1. 1 LA QUESTIONE ERMENEUTICA E TEOLOGICA DEI SINOTTICI

In “de consensu evangelistarum”  Agostino compie un tentativo di risposta alle obiezioni degli avversari pagani, che criticavano i vangeli sottolineando in particolare le contraddizioni tra di essi. Egli non si sottrae al riconoscimento della diversità tra i quattro vangeli, anzi la sottolinea particolarmente, fino a portarla alle estreme conseguenze. Proprio all’inizio del suo libro (I, 6)[1] egli sottolinea la diversità tra Luca e Matteo sintetizzandola nel diverso approccio “figurale”, che essi hanno utilizzato. Infatti Matteo ha descritto Gesù come un re, invece Luca come un sacerdote, mediatore tra Dio e l’uomo. Eppure proprio questa diversità, secondo Agostino, sta dentro una superiore armonia tra i due Vangeli: sia dal punto di vista regale che da quello sacerdotale, essi hanno descritto Cristo anzitutto come uomo.  A prescindere dal contenuto della sintesi agostiniana che concentra in modo oggi non più accettabile dal punto di vista esegetico la figura regale esclusivamente in Matteo e quella sacerdotale esclusivamente in Luca, il principio ermeneutico da lui utilizzato sembra ancora valido.

Egli lo utilizza anche nel descrivere la passione, morte e resurrezione di Cristo. Non ha paura di sottolineare che qualcuno ha tralasciato cose che altri hanno detto, perché da queste scelte “redazionali”- come ci esprimeremmo noi oggi – emerge l’unica verità.[2] Infatti dietro alla differenti scelte narrative soggiace il concorde intento di comunicare l’unico evento di passione, morte e resurrezione del Signore.

Si evidenzia qui un principio fondamentale dell’ermeneutica dei vangeli sinottici, che si può riassumere con il motto del poeta latino Orazio, che riprende un antico principio filosofico greco: “quid velit et possit rerum concordia discors”.( trad. “ Quale sia la volontà e il potere della concordia discorde in tutte le cose.” [3]

La realtà si mostra attraverso una tensione sempre rinnovata tra polarità contrarie, che nella loro relazione vengono trascese verso un’armonia unitaria. Questo principio filosofico viene applicato da Agostino all’ermeneutica dei vangeli[4] per affermare che le tensioni che si manifestano tra un vangelo e l’altro costituiscono lo spunto per approfondire un’armonia di significato più radicale e profonda. Quindi, per Agostino, non bisogna temere le contraddizioni tra i testi, al contrario è importante sottolinearle, perché esse sono segni di quella particolare ottica teologica con cui ogni evangelista guarda allo stesso mistero di Cristo. L’accesso diversificato al mistero di Cristo non ne pregiudica l’unità e armonia ma la rafforza, mostrandone al contempo la ricchezza e complessità.[5]

 

Lo stesso Agostino non si mostra poi sempre al livello del principio ermeneutico di fondo che soggiace alla sua riflessione. In alcuni passaggi dello stesso trattato non evita il pericolo di un concordismo superficiale, come, ad esempio, quando pretende  di armonizzare due diverse tradizioni sulle parole del Battista, sostenendo che egli aveva dovuto pronunciarle entrambe, una prima e un poi.[6] D’altra parte non aveva in mano gli strumenti per identificare una fonte tradizionale soggiacente ai Vangeli.

In ogni caso, enunciando questo principio ermenutico fondamentale, Agostino combatte con successo contro due tentazioni sempre presenti nella Chiesa, entrambe riconducibili ad un razionalismo di fondo. La tentazione di modificare i vangeli togliendo tutto ciò che è discorde e armonizzando artificialmente tutto ciò che si può mettere insieme con un certo grado di coerenza e la tentazione di fare una scelta di parte togliendo tutto ciò che è meno affine ad una certa sensibilità. La prima tentazione è rappresentata dal Diatessaron di Taziano (160 – 175 d.C. ca.), ossi una unico racconto armonizzato dei quattro vangeli, che è stato letto nella liturgia della Chiesa di lingua siriana per secoli. La seconda tentazione è rappresentata dall’eresia di Marcione (100 – 160 ca.), che contrappone AT e NT a favore di quest’ultimo, cercando di purificare l’immagine di Dio da ogni apparenza violenta. In questo modo arriva anche a tagliare gran parte della letteratura neotestamentaria, “salvando” solo Luca e dieci lettere di San Paolo.

