa dinamica spirituale si può immaginare che ogni atto di servizio “materiale” nella Chiesa sia il riflesso di un dono spirituale che viene scambiato. Anche il servizio ai poveri può essere visto come un ricevere da loro il dono di Cristo povero. Questa riflessione può forse aiutarci ad approfondire il senso del servizio sociale nella Chiesa (cf. Rm 15,25-27).

  • Presbiterio e diakonia, luogo di profeti e dottori

Dopo aver narrato l’arresto di Pietro ad opera di Erode, la sua miracolosa liberazione e la morte di Erode, Luca, con un brevissimo sommario accenna al fatto che la Parola di Dio cresceva e si diffondeva, senza che nessun potere umano potesse ormai ostacolarla (12, 24). In questo contesto di persecuzione e di crescita della Parola Paolo e Barnaba avevano compiuto il loro servizio (diakonìa) verso la Chiesa di Gerusalemme e, avendo preso con se Giovanni Marco, erano tornati ad Antiochia. Questa comunità viene nuovamente descritta da Luca come retta da profeti e dottori. Preghiera collettiva e digiuno sono la modalità con cui la Chiesa si pone in comunicazione con Dio per fare la Sua volontà ed è in questo contesto che interviene nuovamente lo Spirito Santo, che designa Paolo e Barnaba per l’opera alla quale sono stati chiamati e che il lettore scoprirà essere la grande opera di evangelizzazione delle genti.

La conoscenza e la profezia sono due polarità entrambe necessarie e spesso compresenti in ciascuno di questi leader della comunità antiochena. Infatti una conoscenza senza profezia manca di orecchi per ascoltare le indicazioni concrete e spesso improvvise dello Spirito. Ma anche una profezia senza conoscenza è pericolosa, perché rischia di perdere di vista il disegno complessivo della missione ecclesiale connessa alla profondità del mistero di Cristo attestato dalle Scritture. Profondità di visione e capacità di intuire i passi concreti da fare e le persone da promuovere: questo è il mix che la polarità di profeti e dottori può assicurare ad una Chiesa in cammino. Questa piccola comunità di uomini può costituire un modello per il presbiterio diocesano, chiamato a vivere gli “spostamenti” al suo interno in uno stile di condivisione, corresponsabilità, discernimento comunitario e in uno stato di tensione missionaria.

La comunione di profeti e dottori offre un punto di vista privilegiato sul discernimento comunitario dello Spirito. Esso richiede una “conversione”: digiuno e culto eucaristico sono due simboli che indicano la “scoperta” dell’amore di Dio per me in Cristo, con segni di cambiamento interiore ed esteriore per rendere tale amore più operativo nella mia vita. Essi indicano la disponibilità a servire il Regno di Dio e rendono possibile il linguaggio dello Spirito nella comunità. (1Cor 12,4-11)

  • Discernimento pastorale e missionario

Questa comunità di profeti e dottori, in costante tensione missionaria, è mossa a discernere continuamente la volontà di Dio perché il Vangelo si diffonda secondo il Suo progetto e non secondo impostazioni e modalità puramente umane. Non c’è un disegno pastorale preventivato nei dettagli, e nemmeno vengono faticosamente messi per iscritto molti orientamenti di fondo della missione. Semplicemente c’è l’attitudine a coltivare uno spirito pronto all’ascolto dello Spirito e al discernimento della volontà di Dio. Questa coltivazione, questa ascesi comunitaria non avviene se non attraverso gli strumenti della preghiera e del digiuno. In questo caso si tratta della preghiera comunitaria del culto, molto probabilmente dell’Eucarestia. Il disegno missionario parte anzitutto dalle persone e da alcune esperienze teologicamente fondate e costruisce gradualmente il progetto a partire dai frutti che queste prassi iniziali mostrano. Nel caso di Paolo si tratta di muoversi nei centri urbani dell’Asia minore iniziando la predicazione del Vangelo nelle sinagoghe, a partire cioè dalle diverse comunità ebraiche della diaspora, coinvolgendo proseliti e timorati di Dio. Successivamente, dopo l’accettazione o il rifiuto di questi ultimi, la predicazione si sposta verso i pagani. Questo stesso modello viene riproposto successivamente, con variazioni o cambiamenti di programma che dipendono dalle situazioni locali o da indicazioni profetiche (cf. 16,6-10).

La missione paolina, che caratterizzerà tutto l’itinerario degli Atti degli Apostoli da qui in poi non nasce dal carisma individualistico di Paolo, ma da una precisa chiamata del Signore nello Spirito Santo, avvenuta attraverso la mediazione ecclesiale. Non si può negare che la presenza della comunità ecclesiale sia all’origine della missione paolina: Luca lo afferma con forza facendo sorgere questa chiamata da un lavoro di discernimento comunitario, nell’ascolto dello Spirito, e facendo scaturire l’invio missionario dal rito dell’imposizione delle mani. 

L’invio missionario di Paolo e Barnaba priva Antiochia di due personalità importanti. Essi non si sono resi “necessari” fino al punto da non poter lasciare la comunità e per converso la comunità si ritiene libera di inviarli, aprendosi ad una missione che la supera. In che misura le nostre comunità sono aperte al “dono” o coltivano relazioni di reciproco possesso? (2Cor 2,14-3,3)

Esercizi spirituali su Atti degli Apostoli (IV meditazione)

Atti 11,19-26. La nascita della Chiesa di Antiochia

Dopo l’inizio della missione ai pagani, sancito dall’iniziativa di Pietro su impulso dello Spirito Santo, ora Luca si concentra sulla fondazione della comunità di Antiochia, la prima comunità in cui convivono insieme giudeo-cristiani e pagano-cristiani.

Luca si riallaccia direttamente ad At 8, 1b -4, dove si narra la diffusione della Parola dovuta alla provvidenziale dispersione dei discepoli dopo la persecuzione scoppiata con il martirio di Stefano. In tal modo la nascita della Chiesa di Antiochia crocevia della missione cristiana verso l’Asia e in Europa e vero laboratorio di comunione ecclesiale ed evangelizzazione, finisce per dipendere direttamente dalla Chiesa di Gerusalemme e dalla “fecondità” della persecuzione che tale Chiesa madre ha dovuto subire.

La breve unità letteraria si può dividere in tre sottounità: vv. 19-21: arrivo dei dispersi ad Antiochia, evangelizzazione e successo. vv.  22-24:  arrivo di Barnaba, esortazione e successo. vv. 25-26 arrivo di Saulo insegnamento e successo. Appendice (v. 26d): nasce la definizione di cristiani.

  1. La prima missione: pericoloso dilettantismo?

Nei vv. 9-21 si riprende con le stesse parole il breve sommario della missione in Samaria e lungo la costa palestinese per riferire che ora la Parola viene proclamata in Fenicia a Cipro e perfino ad Antiochia, la metropoli situata sul fiume Oronte, a 35 Km dal mare, nell’attuale Turchia poco lontana dalla frontiera con la Siria. La diffusione del Vangelo continua senza ostacoli, anzi ribaltando paradossalmente gli ostacoli e le persecuzioni incontrate in nuove occasioni di annuncio. A questo punto Luca si preoccupa di chiarire che l’annuncio della Parola era riservato unicamente ai Giudei, come già era avvenuto per la Chiesa di Gerusalemme. Questa breve annotazione prepara la svolta (v. 20): alcuni Giudei provenienti da Cipro e da Cirene, che erano parte del gruppo dei Giudei cacciati da Gerusalemme, incominciano a predicare ai greci, ossia ai pagani, che “Gesù è il Signore”. Si tratta di una breve formula “kerigmatica” in uso nella Chiesa pagano-cristiana di lingua greca (cf. Rm 10, 9) e che indica la sovranità di Gesù risorto su tutta la storia e il suo ritorno per la fine dei tempi. 

Il successo di questa impresa spontanea è attribuito dal narratore all’azione della mano del Signore, qui da intendersi come riferimento consueto a Dio (cf. Ez 40, 1; Lc 1, 66). Tuttavia il termine “Signore” viene usato nella stessa frase per indicare colui al quale i pagani credono e si convertono, ossia Cristo. È evidente allora che qui l’azione provvidenziale di Dio è “cristologizzata”. È Cristo che opera con la potenza della sua sovranità, dopo l’ascensione al Padre, per confermare l’azione spontanea di alcuni discepoli e indicare a tutta la Chiesa un modello di comunicazione del Vangelo al passo con i tempi.