Il problema ermeneutico ed esegetico affrontato da Agostino si ripresenta nella modernità quando gli autori illuministi contestano la veridicità storica dei Vangeli anche sulla base delle discordanze tra i racconti. Inoltre si è incominciato a porre delle domande sulla dipendenza letteraria dei testi tra loro, sulle loro fonti (es. fonte Q) e sulla data della loro composizione, offrendo soluzioni diverse, ma tutte spinte dal comune tentativo di “spiegare” i vangeli a partire dalla descrizione accurata della loro genesi storico – letteraria. Il grande merito di questi tentativi è stato di aver ampiamente aperto lo studio dei Vangeli all’importanza e alla complessità della storia. Essi, come prodotti letterari di una certa epoca storico-culturale, vanno letti alla luce dei loro condizionamenti culturali e religiosi e ricostruendo le fonti, orali o letterarie, a cui hanno attinto.

Come vedremo meglio in seguito la ricerca sull’origine storico – letteraria dei Vangeli si è caratterizzata per un susseguirsi di teorie, alcune più generalmente accettate (teoria delle due fonti) rispetto ad altre, ma tutte fondate su una base altamente congetturale, ipotetica. Oggi siamo più consapevoli che non si può  “risolvere” il problema ermeneutico ed esegetico dei sinottici ricorrendo esclusivamente alla critica storica e ad una ricostruzione esatta delle reciproche dipendenze letterarie e nemmeno ricorrendo semplicemente al contesto storico – culturale del I secolo d.C e ai suoi generi letterari.

In tempi più recenti la “critica della redazione”, concedendo una maggiore importanza all’autore del vangeli, colui che materialmente ha cucito insieme le fonti e ha conferito la sua impronta teologica alla narrazione, ha potuto riequilibrare l’analisi esegetica attorno al principio ermeneutico tradizionale. Ricostruire la storia di un testo e le dipendenze letterarie è solo il primo passo per l’interpretazione, che deve poi analizzare il diverso utilizzo che gli evangelisti fanno delle stesse fonti e i loro interventi redazionali, per chiarire la loro particolare ottica letteraria e teologica. Tutte queste considerazioni saranno ampiamente riprese nel momento in cui si affronterà più nel dettaglio la storia dei metodi esegetici. Per ora basti sottolineare che il problema ermeneutico e teologico sollevato dai sinottici è tuttora attualissimo, reso ancor più urgente dalla coscienza letteraria e storica contemporanea e dalle sue domande.


[1] “Cum ergo Matthaeus circa regis, Lucas circasacerdotis personam gereret intentionem, utrique humanitatem Christi maxime commendarunt. Secundum hominem quippe Christus et rex et sacerdos effectus est, cui dedit Deus sedem David, patris sui, ut regni eius non esset finis 12 et esset ad interpellandum pro nobis mediator Dei et hominum homo Christus Iesus “ Trad. “Se dunque Matteo aveva condotto l’intenzione a riguardo della figura regale e Luca a riguardo della figura sacerdotale, l’uno e e l’altro hanno dato valore soprattutto all’ umanità di Cristo. Come uomo infatti Cristo è stato fatto re  e sacerdote; a lui Dio diede il trono di Davide suo padre, perchè del suo regno non vi fosse fine e l’uomo Gesù Cristo stesse ad intercedere per noi come mediatore tra Dio e l’uomo.” De Consensu Evangelistarum I, 6.

[2] “Per istos dies sanctae Paschae, sicut novit Caritas vestra, fratres, resurrectio Domini secundum omnes Evangelistas sollemniter recitatur. Sic enim narrationes suas conscripserunt, ut aliqua pariter dicerent, aliqua vero alius praetermitteret, nemo tamen a veritatis concordia dissonaret. Omnes dixerunt Dominum crucifixum, sepultum, die tertia resurrexisse; quomodo autem apparuerit discipulis, quia multis modis apparuit, alii alia dixerunt, quae alii praetermiserunt; omnes tamen veritatem conscripserunt.” Trad. “Durante questi giorni della Santa Pasqua, come la carità Vostra ha avuto modo di conoscere, fratelli, viene proclamata solennemente la resurrezione del Signore secondo tutti gli Evangelisti. Essi infatti scrissero le loro narrazioni in modo tale che alcune cose le dicevano in modo simile, altre invece qualcuno le tralasciava; nessuno tuttavia ha stonato la concordia della verità. Tutti hanno raccontato il Signore crocifisso, sepolto e risorto il terzo giorno; in che modo tuttavia egli apparve ai discepoli, poiché apparve in molti modi, alcuni dissero alcune cose, che altri tralasciarono. Tuttavia tutti hanno scritto la verità” Sermo 236/A “De Secunda Feriae Paschae”.

[3] concordia discors ‹konkòrdia…› locuz. lat. (propr. «concordia discordante»). – Si tratta di un’espressione del poeta latino Orazio in (Epistole I, 12, 19); il verso intero è: quid velit et possit rerum concordia discors («quale sia il significato e il potere dell’armonia discorde delle cose»), e attraverso un riferimento alla filosofia di Empedocle, è usata  per indicare come da una discordanza di elementi possa risultare un’armonia superiore.

[4] Non è certamente Agostino né l’unico né il primo dei padri della Chiesa ad applicare questo principio. Cfr, qualche secolo prima Ireneo di Lione cfr. Adv Haer. 3, 11, 7 – 9.

[5] Mi sembra questo il significato profondo che si può ancora attribuire alla tradizionale iconografia cristiana sui vangeli, tratta dall’Apocalisse, e ripresa da Agostino nei passaggi seguenti del “De Consensu”.  Riporto di seguito la traduzione a titolo di curiosità: “6. 9. Mi sembra dunque che fra quei ricercatori che hanno interpretato i quattro esseri viventi dell’Apocalisse 27 significando con essi i quattro evangelisti meritino – probabilmente – maggiore attendibilità coloro che hanno identificato il leone con Matteo, l’uomo con Marco, il vitello con Luca, l’aquila con Giovanni, che non gli altri che hanno attribuito l’uomo a Matteo, l’aquila a Marco, il leone a Giovanni. Per sostenere questa loro congettura essi si basarono piuttosto sull’inizio del libro che non sul piano globale inteso dagli evangelisti, cosa che invece bisognava di preferenza investigare. Era pertanto molto più logico che con il leone si vedesse raffigurato colui che sottolineò assai vigorosamente la persona regale di Cristo. Difatti anche nell’Apocalisse il leone è ricordato insieme con la tribù regale, là dove si dice: Ha vinto il leone della tribù di Giuda 28. Secondo Matteo si narra anche che i Magi vennero dall’Oriente per cercare e adorare il Re che mediante la stella era loro apparso come già nato; e dello stesso re Erode è detto che ebbe timore di quel Re bambino e per ucciderlo fece trucidare molti piccoli29. Che col vitello si indichi Luca non ci sono dubbi fra le due categorie di studiosi, e il motivo è da ricercarsi nella vittima più grande che soleva immolare il sacerdote. In effetti l’autore del terzo Vangelo comincia la sua narrazione con il sacerdote Zaccaria e ricorda la parentela fra Maria ed Elisabetta 30; da lui si raccontano adempiuti in Cristo bambino i segni misteriosi del sacerdozio veterotestamentario 31 e tante altre cose, che possono ricavarsi da una ricerca diligente, attraverso la quale appare che Luca intese descrivere la persona di Cristo sacerdote. Quanto a Marco, egli non volle narrare né la stirpe regale né la parentela o la consacrazione sacerdotale, e tuttavia appare occuparsi delle cose compiute da Cristo come uomo. Ora fra quei quattro esseri viventi egli appare raffigurato dal simbolo del semplice uomo. Quanto poi a questi tre esseri viventi: il leone, l’uomo e il vitello, si deve dire che essi si muovono sulla terra, cosa che si addice ai primi tre evangelisti, i quali si occupano prevalentemente delle cose che Cristo operò nella carne e dei precetti che diede agli uomini rivestiti di carne insegnando loro come debbano trascorrere la presente vita mortale. Viceversa Giovanni come aquila vola sopra le nebbie della fragilità umana e vede con l’occhio acutissimo e sicurissimo del cuore la luce della verità immutabile.”