È interessante notare come nella Chiesa apostolica ci sia una reciprocità tra ministero apostolico e missione spontanea dei discepoli. Pietro era stato il primo ad annunciare il Vangelo ai pagani su impulso dello Spirito (At 10), poi vi è l’iniziativa dei discepoli, che appare in un primo momento scollegata. Tuttavia è l’azione stessa di Dio (lo Spirito nel caso di Pietro e la mano Signore nel caso di discepoli) a garantirne la continuità. Sarà la presenza di Barnaba ad esplicitare questo legame tra apostolicità e missione dei discepoli.

La prima evangelizzazione dei pagani avviene ad Antiochia su impulso di “anonimi” missionari e, per così dire, dal basso. Luca chiarisce che era l’impulso dello Spirito Santo a muoverli. Anche nella Chiesa odierna tanti tentativi e sperimentazioni avvengono “dal basso”, senza necessariamente un mandato esplicito dell’autorità ecclesiastica. Può essere interessante però notare come la direzione di questi tentativi è la medesima già intrapresa da Pietro al c. 10, ossia come vi sia una convergenza che lo Spirito suscita tra orientamenti pastorali e prassi emergenti. Essa necessita di un processo di “verifica” e di “discernimento”, rappresentato qui da Barnaba. Come attuiamo questi processi di discernimento nel nostro cammino ecclesiale? (cf. 1Ts 5,16-22).

  • Barnaba, autorità apostolica e carismatica

Come in 8,14, avendo saputo dell’evangelizzazione in Samaria, gli apostoli avevano inviato Pietro e Giovanni, così nei vv. 22-24 la Chiesa di Gerusalemme invia Barnaba ad Antiochia. Egli giunge e vede la grazia di Dio, che è una conferma del favore divino per questa missione (cfr. At 14, 3). D’altra parte Barnaba è descritto come uomo pieno di fede e di Spirito Santo, dotato dunque delle lenti giuste per poter osservare l’agire di Dio nella comunità antiochena. Altri due verbi descrivono la sua azione pastorale: «si rallegrò» e «esortava». La gioia accompagna sempre la presenza della grazia di Dio (cf. charis/chairo), ed è un segno dell’adesione di fede della comunità o di una singola persona (cfr. At 8, 8. 39). Barnaba sa abbandonarsi alla gioia della fede nel contemplare i frutti di una missione a cui egli non ha dato inizio in prima persona, di cui non è né il padre né il riferimento insostituibile. Egli in prima istanza non arriva ad Antiochia per imporre una sua visione o per lasciare una qualche impronta personale a questa Chiesa, ma semplicemente per osservare la grazia di Dio, rallegrarsi e infine esortare. Con questo termine si allude alla funzione di annuncio della Parola non in chiave di prima evangelizzazione, ma di approfondimento didattico e insieme profetico del mistero cristiano. Barnaba, figlio dell’esortazione (At 4, 36), e profeta (cfr. At 13, 1) è chiamato ad irrobustire la fondazione di questa comunità sulla pietra angolare di Cristo, facendole percorrere un cammino di mistagogia, per approfondire il mistero di quella Parola che gli antiocheni avevano già accolto. Questa azione di Barnaba porta con sé un’ulteriore propulsione missionaria della comunità e nuovi considerevoli ingressi all’interno di essa (v. 24).

La comunione resa possibile dal ministero di Barnaba tra la Chiesa madre di Gerusalemme e la neonata Chiesa di Antiochia, fondata sul discernimento dell’azione dello Spirito nelle iniziative spontanee dei discepoli, sulla promozione e sull’esortazione, è come un moltiplicatore della potenzialità di questa comunità. Essa lungi dall’esaurire la propria attività all’esterno, appagata dai suoi risultati, con la guida di Barnaba si abbandona sempre più alla potenza comunicativa del Vangelo. Barnaba, chiamato a rappresentare le istanze degli apostoli nella Chiesa di Antiochia, si mostra “profeta e dottore”, in grado di esortare ed insegnare. Egli partecipa del dono dello Spirito di cui gode questa comunità e si pone a servizio di esso, perché la comunità possa essere sempre più consapevole dell’azione e della volontà di Dio. Emerge un profilo ecclesiale dell’apostolo, che mette in discussione le nostre tradizionali distinzioni tra “carisma” e “istituzione”.

La figura di Barnaba è stimolante per la configurazione della personalità ministeriale, diaconale, presbiterale o episcopale. Egli non si considera “padrone” ma “amministratore”. Non si mette al centro dell’azione pastorale ma è capace di de-centrarsi. Sa vedere la grazia di Dio all’opera e favorirla. Sa porsi in un’ottica di collaborazione, mettendo a servizio anche i carismi di altri. Come possiamo lasciarci ispirare dalla figura di Barnaba nelle nuove forme di unità e zona pastorale? Come ripensare la forma ministeriale in un quadro pastorale in grande trasformazione? (cf. 1 Pt 4,10-11).

3.    Barnaba e Paolo modelli di pastorale integrata

Sospesa in 9,30 la narrazione riguardante Paolo riprende qui il filo, grazie all’attività mediatrice di Barnaba. Egli lo trova a Tarso di Cilicia, la sua città natale e lo conduce ad Antiochia. Anche qui bisogna rendere a Barnaba l’onore della sua apertura di mente, di cuore e della sua genialità spirituale. Perché andare a chiamare un uomo come Saulo, che a Gerusalemme aveva fortemente rischiato la vita? In 9,26 era stato lo stesso Barnaba a presentarlo agli Apostoli, che invece lo evitavano perché ne avevano paura. Anche qui Barnaba, da vero profeta, sa cogliere l’enorme potenzialità del carisma spirituale di Paolo e al contempo intuisce la possibilità di metterlo a servizio per la Chiesa di Antiochia, ricca di carismi e soprattutto di differenze radicali tra cristiani provenienti dal giudaismo e cristiani provenienti dall’ellenismo. In un tale laboratorio di fede e missione c’era bisogno di uno che fosse adeguatamente fondato sulla Scrittura, per comunicare ai pagani, che non conoscevano questo patrimonio profetico, il compimento della Parola di Dio in Cristo.  C’era bisogno di un maestro in grado di insegnare insieme a Barnaba la verità delle Scritture compiuta in Cristo anche ai pagani, per completare il disegno formativo della mistagogia precedentemente iniziato con l’esortazione e il primo annuncio.

Barnaba fornisce un modello innovativo per una spiritualità “ministeriale”. Egli non solo evita il rischio di considerarsi unico punto di riferimento della Chiesa di Antiochia e garante dell’azione dello Spirito. Non solo non azzera tutto ciò che era nato prima che lui arrivasse per ricostruire da capo secondo la sua volontà. Egli “si rallegra” di ciò che vede e che non è dovuto a lui, si pone a servizio dell’azione dello Spirito che è già operante e individua gli ulteriori bisogni della comunità, discernendo la volontà di Dio. A tali bisogni non pensa di dover rispondere solo lui, ma è in grado di attivare collaborazioni con altri intuendo quali specifici carismi potevano essere necessari in ordine ai bisogni della comunità. Senza gelosie si mette a lavorare con Saulo di Tarso, dopo averlo cercato e trovato nella sua città natale.

Barnaba può essere definito come un profeta e un “mistagogo”, che completa il percorso di iniziazione alla fede dei pagani neoconvertiti. Oggi questi processi mistagogici avvengono in molte forme, come catechesi strutturate (cf. 10 comandamenti), cammini spirituali carismatici, percorsi teologici di approfondimento. Lo Spirito non uniforma ma arricchisce la Chiesa di questi percorsi. Le singole comunità pastorali non possono offrire tutto: se già esse offrono un primo aggancio e annuncio con le persone, come la Chiesa diocesana nel suo insieme può “custodire” e “facilitare” l’approfondimento della fede? (1Cor 3,1-9)

Esercizi sugli Atti degli Apostoli (III meditazione)

At 8,26-40. La conversione del funzionario etiope

  1. Un incontro impossibile

Il racconto della conversione dell’eunuco e del suo battesimo è anticipato da una rapida sintesi dell’attività missionaria di Filippo in Samaria. Dopo l’uccisione di Stefano scoppia una violenta persecuzione contro la Chiesa a Gerusalemme, in particolare contro i cristiani ellenisti e ciò produce una dispersione di questi discepoli in Giudea e in Samaria. Il verbo “disperdere” in greco significa anche “seminare” e viene utilizzato da Luca due volte: la prima per riferirsi alla fuga dei discepoli (v. 1) la seconda (v. 4) per indicare come questi dispersi di luogo in luogo andavano annunciando la Parola.