[6] Cfr.II, 12, 29 “ Orbene, nei brani evangelici che ho proposto confrontandoli l’uno con l’altro cosa riterremo essere incompossibile? Forse l’aver un evangelista detto: A lui io non son degno di portare i calzari 149, mentre un altro: Di sciogliere il laccio dei calzari 150? In effetti, portare i calzari e sciogliere il laccio dei calzari a prima vista sembrano espressioni che si diversificano non solo per i termini o per l’ordine delle parole o per la forma del dire ma anche per il contenuto. Al riguardo si può certo indagare cosa in realtà abbia detto Giovanni e di che cosa si ritenesse indegno: se di portare i calzari o di sciogliere il laccio dei calzari. Se infatti egli pronunciò una di queste frasi, si dovrà concludere – così almeno sembra – che abbia detto il vero colui che fu in grado di riferire ciò che egli effettivamente disse; quanto invece all’altro, si potrà ritenere che, se ha riferito una cosa per un’altra, ciò facendo non ha mentito ma, ovviamente, è incorso in una dimenticanza. È tuttavia conveniente escludere nei racconti evangelici ogni sorta di falsità: non solo quindi quella che si commette mentendo ma anche quella che consiste nel dimenticare una cosa. E allora, se rientra davvero nella sostanza delle cose intendere in un senso le parole portare i calzari e sciogliere il laccio dei calzari in un altro, cosa pensi si dovrà concludere, per essere nella verità? Credo non resti altro che dire aver Giovanni usato l’una e l’altra espressione o in tempi diversi o una dopo l’altra. Ad esempio, egli poté dire così: A lui io non son degno di sciogliere il laccio dei calzari e nemmeno di portare i suoi calzari. In questa ipotesi un evangelista prese una parte dell’affermazione mentre gli altri ne presero un’altra, ma tutti narrarono la verità. Ma Giovanni parlando dei calzari del Signore, poté intendere questo soltanto: inculcarci la dignità eminente di Gesù e il suo abbassamento. In tal caso, qualunque cosa abbia egli detto, tanto cioè sciogliere il laccio dei calzari quanto portare i calzari, ha colto il vero senso della sua espressione – in questa ipotesi, identica – chiunque nel riferimento ai calzari riportato con parole proprie ha saputo vedere inculcata la nota dell’umiltà, significata appunto dai calzari. In tal modo nessuno dei narratori ha deviato da ciò che Giovanni intendeva asserire. Quando dunque si parla dell’accordo fra gli evangelisti occorre tener presente questo procedimento, che è utile e occorre imparare a memoria: non esiste menzogna quando uno narra una cosa in termini alquanto diversi da quelli con cui si espresse colui del quale son riportate le parole, purché il narratore sia fedele nell’esporre le stesse cose che intendeva tramandarci colui che pronunciò le parole riportate. In questo modo ci si fa conoscere, a nostra salvezza, che non è da ricercarsi altro all’infuori di quello che intende dire colui che parla.”

Lectio Domenica del Battesimo di Gesù (Anno C)

Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco».
Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».
Lectio
Il vangelo di questa domenica ritaglia due brani in due contesti differenti e li accosta a causa del riferimento allo Spirito Santo. Il primo brano ha per contenuto l’attesa del messia da parte del popolo e la prima parte del discorso in forma diretta di Giovanni il Battista, che contrappone il suo battesimo con acqua al battesimo in spirito santo e fuoco del messia. Il secondo brano invece narra l’episodio del battesimo di Gesù e la teofania (manifestazione di Dio) che in esso accade.
Tutto il popolo aspetta il messia, si tratta di un’attesa pubblica, preparata da secoli durante i quali Dio ha parlato al suo popolo tramite i profeti. Poiché Giovanni ha radunato tanta gente intorno a se, ci si chiede se non sia lui il messia. La sua risposta è molto netta, il suo è un battesimo con acqua, per la conversione, mentre il messia , colui che viene dopo di lui è più forte, perché ha la forza stessa di Dio ( cfr. Dt 10, 17; Lc 11, 22). Egli battezzerà in Spirito Santo e fuoco, che rappresentano un giudizio di Dio (cfr. Am 1, 4; 7, 4) per purificare e rinnovare l’uomo (cfr. Ez 36, 25ss).
Luca riferisce in modo brevissimo il fatto che Gesù venga battezzato, insieme a tutto il popolo di Israele e ci fornisce invece un altro dettaglio importante, ossia che, dopo il battesimo, Gesù era in preghiera. In tutte i momenti di svolta della sua missione Gesù prega (cfr. Lc 6, 12; 9, 18. 28 – 29; 22, 41; 23, 46), così anche qui, all’inizio del suo ministero, la preghiera di Gesù ci fa entrare nel mistero della sua persona e del suo rapporto col Padre.
Mentre Gesù prega accade una teofania: lo Spirito Santo scende su Gesù e lo consacra come messia (cfr. At 10, 38) accompagnandolo lungo tutto il suo ministero pubblico (cfr. Lc 4, 1. 18 – 19); la voce risuona dal cielo, presentando Gesù come il Figlio di Dio, attraverso due citazioni accoppiate dell’AT (Sal 2, 7; Is 42, 1). Tutto il popolo, e in particolare il lettore del vangelo, è ora informato ufficialmente che ha trovato conferma l’annuncia dell’angelo Gabriele a Maria ( cfr. Lc 1, 32. 35): questi è il Figlio dell’Altissimo.
Non solo, ma si è anche compiuto l’annuncio di Giovanni il Battista, che aveva profetizzato la venuta di colui che battezza in Spirito Santo e fuoco. Per ora lo Spirito è presente solo in Gesù, ma dopo la sua morte ed ascensione al cielo egli potrà comunicare lo Spirito a tutti i credenti, nel giorno di Pentecoste (cfr. At 2, 3). Si inaugura così anche il battesimo cristiano come dono dello Spirito ad ogni uomo.
Un’ultima curiosità: perché lo Spirito Santo discenda in apparenza corporea di colomba? Essa può richiamare l’aleggiare dello Spirito sulle acque (Gn 1, 2) per indicare che con Gesù siamo di fronte ad una ri- creazione del mondo ( cfr. anche Gn 8, 8 -12). Oppure potrebbe indicare l’amata del Cantico dei Cantici (cfr. Ct 2, 14), ossia l’umanità rinnovata e sposata dallo Spirito Santo nella persona del messia Figlio di Dio. Le due interpretazioni non si escludono a vicenda.

Suggerimenti per la preghiera

1. Mi dispongo davanti a Dio in preghiera. Sto in ginocchio o seduto, per entrare in colloquio con il Signore, o meditare su ciò che leggo, a seconda di ciò che voglio.
2. Leggo con attenzione il brano di Vangelo e mi concentro sui passi paralleli del testo.
3. Chiedo al Signore il dono di una conoscenza interiore di lui, che per me si è fatto uomo e ha ricevuto lo Spirito Santo nel fiume Giordano, per amarlo e seguirlo sempre più.
4. Vedo la folla di gente che va a essere battezzata e Gesù in mezzo a loro, come uno dei tanti. Poi dopo il battesimo lo osservo mentre prega e mi lascio affascinare dal mistero della sua preghiera, che rivela la sua relazione di intima e radicale dipendenza dal Padre. Chiedo di poter anch’io vivere un rapporto d’amore filiale col Padre e fare la sua volontà in ciò che Lui mi chiede, come Gesù.
5. Mentre osservo i cieli aperti e la colomba scendere su Gesù in preghiera, ascolto la voce dal cielo, che mi rivela il Figlio di Dio. Anche la mia umanità grazie al dono dello Spirito è conformata alla sua, sposa di Dio nello Spirito Santo.
6. Mi rivolgo al Padre e chiedo che, come Giovanni Battista, possa anch’io annunciare a tutti gli uomini, con la mia vita e con le parole, il grande dono dello Spirito da parte del messia Gesù.
7. Concludo con un Padre Nostro.

La stella che orienta il sapiente (Omelia per Epifania)

I magi hanno percorso migliaia di chilometri per arrivare dal messia, seguendo la loro stella. La loro strada, un faticoso saliscendi dalle pianure irachene alle alte montagne libanesi, assomiglia un po’ ai giri tortuosi del nostro cuore, che attraversando le regioni della gioia e della tristezza, fatica spesso a ritrovare l’orientamento della stella.
Sapienza umana come dono di Dio: davvero l’unica ancora di salvezza per ogni uomo, in una vita che corre spesso il pericolo di disperdersi, è ritrovare l’orientamento sapiente guardando il cielo, manifestazione della sapienza di Dio. Ci sarà pure, tra tutte le stelle che brillano lassù e che si muovono ruotando rapidamente nel corso delle ore notturne, una stella, magari a prima vista non la più luminosa, ma che rimane ferma?
Non è la luminosità, che anzi potrebbe trarre in inganno, ma la permanenza e la stabilità della stella polare a garantire l’orientamento del sapiente nel suo viaggio notturno.
Non sono le passioni che vanno e che vengono a dare orientamento alla vita di ogni uomo, ma gli ideali forti e grandi, alimentati al fuoco di un amore che non si spegne, fiamma che si autoalimenta, come una stella che abbia infinite riserve di idrogeno. Non le alternanze tumultuose del sentimento, ma la soave certezza di una volontà di Dio, ricercata nella profondità delicata degli affetti quotidiani, è la stella polare dell’uomo sapiente, che desidera la felicità.
La cura dell’amicizia, quella vera e profonda, quella fidata, che dura tutta la vita, è un’ideale forte, che nutre la nostra umanità e ci fa comprendere la spinta di generosità e fiducia che c’è in ogni uomo, senza eccezioni.
La curiosità e la passione per il lavoro, qualunque esso sia, costruisce stima e alimenta la fiducia, la collaborazione e il desiderio di spendersi per un’impresa comune. Non sempre si può pretendere di avere il lavoro per il quale ci sentiamo chiamati, anzi in tempi come questi dobbiamo ringraziare di poter avere un lavoro. Eppure qualsiasi lavoro può offrire la possibilità di farlo con passione, con amore, mettendoci dentro tutto noi stessi, senza limitarsi all’adempimento formale delle proprie mansioni. Un sorriso, uno scambio di battute umano, la ricerca di relazioni vere, la sincera disposizione a mettersi a servizio degli altri, possono essere esercitate in ogni lavoro e sono il modo concreto con cui noi siamo chiamati a servire l’uomo. Anche Solcenizy in Arcipelago Gulag racconta di aver dovuto costruire un muro inutile, costretto dai suoi carcerieri. Lui ha scelto di farlo non semplicemente per obbedienza, ma di farlo bene, perché ogni lavoro fatto bene è una dimostrazioni di umanità che vince l’odio e la stupidità.
Infine l’Amore non è il puro sentimento che oscilla. Alcune persone, non conoscendolo, non credono che esista. E invece esiste: è quel profondo sentire che spinge a scommettere la vita, anche se non sai cosa accadrà. È quella spinta segreta, debole e forte allo stesso tempo, che accetta la delusione, la sconfitta e la fatica, perché sa che l’altro è più importante delle mie aspettative su di lui o lei. Al termine del nostro percorso di sapienza, insieme con i magi, attraversata la tentazione del potere e del dominio sull’altro, che Erode rappresenta, ritroveremo la stella proprio li sopra la casa dove abita la Famiglia con il Bambino. La stella dell’Amore che sta dietro tutti i nostri amori, la stella dell’Umanità che soggiace ad ogni nostra legittima aspirazione, la stella dell’Amicizia, su cui si fonda ogni relazione affettuosa e profonda tra gli uomini. La stella polare è l’Amicizia tra Dio e l’uomo, sigillata in una carne d’uomo, in nome di un Amore più grande di tutti. La gioia dei Magi sarà allora la nostra gioia, quando potremo riconoscere che l’orientamento profondo della nostra vita, quello che alimenta tutto ciò che di buono e bello possiamo vivere, trova li il suo compimento, in questo amore di Dio rivelato in Gesù, colui che l’oro mostra come Dio e la mirra come uomo destinato a soffrire con noi e per noi. Sarà allora l’incenso della nostra offerta a completare la lista dei regali per questa così singolare Famiglia.

La Madre di Dio, Vangelo al femminile.

Maria è una donna feconda, non solo perché ha concepito un figlio nel suo grembo, ma anche perché questa parola di Dio si compie in lei passando attraverso il suo cuore di madre che ascolta, custodisce e medita. Ella ha ascoltato le parole dell’angelo e vi ha aderito con tutta se stessa, in piena obbedienza. Ella ha ascoltato le parole dei pastori e le ha custodite nella sua memoria con grande attenzione. Ella ha meditato, unendo tutte queste parole le une con le altre e leggendole alla luce della sua esperienza di madre, per comprendere sempre meglio la volontà di Dio nella sua vita e realizzarla.