Questa dispersione diviene dunque una provvidenziale semina della Parola di Dio, al di fuori dei confini di Gerusalemme e del territorio della Giudea e della Samaria  Così si introduce la missione di Filippo in Samaria, che vede un primo episodio nella conversione di un’intera città (5-8), un secondo nel battesimo di Simon Mago (9-13)  e – dopo un quadro narrativo in cui si parla dell’arrivo di Pietro e Giovanni da Gerusalemme (14-24) –  un terzo episodio con il battesimo del funzionario della regina Candace (26-40).

Questo episodio inizia con un personaggio che quando entra in scena negli Atti degli Apostoli, incarna sempre interventi inaspettati e secondo la volontà di Dio: l’angelo del Signore (cf. 5,19; 10,3; 12,7ss; 12,23; 27,23). Egli entra in scena per ordinare a Filippo di recarsi sulla strada da Gerusalemme a Gaza, a mezzogiorno. La distanza tra Gerusalemme e Gaza è di circa 100 km e il narratore (probabilmente è lui ad aggiungere questa specificazione) ci spiega che si tratta di un luogo deserto. L’orario del mezzogiorno (è più probabile che l’indicazione sia di carattere temporale che geografico, anche se si possono intendere entrambe le connotazioni) non è così favorevole per viaggiare, dato il caldo e il sole a picco di questi luoghi desertici.

Il racconto fa emergere dunque che ciò che sta per accadere, l’incontro tra Filippo e il funzionario etiope, è un evento “statisticamente” molto improbabile, se non addirittura impossibile. Che un uomo viaggi a quell’ora verso Gaza e che Filippo si trovi proprio lì ad incontrarlo…solo la volontà di Dio poteva “architettare” questa improbabile connessione di eventi.

La connessione degli eventi all’inizio del racconto mostra la signoria di Dio, dentro l’apparente casualità dell’incontro, in un orario e in un luogo insoliti. Possiamo chiederci in che misura siamo in grado, come comunità cristiana, di leggere questi incontri personali come eventi spirituali ed ecclesiali e non solo come un tempo cronologico, senza spessore di significato.

  • L’obbedienza e l’ascolto di Filippo

Da notare inoltre che Filippo non sapeva assolutamente il motivo di quel comando stranissimo, di recarsi a quell’ora in un luogo deserto. Questo non fa che rafforzare la percezione nel lettore della pronta obbedienza di Filippo, della sua docilità alla volontà di Dio, anche quando ben poco risulta chiaro in ciò che sta accadendo. Se l’angelo comanda: “Alzati e vai a mezzogiorno sulla strada che scende da Gerusalemme a Gaza”, il narratore ci riferisce, con gli stessi verbi, che egli “si alzò e andò”, con un’obbedienza senza riserve né domande.

Egli si fida e probabilmente confida nel fatto che capirà gradualmente il senso e la motivazione di quel comando. Un itinerario simile a quello di Filippo sarà compiuto da Pietro, come vedremo al capitolo 10: il punto di partenza è un’estasi piuttosto ambigua, ma poi lo Spirito guida Pietro passo passo, fino alla casa del Centurione Cornelio (cf. 10, 9-16. 19).

Anche qui più avanti il narratore riferirà la voce dello Spirito Santo, che parla a Filippo e gli indica cosa deve fare (v. 29). Alla fine dell’episodio è sempre lo Spirito Santo a muovere gli eventi da protagonista, rapendo Filippo e portandolo ad Azoto, lungo la costa mediterranea, fino a Cesarea Marittima (cf. vv. 40).  Non è dunque sufficiente l’angelo, per comprendere bene la volontà di Dio: Filippo ha bisogno anche delle indicazioni interiori dello Spirito, che lo conducono a incontrare proprio quella persona che era in viaggio. Egli è dipinto da Luca secondo il modello dei profeti Eliseo ed Elia, che erano avvolti dallo Spirito e venivano condotti in modo improvviso e imprevedibile (cf. 1Re 18,12; 2Re 2,11-12; Ez 3,14).  Essi obbediscono a Dio e sono docili alla sua Parola. Allo stesso modo Filippo esegue puntualmente le parole dell’angelo, che potevano sembrare assai strane.

A questo punto il narratore si sofferma a presentarci il personaggio del funzionario regale. Egli è il “tesoriere” della Regina di Etiopia, che ha il titolo di Candace ed è eunuco.  Da notare che il termine tesoro in greco (gaze) suona come la città di Gaza. Con un gioco fonetico il narratore vuol forse alludere al fatto che in questo viaggio al funzionario sarà dato da amministrare ben altro tesoro… Che la tonalità “esotica” di questa presentazione, un po’ altisonante, sia voluta da Luca per attirare l’attenzione del lettore, non stupisce. L’Etiopia era meta di viaggi nel I secolo, alla scoperta delle sorgenti del Nilo. Ma ciò che importa suggerire a Luca è che la Parola per mezzo di questo incontro inaspettato e improvviso, è destinata a giungere fino ai confini del mondo (cf. At 1,8), fino al lontano regno di Etiopia. Si compiono così le parole del profeta Isaia che aveva profetizzato l’arrivo a Gerusalemme degli Etiopi, con le loro ricchezze (Is 45,14), per supplicare il Signore e convertirsi al Dio d’Israele. Non a caso questo funzionario regale è presentato da Luca come un timorato di Dio, che si reca a Gerusalemme per adorare, ossia per partecipare in certo modo al culto, secondo le modalità previste per i timorati non ebrei. Egli viene denominato come eunuco, qualifica che non necessariamente implica una castrazione, perché nella LXX e anche altrove indica spesso alti funzionari politici e militari, anche se era molto frequente che gli alti funzionari delle regine fossero anche evirati. Il dettaglio, al di là della materialità, è molto importante perché, secondo Dt 23, 2 l’eunuco non può entrare nella comunità del Signore, cioè essere circonciso. Il profeta Isaia aveva però annunciato un tempo in cui stranieri e eunuchi possono essere a tutti gli effetti considerati parte del popolo dell’alleanza ed entrare nella casa, ossia nel tempio (cf. Is 56, 3-8; cf. anche Sap 3, 14).

È proprio il profeta Isaia che il funzionario sta leggendo ad alta voce nel suo viaggio di ritorno. Invitato dallo Spirito, Filippo gli si accosta e gli domanda, senza preamboli né presentazioni: “capisci quel che leggi?”. Il greco di Luca ci offre una bella paronomasia[1]: “ginoskeis a anaginoskeis?” I due verbi sono lo stesso verbo, ma con una preposizione in più che fa la differenza. Leggere è un conto, ma comprendere il senso profondo della Scrittura è un altro. Qui Lc si rifà alla sua teologia delle Scritture, la cui chiave di interpretazione globale può essere solo Cristo risorto (cf. Lc 24, 27. 45-49).

La domanda dell’uomo è dunque pertinente: di chi sta parlando il profeta, di se stesso o di qualcun altro? Egli cita un passo del quarto canto del servo di JHWH, che Luca sceglie a proposito. Si tratta di due versetti (Is 53,7-8) in cui si parla della morte violenta e umiliante del servo, che non ha opposto resistenza. L’ingiustizia di questa uccisione di un uomo innocente e indifeso è simbolicamente rappresentata dal sacrificio di un agnello. La sua morte è rappresentata come una recisione (testo ebraico) o un’elevazione (testo greco della LXX, citato da Luca) della sua vita dalla terra. La traduzione greca della LXX citata da Luca ha trasformato il compianto per la perdita della discendenza, in una domanda retorica di segno opposto: la sua posterità chi potrà contarla? Sembra un ribaltamento radicale: dall’umiliazione si passa ad un’improvvisa esaltazione. Non a caso, la frase che recita: la sua vita è stata recisa dalla terra, può essere letta in greco anche “innalzata da terra”. È una probabile allusione all’ascensione di Gesù. Qui Luca sta presentando un testo greco che già nella tradizione della prima Chiesa veniva letto in senso cristologico, attraverso un ribaltamento di prospettiva. Dalla morte umiliante all’esaltazione e dalla perdita della vita al dono di una posterità senza fine. Qui si sta parlando di Cristo, del suo mistero di morte e resurrezione.

Sembra chiaro anche il motivo per cui Luca insiste proprio su questo passo per l’eunuco etiope: la sua vita è stata recisa dalla terra, ma la sua posterità è innumerevole. L’eunuco vi legge la sua condizione umiliante che gli impedisce di generare e di far giungere il suo nome fino alla fine del mondo, secondo la speranza biblica più originaria.  E insieme vi legge una possibilità di riscatto… forse che dentro a questa umiliazione non ci sia nascosto un bene più grande, un’improvvisa ed inaspettata fecondità? Le Scritture tracciano una via di comprensione di sé, davanti al testo…

Ma finchè il funzionario non ha accesso al senso cristologico, non può entrare pienamente nel senso esistenziale, che è la comprensione piena del testo. Per questo è necessario qualcuno che faccia “da guida”, che apra questa strada per l’interpretazione, che conduca l’uomo progressivamente verso il mistero, attraverso l’annuncio. È il ruolo di Filippo che annuncia Gesù all’eunuco, cominciando proprio da quel passo (v. 35) e diffondendosi sulle Scritture, sul modello che il lettore già conosce (cf. At 2).

Filippo si affianca senza imporre nulla, ma ascoltando l’uomo e le sue attese frustrate. Solo conseguentemente alle sue domande annuncia il compimento di quelle attese che aveva intravisto contemplando le Scritture.  Quella di Filippo è una “conversazione spirituale”, che parte dalla vita dell’uomo e dalle sue domande profonde, per orientarle verso la scelta fondamentale di Cristo. Il Battesimo, visto come punto d’arrivo della conversazione, è il luogo sacramentale dell’avvenuta trasformazione discepolare. Da ciò si può ricavare un buon esame su come viviamo e orientiamo la conversazione con le persone che incontriamo. Ed anche come accompagniamo le persone sulla Parola di Dio: molto spesso replichiamo il modello docente-discente, invece di partire dall’ascolto dei vissuti. (cf. 1 Pt 3,13-17)

  •  Libertà di Filippo

A questo punto la narrazione procede veloce verso il suo compimento: l’eunuco stesso chiede di essere battezzato e il rito viene amministrato da Filippo in un corso d’acqua corrente. Ma subito dopo, appena risalito dall’acqua, lo Spirito rapisce Filippo per un’altra missione.

Filippo viene trasportato dallo Spirito ad Azoto, dopo il battesimo dell’eunuco. Dopo i primi incontri, anche fruttuosi, con le persone, ravvisiamo in noi una certa fretta di incasellare le persone nelle nostre “strutture” comunitarie: ad esempio si può tendere ad offrire subito un servizio da svolgere, un gruppo da frequentare e, soprattutto, una messa d’orario a cui partecipare. Non che questo sia di per sé sbagliato, anzi. Ma ci possiamo chiedere se qualche volta una certa “fretta” di “aiutare” la persona non sia il sintomo di una autoreferenzialità, di un’incapacità di guardare al cammino della persona con maggiore libertà di cuore. (cf. Mc 5,1-20)

  • Fecondità dell’etiope

L’eunuco continua, pieno di gioia, la sua strada.

La gioia dell’uomo è il frutto spirituale immediato dell’evangelizzazione (cf. 8, 8). Questa consolazione spirituale infonde coraggio e forza a quest’uomo per continuare la sua strada verso l’Etiopia. Non sente la mancanza di Filippo, non identifica il Vangelo con l’evangelizzatore…il vero annuncio non crea dipendenza ma libera l’affettività dell’uomo orientandola verso il compimento della sua personalità, verso la pienezza della propria vocazione, verso la riuscita fecondità della propria vita. Colui la cui vita era stata recisa dalla terra, perché era un eunuco, è pieno di gioia perché inizia a compiersi in lui la promessa evangelica: egli avrà una discendenza numerosa in terra d’Etiopia, la discendenza spirituale di una Chiesa che sta per nascere attraverso la sua testimonianza e predicazione. Naturalmente questo il narratore non lo riferisce esplicitamente, ma lo lascia intendere per mezzo dell’espediente letterario con cui libera improvvisamente l’etiope dalla presenza di Filippo. Quest’ultimo è uno strumento per mezzo del quale nasce una nuova discendenza spirituale.

L’eunuco viene liberato da Cristo nella sua affettività profonda, e il suo cammino umano diviene finalmente generativo, fecondo, in modo nuovo e inaspettato. Ritengo che questa finalità, la conversione “affettiva” della persona, debba essere presa chiaramente in considerazione nei cammini ecclesiali, per giovani e adulti. Ci possiamo chiedere in che misura i percorsi educativi e formativi da noi predisposti siano orientati alla generatività che emerge dalla relazione con Cristo, più che alla trasmissione di alcuni contenuti. Credo che questo possa essere una meta da desiderare e da chiedere con insistenza al Signore (Gal 1,13-17).


[1] Figura retorica in cui si accostano parole che hanno un suono molto simile, per produrre un effetto di significato.

Esercizi sugli Atti degli Apostoli (II meditazione)

At 6,1-15. Ministri nella Chiesa

  1. Invoco lo Spirito Santo. Fa o Signore che ogni mia intenzione, azione e attività abbia da te il suo inizio e in te e per te il suo compimento, per la potenza dello Spirito Santo. Aiutami a riconoscere gli autentici bisogni, umani e spirituali, nelle richieste e nei conflitti che emergono nella comunità cristiana; accompagnami nell’individuare i carismi più adatti al tempo di oggi e nel valorizzarli; sorreggi sempre il nostro cammino di Chiesa, suscitando nuove ministerialità, in grado di annunciare il Vangelo nelle periferie del cuore e della società.

 I primi versetti (1-7) costituiscono una narrazione autonoma, anche se collegata con ciò che segue, perché hanno la funzione di presentare Stefano e Filippo, nel loro ruolo di diaconi nella Chiesa di Gerusalemme. Essi saranno i protagonisti dei capitoli successivi. La Chiesa di Gerusalemme sta aumentando di numero e questo sembra far sorgere nuove esigenze (v. 1). In questo breve racconto Luca ci vuole mostrare come l’attività missionaria che ha portato la Chiesa a crescere continuamente esiga un permanente atteggiamento di discernimento e riforma da parte degli apostoli. Essi prenderanno alcune decisioni e alla fine il numero dei discepoli continuerà a crescere (v. 7), segno evidente che quelle decisioni erano secondo la volontà di Dio. Infatti l’aumento di numero è segno della benedizione di Dio e del compimento delle sue promesse (cf. 7,17; Es 1,7). Da cosa nasce il discernimento degli apostoli? Da una contesa nata tra due gruppi all’interno della Chiesa. Per la prima volta Luca ci informa che nella Chiesa ci sono due gruppi, Ebrei ed Ellenisti, senza specificarne l’identità (v. 1). Gli Ebrei erano cristiani provenienti dal giudaismo, territorialmente legati a Gerusalemme e di lingua aramaica. Gli Ellenisti erano cristiani provenienti dal giudaismo della diaspora, ossia da quei Giudei che da molte generazioni erano emigrati nelle città elleniche del bacino del mediterraneo. Essi parlavano in greco e da ebrei avevano frequentato le sinagoghe greche della città santa. È possibile che alcuni di loro avessero già contattato il gruppo dei discepoli storici di Gesù, ancor prima della morte del maestro (cf. Gv 12,20-22). Il motivo della contesa tra i due gruppi riguarda alcune carenze nell’assistenza quotidiana delle vedove, categoria socialmente a rischio nel mondo antico e a cui la Chiesa primitiva ha riservato un’attenzione speciale.

Questo conflitto poteva mettere a rischio l’unità della Chiesa e a Luca preme sottolineare come gli Apostoli siano stati in grado di conservare l’unità, proprio preservando la funzione centrale del loro ministero apostolico, ossia il “servizio della Parola di Dio” (v. 2). Essi non possono dedicarsi al “servizio delle mense”, in cui si intende probabilmente non solo la distribuzione dei pasti, ma anche l’organizzazione del culto eucaristico, nel pasto di agape fraterna. Gli apostoli si devono infatti dedicare totalmente alla preghiera e dell’annuncio del Vangelo, essendo per eccellenza i testimoni della resurrezione (cf. 1,22). La preghiera e l’annuncio della Parola infatti sono strettamente collegati (cf. 4,23-31). Perciò essi stabiliscono di istituire nuovi ministri, che si dedicheranno al servizio della comunità, con particolare riferimento alla parte degli ellenisti. Non sembra però che il loro ministero si limiti all’assistenza ai poveri o all’organizzazione liturgica. Subito dopo (v. 9) si dirà infatti che Stefano parla con una sapienza e uno Spirito a cui i suoi avversari non possono contrapporsi. Questo significa che, secondo Luca, anche i sette sono fin dapprincipio annunciatori della Parola, anche se il loro servizio sembra nascere originariamente da una necessità di tipo sociale/liturgico.