Il percorso che Maria compie è quello di un parto, non solo fisico, ma anche spirituale, secondo la parola di Gesù, che afferma: “beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica”. Si tratta di un ascolto attivo di Dio, che mette in circolo esperienza, intelligenza per comprendere ciò che accade, riflessione per giudicare, e volontà per prendere le decisioni necessarie e alimentare nuove esperienze. Le esperienze interiori di rivelazione, caratterizzate da consolazione e gioia, unite agli avvenimenti esterni, riletti con intelligenza spirituale, consentono a Maria di giudicare ed attuare sempre meglio la volontà di Dio, diventando, sempre più spiritualmente feconda, come modello per il cammino di ogni credente.

La sua maternità fisica, unica fra tutte le donne, è il simbolo di una maternità spirituale che la accomuna ad ogni discepolo e particolarmente ad ogni donna, discepola di Gesù. In lei infatti la femminilità si compie, con quelle caratteristiche, come la capacità di accogliere e custodire, che segnano inequivocabilmente il ruolo particolare che la donna ha nella storia della salvezza. Se l’uomo vuole penetrare la realtà per trasformarla e costruirla a partire dai suoi progetti, la donna invece accoglie qualcosa che proviene da fuori di lei e lo custodisce.  Custodire significa non solo proteggere, ma anche  alimentare, far crescere, contribuire allo sviluppo di qualcosa che non proviene da se stessi, ma al quale si prestano carne e sangue perché esso possa fortificarsi e realizzarsi.

La donna infatti è per eccellenza espressione del dono di se e apertura all’altro da cui dipende. Nascosto eppure presente nella lunga evoluzione biologica il dono di se ha sempre più caratterizzato il genere femminile. Basti pensare alla gestazione, in cui il corpo della donna, aprendosi a ciò che è altro da se fa del suo proprio corpo una protezione calda e ospitale per un altro corpo. O all’allattamento, in cui la donna fa dono del suo proprio corpo perché l’altro possa nutrirsi e crescere.

Queste caratteristiche della femminilità sono essenziali, da un punto di vista culturale,  per il mondo e soprattutto per la Chiesa. In un contesto ancora fondamentalmente maschile, in cui la tecnica e la progettualità influenzano profondamente  la nostra identità, anche ecclesiale, abbiamo bisogno del femminile per essere capaci di accogliere l’altro, in un mondo diventato improvvisamente complesso e ricco di diversità che convivono in spazi ristretti. Abbiamo bisogno del femminile per essere più consapevoli della nostra dipendenza dalla natura e in ultima analisi da Dio, in un mondo che naufraga nei suoi sogni di una ipertecnologica trasformazione dell’essere umano. Abbiamo bisogno del femminile per creare spazi di custodia dell’umano, in cui crescano le relazioni strette della reciproca conoscenza e della familiarità profonda, a partire dai condomini e dalle aree autoorganizzate fino ai mondi alti della politica e del potere. Abbiamo bisogno del femminile nella Chiesa, perché essa passi da schemi rigidi e deduttivi per interpretare una realtà spesso magmatica, ad una sensibilità più duttile e capace di incontrare l’altro e di comprenderlo nei suoi sentimenti, contesti vitali e condizioni  “irregolari”.  Abbiamo bisogno del femminile, perché la Chiesa sia più Chiesa, ella che è la sposa di Cristo e la mamma di tutti noi credenti.

Abbiamo bisogno di riconoscere in Maria la madre di noi tutti e implorare da lei tutte le risorse del carisma femminile per una nuova evangelizzazione del mondo contemporaneo.

il “bar mitzvah” del Figlio di Dio (Omelia per la Sacra Famiglia Anno C)

Ancora oggi il popolo di Israele osserva la tradizionale festa del bar mitzwah, che tradotto significa figlio del precetto. In questa festa i ragazzini dell’età di 12 anni vengono introdotti dai loro padri alla recita della preghiera, denominata shemà Israel, “Ascolta Israele”, e da quel momento in poi iniziano ad osservare l’intera Torà o Legge.

Anche Gesù, da buon ebreo, è stato condotto al tempio di Gerusalemme per essere iniziato alla Legge da suo padre Giuseppe. Possiamo immaginare Giuseppe che insegna a Gesù a legare i filatteri, in modo che questi astucci che contengono i piccoli rotoli, simbolo di tutta la legge, siano allacciati alle mani e a contatto con la fronte e fissati nel braccio sinistro per essere rivolti verso il cuore. Infatti, come recita lo shemà “ i precetti che oggi ti do ti stiano fissi nel cuore. Li ripeterai ai tuoi figli… te li legherai alla mano come un segno, e ti saranno come un pendaglio in fronte tra gli occhi”.