Il conflitto nella comunità può essere occasione di trasformazione, verso nuovi equilibri. L’essenziale è cogliere i bisogni soggiacenti, autentici, e cercare di rispondervi con un discernimento evangelico, rilanciando l’azione missionaria. Qui il bisogno era caratterizzato dall’assistenza delle vedove di lingua greca: gli apostoli rispondono creando un nuovo ministero, che ha una funzione di cura verso la comunità di lingua greca e che rilancia il dinamismo missionario e di evangelizzazione. Quali conflitti ho incontrato nella comunità e a quali bisogni corrispondono? Penso ad esempio alla fatica dei catechisti di fronte a famiglie sempre più distanti e ai frequenti disagi e conflitti che si creano. È forse arrivato il momento di una ministerialità di annuncio e catechesi più rivolta agli adulti.

  • La diaconia nella Chiesa

I sette sono corresponsabili della comunità cristiana e ricevono l’imposizione delle mani da parte degli apostoli per essere in grado di coltivare e promuovere la fede. La loro istituzione avviene in un contesto di preghiera, perché il loro ministero è voluto da Dio, attraverso il discernimento ecclesiale e ha una funzione anzitutto spirituale, quello di far crescere la Parola di Dio (cf. v. 7). Essi sono scelti tenendo conto non di particolari abilità gestionali, organizzative o intellettuali, ma del dono della sapienza che viene dallo Spirito Santo (v. 3). Spesso si è tentati di vedere in questo episodio narrato da Luca l’istituzione del ministero del diaconato, così come oggi lo intendiamo nella Chiesa. È importante sottolineare il fatto che Luca non utilizza mai il termine diakonoi. Non si tratta dunque dell’istituzione di un solo, particolare ministero, ma di ogni ministero, del “ministero” in quanto tale nella Chiesa. Esso ha almeno tre caratteristiche che possiamo così elencare:

  • Nasce da un bisogno di carattere storico e può conoscere evoluzioni, mutamenti e anche cessare di esistere.
  • Si caratterizza come una forma di corresponsabilità ecclesiale al ministero apostolico.
  • Non si limita a rispondere a esigenze organizzative, ma è intimamente connesso al ministero apostolico, tramite l’imposizione delle mani, per l’annuncio del Vangelo e la crescita della fede.
  • Richiede un discernimento di tipo “spirituale” e non meramente “gestionale”.

Dedicarsi all’annuncio della Parola è al cuore della ministerialità apostolica. Essa non esclude, anzi richiede una partecipazione da parte di tutta la ministerialità nella Chiesa. Anche Stefano, infatti, è un grande annunciatore, nel suo contesto di lingua greca. Anche l’attuale conformazione del diacono gli consente di trovarsi in una zona di “periferia” e di “confine”, in cui portare il seme dell’annuncio. Qui può essere interessante riflettere un po’ sui nostri desideri ed effettive opportunità di annuncio e quali aspetti della nostra vita, in famiglia, al lavoro e negli ambiti pastorali, siamo in grado di valorizzare maggiormente in questa linea.

  • L’annuncio del Vangelo e il conflitto

A questo punto, a partire dal v. 8 troviamo il ministero in atto. Stefano, uomo già presentato come pieno di fede e di Spirito Santo, mostra la grazia e la potenza dello Spirito nel suo servizio alla Chiesa, attraverso segni e prodigi. Egli è conformato a Gesù (cf. 2,22) e, come Gesù, è destinato a suscitare opposizione e rifiuto da parte di altri ebrei ellenisti presenti a Gerusalemme. Ma essi non riescono a resistere alla sapienza che proviene dallo Spirito e che era stata promessa da Gesù ai suoi discepoli, in contesto di persecuzione (cf. Lc 12,11-12). In modo simile a quanto avvenuto a Gesù gli avversari di Stefano, non potendo opporsi a parole, lo attaccano fabbricando accuse false.

C’è anche un conflitto che nasce da un’opposizione al vangelo e che, nel caso di Stefano, si concretizza nell’arresto e nell’esecuzione capitale. Tale opposizione nasce da una visione ideologica e fondamentalistica, in particolare centrata sul Tempio di Gerusalemme e sulla sua presunta intangibilità. Anche noi viviamo fondamentalismi e idolatrie, dentro e fuori della Chiesa. L’idolatria del “si è sempre fatto così” e di interessi, economici o personali blocca spesso tentativi di cambiamento e riforma nelle comunità cristiane e civili. La paura del cambiamento e della novità, la paura del futuro porta le comunità a chiudersi in sé stesse, in ambiti autoconsolatori, che giudicano il mondo intorno e avversano ogni dialogo e apertura autenticamente evangelica.  Posso riflettere su quali opposizioni e conflitti al vangelo io vivo.

  • Come vivere il conflitto

Egli avrebbe parlato contro il luogo santo (il tempio) e contro la legge (v.13), mostrandosi blasfemo nei confronti di Mosè e di Dio (v. 11), in modo molto simile a come Gesù stesso era stato accusato (cf. Mc 14,58). In realtà, come vedremo, Stefano non parla contro il tempio ma ne combatte l’assolutizzazione ideologica, secondo il modello dei profeti e dei sapienti di Israele. Il volto di Stefano, trasfigurato, irradia gloria, proprio nell’imminenza della sofferenza, così come anche in Gesù trasfigurazione e passione sono intimamente legate (v. 15).

La trasfigurazione del volto di Stefano indica la possibilità di stare nel conflitto, di viverlo da dentro, senza lasciarsi intrappolare dalle sue logiche, profondamente inseriti in Cristo e nel suo Regno. Il conflitto può infatti spaventarci e portarci a fuggire. Può creare in noi rabbia e portarci ad agire in modo un po’ “partigiano”. Può infine scoraggiarci e bloccarci. Come posso vivere il conflitto con autenticità e in modo “creativo”, come occasione di maggiore unione con Gesù?

Esercizi sugli Atti degli Apostoli (I meditazione)

Invoco lo Spirito Santo. Fa o Signore che ogni mia intenzione, azione e attività abbia da te il suo inizio e in te e per te il suo compimento, per la potenza dello Spirito Santo. Aiutami a fare memoria del mio cammino nella Chiesa e a riconoscere la presenza dello Spirito nell’esperienza concreta del popolo di Dio. Conducimi al cuore delle diversità nella Chiesa, per apprezzare i carismi come doni di Dio. Svuotami di tutti i miei preconcetti e ideologie, per riempirmi dei tuoi desideri per la Chiesa di oggi.

At 2,1-12: la Pentecoste

Nei vv. 1-4 è narrata la discesa dello Spirito. Invece dal v. 5 lo scenario cambia improvvisamente per aprirsi ad una immagine mondiale con Gerusalemme sullo sfondo. Entrano infatti in scena Giudei di ogni nazione del mondo. Scompare il contesto spaziale della casa in cui erano radunati gli apostoli ed emerge un nuovo contesto simbolico che ha per sfondo Gerusalemme e in primo piano la folla immensa dei Giudei.

Le due parti sono tra loro collegate grazie al riferimento del “parlare in lingue” (2, 4. 6), la folla infatti li ascolta parlare ciascuno nella sua lingua. Non si tratta di glossolalia, come la derisione di alcuni spingerebbe a pensare (“si sono ubriacati di mosto”) ma precisamente di un parlare in modo comprensibile ad uomini di lingue diverse. Infatti Luca modifica la locuzione paolina “parlare in lingue”, indicante l’espressione inarticolata di suoni conosciuta come glossolalia, tramite un aggettivo: “altre”. Essi non stanno, secondo Luca, semplicemente parlando in lingue, ma in “altre lingue”, ossia stavano parlando “delle grandi opere di Dio” in lingue comprensibili a ciascun uditore.

Le immagini del fragore e del vento, descritti da Luca come una “voce” (v. 6), e l’immagine del fuoco possono avere come sfondo la teofania (manifestazione di Dio) sul monte Sinai (Es 19,16-19).

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  1. Radunati nello stesso luogo

ll fatto che i presenti siano riuniti tutti insieme nello stesso luogo rafforza l’idea di unità e comunione della prima Chiesa, non solo esteriore, ma anche intima e spirituale. Essi infatti sono seduti, in una posizione abituale alla preghiera sinagogale. Potrebbero essere solo i dodici apostoli (cfr. 2,14) ma più probabilmente qui si allude ai 120 che già erano riuniti nello stesso luogo, per la scelta del sostituto di Giuda (cfr. 1,15). 

Erano radunati tutti insieme nello stesso luogo. Si può notare qui l’accentuata importanza del con-venire. Esso è il primo passo della sin-odalità, ossia del mettersi in cammino tutti insieme. C’è un convenire fisico ma c’è anche un convenire spirituale. È l’attesa del battesimo in Spirito Santo e fuoco, di cui ha parlato Gesù in At 1,4-5. I discepoli sono formati all’attesa di questo dono e questa è anche la motivazione del loro convenire, del loro stare insieme a Gerusalemme. Mi posso chiedere in che misura il mio con-venire fisico nei luoghi e tempi del cammino sinodale sia anche spiritualmente preparato. Possono infatti esserci in noi tentazioni di scoraggiamento, di sfiducia, di stanchezza, che minano l’apertura del cuore al dono dello Spirito. Prima di iniziare qualche percorso posso chiedermi: che frutti mi attendo dal cammino ecclesiale e sinodale? Gal 5,13-26 ci fa un elenco dei frutti della carne e di quelli dello Spirito. Posso discernere su quali versanti della carne e dello Spirito mi sento implicato.

  • Riempimento di uno spazio “vuoto”

Come nel battesimo di Gesù, anche qui l’evento della Pentecoste scaturisce dal cielo come un rumore di vento impetuoso, che riempie tutta la casa. Se il vento può essere un’immagine collegabile allo Spirito (cfr. Gv 20,22) in realtà l’accento di questa descrizione cade sulla totalità, ossia sul fatto che la presenza di Dio riempie tutto di se stessa, secondo una modalità cara all’Antico Testamento (cfr. Is 6,3). Le lingue di fuoco si dividono e cadono ciascuna su ogni persona presente. L’immagine mostra chiaramente un unico fuoco e vuole significare la capacità dello Spirito di entrare, nella sua unità e totalità, in ciascun individuo singolarmente.

C’è un compiersi del tempo che si collega ad una pienezza della casa e ad una pienezza delle persone. Lo Spirito invade spazi e tempi di attesa, di per sé vuoti, per entrare nelle persone, nel loro cuore. Posso anche chiedermi quali spazi e tempi del vivere ecclesiale siano così “vuoti” da costituire una buona opportunità per il lavoro dello Spirito in noi. Forse il cammino sinodale può essere avvertito, invece che come un impegno in più tra tanti altri, come un’occasione di svuotamento per lasciar agire lo Spirito.

  • Lo Spirito, una potenza comunicativa che integra le diversità

 La metafora della fiamma come lingua di fuoco, anticipa il dono della parola, il potere di parlare in “altre” lingue. Questa pienezza dello Spirito Santo si riversa su ognuno e lo riempie di una potenza comunicativa, in grado di trasferire la testimonianza degli apostoli in “altre lingue”. Il contenuto di questa comunicazione sono le grandi opere di Dio, ossia il Vangelo che viene annunziato a tutti i popoli.  Quando la scena cambia di colpo, con l’immagine dei Giudei di tutti i popoli (v. 5), essa era già stata preparata dal riferimento alle lingue parlate dagli apostoli.

Comunione e alterità si rafforzano l’una con l’altra in questa immagine dello Spirito che offre a ciascun apostolo il potere di esprimersi in “altre” lingue. Ciascuno in una lingua diversa, ma il vangelo è unico, come abbiamo già osservato. Possiamo chiederci come nei contesti ecclesiali che viviamo siamo in grado di far parlare e integrare la “diversità”. C’è ad esempio una diversità generazionale, una culturale e una di stili spirituali. La diversità generazionale comporta una difficoltà di intendersi tra anziani e giovani, per i linguaggi e le esperienze di vita. La diversità culturale emerge soprattutto tra zone rurali e città, tra contesti di vita aperti all’apprendimento dei nuovi linguaggi e contesti più tradizionali, tra zone di recente immigrazione e zone ancora piuttosto omogenee a livello sociale. La diversità degli stili spirituali emerge nella divaricazione tra una religiosità più tradizionale e legata a certe devozioni e una sperimentazione di linguaggi e forme diverse, di meditazione e approccio spirituale. Nello Spirito questa diversità può essere perfino, in certo modo, accentuata, per esprimere però l’unico Vangelo. Essa si ritrova in una comunione più profonda, che è di natura ecclesiale. (Rm 12,1-8)

  • La storia del popolo di Dio e il suo compimento nello Spirito

Chi sono questi personaggi che godono dell’annuncio evangelico? Si tratta di Giudei, residenti a Gerusalemme e provenienti da tutte le nazioni del mondo. Tale presenza di giudei della diaspora a Gerusalemme è storicamente attestata ma ha anche un significato profondamente simbolico per Luca.  La salvezza viene dai Giudei e nella prima parte del libro degli atti il Vangelo è annunciato solo ad essi. Essi sono residenti a Gerusalemme, come luogo del mistero pasquale di Cristo, da cui il Vangelo si irradia fino ai confini del mondo. Essi provengono da tutti i popoli del mondo, per indicare l’universalità dell’annuncio che parte da Gerusalemme. Ciò che qui sta accadendo, contiene in sintesi tutto il libro degli Atti.

Le domande retoriche di questa folla (vv. 7-8), intendono sottolineare il carattere miracoloso di questo accadimento, per il lettore. Se dei poveri Galilei, gente dalla provenienza non così illustre, acquistano il potere di parlare in tante lingue diverse e portare un annuncio di questo tipo fino ai confini del mondo, ciò non può che provenire da Dio. L’elenco delle nazioni (vv. 9-11) intende moltiplicare la meraviglia del lettore attraverso lo stupore degli astanti, per una così grande varietà di popolazioni raggiunte. Si tratta probabilmente di una lista di regioni della diaspora giudaica, a cui Luca aggiunge la specifica “Giudei e proseliti” (v. 11), che indica la presenza sia dei circoncisi già appartenenti al giudaismo, sia di quei pagani che si erano avvicinati al giudaismo e avevano iniziato a frequentare il culto sinagogale. Il carattere missionario del giudaismo ellenistico di epoca romana diviene ora proprio della comunità cristiana, che utilizzando come punto di partenza le comunità giudaiche sparse lungo il Mediterraneo e il medio oriente, arriverà ben presto a raggiungere tutti i confini del mondo conosciuto.

In una visione unitaria e sintetica viene riassunto il progetto salvifico ed insieme ecclesiologico degli Atti degli Apostoli, ossia generare, attraverso l’annuncio apostolico, un’unica Chiesa universale in ciascuna delle Chiese che nasceranno nei diversi luoghi e culture del mondo. Come le fiamme di un unico fuoco si dividono su ciascun apostolo, senza diminuire la loro potenza e pienezza, così il messaggio di un unico Vangelo si rende presente in ogni uditore, rendendo possibile la nascita dell’unica Chiesa, nelle tante Chiese fondate dalla predicazione degli Apostoli.

I presenti al momento della Pentecoste non sono pagani, ma Giudei e proseliti. Lo Spirito non bypassa la storia fin qui maturata nella comunità ebraica in tutto il mondo, ma la compie. Ci si può domandare se le nostre riflessioni ecclesiali non siano spesso venate di eccessiva astrazione e intellettualismo rispetto ad un cammino dello Spirito, che è già presente nella Chiesa e nel popolo di Dio. In questo senso si potrebbe avvertire un rischio se il cammino sinodale avvenisse in modo “disincarnato” da ciò che già il Signore ha compiuto nella sua Chiesa. (Rm 9,1-6)


[1] Ad esempio secondo Filone di Alessandria questa voce e questo fuoco del Sinai sono in realtà un’unica manifestazione di un “rumore” che agita l’aria e la trasforma in un “fuoco a forma di fiamme”. Una conferma ulteriore viene dal fatto che la tradizione rabbinica ha messo in relazione anche la festa di Pentecoste con il dono della Legge (cfr. Giub 1, 1).  Dunque la Pentecoste è il tempo in cui viene sancita la nuova alleanza, con la voce di Dio e il fuoco, che sono simboli del dono dello Spirito, che compie la legge (Ez 36, 26). Non a caso infine coloro che godranno di questo fenomeno spirituale narrato da Luca sono giudei pii, ossia osservanti della legge, provenienti da ogni nazione.

Miriam di Nazareth, la madre di Dio

Miriam era già il nome della sorella di Mosè, colei che aveva sfidato il potere del faraone per salvare il suo fratellino più piccolo.

Così Miriam, Maria, è diventato il nome della sfida più grande lanciata contro l’arroganza del potere e la superbia che umilia per meglio controllare.

Non è uno scherzo purtroppo, ancora oggi, questa pretesa di circoscrivere e utilizzare il femminile, rendendolo schiavo di un potere autoreferenziale e incapace di empatia. Non è solo l’Afghanistan, paese in cui si scoraggiano ormai le donne a frequentare le università e a uscire di casa; ma anche nella nostra civilizzata Europa ancora oggi si costruisce un’immagine falsa della donna, per minimizzare la portata destabilizzante di un femminile adulto e sicuro di sé. Basta vedere come talvolta si giustificano violenze e apprezzamenti pesanti ai danni delle donne, trasformando le vittime in seduttive carnefici.

Così si costruisce l’immagine di colei che seduce, con la presenza e con le parole. Contro questa immagine Maria sfida ogni potere che sminuisce l’immagine della donna, perché ella non seduce con le parole, ma piuttosto “custodisce le parole”. La sua comunicazione non è fatta per catturare e manipolare, ma per accogliere e conservare, ed anche proteggere, quanto c’è di più bello e insieme fragile nell’uomo. Ella non è tentata dal rispondere alla forza materiale con la sottile forza dell’inganno, ma si fa spazio rispettoso, hortus conclusus, di relazioni tessute sul filo di sentimenti profondi e di attese radicali.

Ancora, il potere costruisce della donna l’immagine di colei che può comandare “dividendo” gli uomini, una seduzione che mette i “fratelli” gli uni in competizione con gli altri. Si veda ad esempio come è costruita la narrazione omerica sulla povera Elena, la nobildonna che fece scatenare la terribile guerra di Troia, dividendo uomini e dei. Contro questa immagine così tradizionale da essersi profondamente depositata nel nostro inconscio, Maria si presenta non come colei che divide, ma come colei che unisce, l’uomo e Dio.

La sua bellezza attiva un circuito di relazioni che riconcilia e non genera invidia. Non è lo specchio delle brame della regina cattiva di Biancaneve, ma lo sguardo con cui Dio ama e crea, e insieme contempla la sua creatura. Questo sguardo gratuito dona identità a colei che così non si può far altro che definire come “amata”: la piena di grazia, la traboccante di questo amore circolare che da Dio passa alla creatura e poi di nuovo a Dio, in un vortice di bellezza sempre crescente in cui ella si può specchiare.

È la bellezza di una madre, che restaura il volto di tutte le madri piegate dal dolore della perdita, della sofferenza, del lutto. È la bellezza di una figlia, che riscatta la passione di tutte le figlie dimenticate, sfruttate, abusate.

Nel suo volto ogni donna trova riscatto, dall’umiliazione di una femminilità sfigurata rispetto all’originario disegno di vita.

Se Eva aveva concepito con Dio, lei concepisce Dio.

Un di più che non emerge come un grido di superbia e vittoria, come quello di Eva, ma come un cantico interiore, umile e sereno, forte ed armonico, in cui le Parole di Dio e le lodi degli uomini si fondono ormai senza più separazione.

La sfida è ormai lanciata, con Miriam di Nazareth, all’arroganza del potere.

Sapremo coglierla? Dove la nostra vita cristiana può offrire al mondo ancora oggi questo appello e questa testimonianza?

Ama e fà ciò che vuoi! (Omelia XXXI TO Anno B)

Amore: un filosofo moderno, Nietsche, lo considerava come espressione di una volontà di potenza, è l’io che si deve espandere.

Un poeta romantico Novalis, lo definiva come malinconia, mal d’amore, desiderio insoddisfatto d’infinito.

Ma se così fosse, l’amore sarebbe semplicemente un fenomeno circoscritto al nostro io, incapace di farci incontrare con gli altri.

Nel vangelo la figura, la parabola dell’amore è la croce. Essa ha due assi, quello verticale, che unisce la terra al cielo, l’uomo a Dio, e quello orizzontale che, per così dire, abbraccia gli uomini. È il senso dell’amore che ci offre Gesù nel dialogo con il fariseo, sulla sintesi di tutta la legge.

Amore di Dio, braccio verticale della croce, significa sentire con tutte parti e le fibre del nostro essere la relazione con un Altro che ci pone al nostro posto, come creature povere e limitate ma amate intimamente: sentire questo amore e coltivarlo, con tutto il cuore, cioè con le nostre decisioni profonde, con tutta l’anima, cioè con la nostra vita interiore e psicologica, e con tutte le forza, cioè con la nostra volontà, mettendoci tutto l’impegno che viene dal profondo del nostro essere. Questo è il braccio verticale: ma sarebbe ancora poco se non ci fosse, innestato in questo braccio verticale quello orizzontale, ossia l’amore del prossimo. Qui l’amore di Dio si manifesta realmente come capace di attraversare e riempire di sé tutte le manifestazioni della nostra vita, tutte le nostre relazioni. Solo così esso può “abbracciare” la nostra vita e colmarla fino alla misura piena.

Ciò vuol dire almeno tre passi:

  1. Siamo in una cultura e civiltà dell’immagine, che inquina a tal punto la nostra mentalità e le nostre relazioni, da farci pensare che l’amore sia una questione di offrire agli altri una certa immagine buona di noi, un certo modo di proporci, per accontentare gli altri e in fondo essere così confermati interiormente. Non è così. L’amore non è mai una forma di difesa della nostra immagine, ma una spinta interna, talvolta anche a scapito dell’immagine che gli altri hanno di noi, a stare con gli altri, condividere e partecipare i desideri profondi che sono nel nostro cuore.
  2. l’amore è un lavoro sul confine, mio e dell’altro, che comporta l’accarezzare costantemente i limiti, miei e dell’altro, standoci dentro e accogliendoli. Ad esempio perché ci accade che i difetti dei nostri figli ci facciano così arrabbiare? Non è forse perché fanno così bene da specchio ai nostri difetti? E quella rabbia verso di loro non è forse rivolta segretamente a noi stessi? Nelle relazioni genitori-figli si vive in modo viscerale la massima evangelica secondo cui amare l’altro non accade più o meno ma nel modo in cui si ama se stessi. Non si possono amare i propri figli se non ci si esercita anche ad amare noi stessi, a stimarci, ad accoglierci con i nostri limiti.
  3. I segnali positivi di questo lavoro al confine nelle relazioni sono, ed è il terzo passo, la tenerezza e l’umorismo. Se riesco a sorridere in qualche modo dei limiti, vedendone il lato a volte un po’ ridicolo ma sempre circoscritto, se riesco a non averne paura, a non scandalizzarmi, a osservare con tenerezza certi lati…beh siamo un pezzo avanti nell’amore.  Ciò significa che siamo in grado di uscire da noi per incontrare l’altro con i suoi bisogni e necessità (empatia). Lasciarsi toccare nel profondo dalla ferita altrui e provare a “guardarla” con gli occhi di Dio, che ama senza giudicare.

Ama e fa ciò che vuoi, diceva Agostino. Non è un invito al libertinismo. È invece la profonda fiducia nel fatto che l’amore vero, sorretto e purificato da Dio, ci conduce all’intima comunione con gli altri, ad accoglierli così come sono, senza falsi idealismi e a vivere nel mondo reale, provando a trasformarlo, almeno un po’, in quel paradiso a cui Dio ci ha da sempre chiamati a vivere.

Mc 10,46-52 (XXX TO Anno B)

Gesù nel suo cammino verso Gerusalemme arriva a Gerico, città sulle rive del Giordano, alle porte della terra santa. Gesù entra ed esce, senza che venga descritta la presenza e predicazione di Gesù in città, perché a Marco interessa il fatto che il miracolo avviene fuori della città, segno che anche Gesù compirà il suo mistero Pasquale, di morte e resurrezione, fuori delle mura della città di Gerusalemme.  Gesù condivide il destino di coloro che si trovano “fuori” dal recinto protetto del sacro, come  Bartimeo (= figlio di Timeo), che era cieco e quindi escluso dal culto e dalla società, costretto a chiedere l’elemosina al di fuori delle mura della città. 

Questo cieco, appena sente parlare di Gesù il Nazareno, si mette a gridare: “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me”. Si tratta di una straordinaria confessione di fede. Il cieco identifica in colui che proviene da Nazaret (il nazareno) città senza alcuna importanza nella Galilea, lontana dalla città santa di Gerusalemme, addirittura il discendente di Davide, il messia, l’unto dello Spirito che deve venire a salvare il popolo dai suoi peccati e dal suo male. Per questo Il cieco lo ritiene capace di una compassione ed amore in grado di guarirlo. Anche la folla, quando Gesù entrerà in Gerusalemme (cf. Mc 11, 10), lo chiamerà in questo modo.

La folla è un personaggio instabile nel Vangelo. Da un lato accoglie Gesù come il figlio di Davide, con festa e canti, dall’altro si lascia sobillare dai capi dei sacerdoti e grida la crocefissione per Gesù (cf. 15, 11). Anche nel nostro brano la folla da un lato si oppone alle grida del cieco, quasi per impedire l’incontro con Gesù, dall’altro invece la parola di Gesù trasforma la folla, da semplice oppositrice a collaboratrice. La gente stessa attorno al cieco lo incita a farsi coraggio ed alzarsi, perché Gesù lo chiama.

Bartimeo allora getta il mantello, segno della sua forza (1 Sam 18, 4; 24, 6; Is 42, 18), si alza (lo stesso verbo usato per la resurrezione di Gesù), balza in avanti e viene da Gesù e lo chiama con l’appellativo riverente e affettuoso di “Rabbunì”, che significa “maestro mio”. Il miracolo non viene descritto, semplicemente Gesù dice: “va la tua fede di ha salvato”. È la fede del cieco a salvarlo, e la sua guarigione fisica è in realtà il segno di una guarigione più profonda di tutto l’uomo, dal punto di vista spirituale. Finalmente il cieco può seguire Gesù per la strada verso Gerusalemme, diventando suo discepolo. Questa è la vera guarigione dell’ex cieco. Il cieco qui rappresenta il popolo stesso di Israele, servo cieco (Is 42,18), che verrà guarito dal Signore (cfr. Is 35,5-6). Rappresenta il discepolo che, per entrare con Gesù a Gerusalemme e seguirlo sulla strada della croce, deve essere guarito da Gesù ed essere in grado di “vedere” con gli occhi della fede ciò che a Gerusalemme sta per accadere. In fin dei conti rappresenta ciascuno di noi, nella misura in cui abbiamo bisogno della parola terapeutica di Gesù per vivere il mistero pasquale, di morte e resurrezione, nella nostra vita.

(MEMORIA) Rileggo più volte il brano di Vangelo, cercando di sostare su quelle frasi, espressioni, parole che toccano le corde più profonde della mia interiorità. Esse nel loro complesso costituiscono una Parola che Dio oggi mi rivolge personalmente.
(INTELLIGENZA) Cerco di comprendere il significato di questa Parola nella mia vita, utilizzando paragoni con il mio vissuto quotidiano e cercando di gettare qualche luce sul mio presente e prossimo futuro.
(VOLONTÀ) Oriento tutto il mio cuore a ciò verso cui mi porta la Parola e entro in una preghiera di supplica, ringraziamento, lode, a seconda di ciò che sento.

Mc 10, 35-45 (XXIX TO Anno B)

Gesù si sta avvicinando a Gerusalemme, dove egli sa bene che verrà arrestato, consegnato ai romani, deriso, flagellato e poi crocifisso come un malfattore. Ha parlato ai discepoli sottolineando ciò che accadrà ed anche la resurrezione il terzo giorno.

Nessuno di loro ha potuto capire. Una reazione difensiva della loro personalità li porta a “saltare” la prima parte del messaggio, relativa alla sofferenza e al rifiuto che Gesù dovrà subire, per concentrarsi solo sulla gloria che ne segue. Giacomo e Giovanni si presentano come gli alfieri di questo futuro Regno che Gesù inaugurerà, pronti a sedere alla sua destra e alla sua sinistra, come plenipotenziari del messia.

Gesù li richiama alla loro profonda incapacità di comprendere. Il battesimo da ricevere indica la morte di Gesù e il calice da bere la sua sofferenza: anch’essi ne saranno partecipi, con Gesù, e nel loro cammino futuro di testimonianza. Ma per ora non sono in grado di capirlo.

Gli altri discepoli allora si indignano. Si tratta del tipico sentimento di rivalsa, di chi teme di essere trascurato e prevaricato. Allora Gesù richiama i suoi al senso profondo dello stare con lui e del seguirlo: l’umiltà. Non è la falsa umiltà di chi nasconde i suoi doni e le sue capacità, ma la disponibilità di mettersi a servizio, distaccandosi da sé stessi e aprendosi agli altri.

Si tratta della dimensione profondamente empatica di chi accetta di com-patire, di appassionarsi, di mettersi in gioco, per riscattare il male e la sofferenza altrui. Il figlio dell’uomo, Gesù, ce lo ha mostrato con il dono della sua vita e ci ha dato anche la forza, l’amore, per poter poter crescere sempre più in questa dimensione.

(MEMORIA) Rileggo più volte il brano di Vangelo, cercando di sostare su quelle frasi, espressioni, parole che toccano le corde più profonde della mia interiorità. Esse nel loro complesso costituiscono una Parola che Dio oggi mi rivolge personalmente.
(INTELLIGENZA) Cerco di comprendere il significato di questa Parola nella mia vita, utilizzando paragoni con il mio vissuto quotidiano e cercando di gettare qualche luce sul mio presente e prossimo futuro.
(VOLONTÀ) Oriento tutto il mio cuore a ciò verso cui mi porta la Parola e entro in una preghiera di supplica, ringraziamento, lode, a seconda di ciò che sento.

Mc 10,17-30

In modo plateale, un uomo, probabilmente giovane, si presenta a Gesù in mezzo alla folla e si inginocchia davanti a lui. La sua domanda ha un che di preparato, affettato: “Maestro buono, che cosa devo fare per ottenere la vita eterna?”. La lode del maestro, con l’aggettivo buono, ha a che fare con un intento sottilmente manipolatorio del giovane, che vuole intrappolare il maestro in una rete di complimenti gratificanti, tali da accreditarlo come il discepolo migliore, colui che ogni maestro vorrebbe avere, in un reciproco riconoscimento. In realtà ciò a cui punta quest’uomo non è riconoscere davvero l’identità di Gesù, ma confermarsi nella sua pretesa di essere perfetto, a posto, secondo tutti i canoni della pietà ebraica e dei comandamenti appresi dai genitori. Non a caso Gesù nega recisamente l’attribuzione di bontà ricevuta dal giovane, ristabilendo tra i due le giuste distanze, e citando i comandamenti mette alla fine, in posizione di rilevanza, l’onore dovuto al padre e alla madre.

Gesù ha capito il limite di questo giovane, abituato ad obbedire alle richieste genitoriali per confermarsi in loro. Gesù gli offre a questo punto una possibilità per andare oltre a questa situazione di stallo nella sua vita, attraverso un amore donato gratuitamente, senza alcuna richiesta previa. Gesù infatti, fissatolo lo amò.

Il frutto di questo amore si traduce in una libertà di abbandonare tante ricchezze personali, soprattutto di carattere morale, di stima e apprezzamento altrui, di riconoscimento gratificante in contesti protetti. Può cominciare per quest’uomo un cammino di maggiore autenticità e di guarigione interiore, per vivere finalmente a pieni polmoni, con cuore rinnovato, l’intensità dell’amore, uscendo da sé stesso.

Per ora quest’uomo se ne va triste. Talvolta i propri condizionamenti profondi prevalgono sul richiamo dell’autenticità, per la fatica a rinunciare alla propria confort-zone, per la difficoltà a costruire una stima di sé adeguata in modalità così radicalmente innovative, rispetto alla consueta (ma sempre precaria) stabilità raggiunta dalla persona.

Ma ciò non significa che non possa esserci per quest’uomo una seconda possibilità. Nulla è impossibile a Dio!

(MEMORIA) Rileggo più volte il brano di Vangelo, cercando di sostare su quelle frasi, espressioni, parole che toccano le corde più profonde della mia interiorità. Esse nel loro complesso costituiscono una Parola che Dio oggi mi rivolge personalmente.
(INTELLIGENZA) Cerco di comprendere il significato di questa Parola nella mia vita, utilizzando paragoni con il mio vissuto quotidiano e cercando di gettare qualche luce sul mio presente e prossimo futuro.
(VOLONTÀ) Oriento tutto il mio cuore a ciò verso cui mi porta la Parola e entro in una preghiera di supplica, ringraziamento, lode, a seconda di ciò che sento.