Gesù ascolta e obbedisce a Giuseppe e impara a conoscere da questo babbo saggio e religioso  quel legame d’amore che il Dio di Israele aveva stabilito con il suo popolo. Gesù è stato iniziato alla preghiera da un padre umano; lui il Figlio di Dio, ha avuto bisogno di un volto adulto, ad un tempo buono e severo, per entrare – come uomo – in rapporto con il Padre suo. Eppure come Dio la sua preghiera di uomo rimane  un mistero grande. Il mistero di un bambino in cui la parola dello shema risuona al punto da sprofondare negli abissi della persona del Figlio, fino a coinvolgere tutta la natura umana in un abbandono radicale e perfetto.

Questo mistero traspare per un attimo nella preghiera di Gesù, ma poi tutto torna alla consueta routine delle feste. Si mangia, si ritorna alle carovane e si riparte tutti per Nazareth. Senonchè, ecco che Gesù non si trova più. Tra i cugini non c’è, le famiglie amiche e vicine non l’hanno visto… che sia rimasto a Gerusalemme? Possiamo immaginare il panico di Giuseppe e Maria e l’angosciata ricerca in città, in mezzo alla confusione dei pellegrini. Solo dopo tre giorni, lo ritrovano al tempio. “Perché ci hai fatto questo? Tuo padre ed io, angosciati, ti cercavamo.” Sono le parole di una mamma giustamente arrabbiata. “Perché mi cercavate, non sapevate che io devo occuparmi delle cose del padre mio?”

La risposta suona ruvida come uno schiaffo, non soltanto alla mamma angosciata, ma soprattutto al babbo. Gesù contrappone nettamente il Padre suo a Giuseppe, segno di una obbedienza radicalmente più alta di quella dovuta al padre di famiglia. Cosa deve aver pensato Giuseppe? Luca registra semplicemente che i genitori li per li non capirono, ma che Gesù rimase sottomesso a loro. Si è trattato di un momento rivelativo  che richiedeva la massima pazienza e attenzione da parte dei genitori, che dovevano abbandonare la pretesa, se mai l’avessero avanzata, di aver già capito tutto di lui.  Avvolto dal mistero di Dio, questo bambino aveva già rivelato in un momento il suo destino: occuparsi della volontà del Padre suo, di Dio, che lo porterà a essere perduto a Gerusalemme a causa della morte e poi ritrovato dai suoi dopo tre giorni grazie alla resurrezione.

In Gesù ragazzino il mistero della sua vocazione di Figlio di Dio è già in atto, perché Egli, nel suo essere uomo, è radicalmente il Figlio.  Per analogia in ciascuno di noi il mistero della nostra vocazione è già da sempre, dal momento del concepimento, in atto nella nostra vita. Se in Gesù ragazzino si mostrano i segni del suo essere Dio, attraverso alcune situazioni che chiedono di essere meditate come fa Maria, anche in ogni bambino e ragazzo Dio pone dei segni particolari che indicano la volontà di Dio fin da piccoli.

In ogni bambino è potenzialmente contenuta la sua vocazione da uomo e questo richiede ai genitori un’apertura particolare a Dio e degli occhi abituati a contemplare le cose con le lenti della fede e a meditarle con pazienza. Soprattutto è necessaria la disponibilità a comprendere che ogni figlio è un dono e mai un possesso dei genitori. Dare loro il meglio di ciò che si ha, in termini di beni, cultura e valori, è necessario; aiutarli a fare le esperienze più ricche e formative è importante; sperare per loro una vita bella, lunga, piena di affetti e di responsabilità portate fino in fondo è naturale.  Però a volte i figli sembrano deludere le  attese o sembrano imboccare percorsi che, anche se non vi è in essi nulla di male, vanno al di la delle aspettative. Altre volte i conflitti in famiglia e la rabbia dei ragazzi celano un’insoddisfazione, un bisogno di autenticità e di amore che sono l’indicazione di una progressiva rottura del cordone ombelicale. La sfida di un genitore si gioca non nelle piccole obbedienze che riesce a strappare, o nelle imposizioni mal sopportate da parte di un’autorità non più riconosciuta come tale, ma nella pazienza di meditare sui comportamenti dei figli per aiutarli a leggere e purificare i loro desideri, educando la loro libertà. L’autorevolezza di un genitore sta tutta qui, nella capacità di liberarsi dall’ansia che deriva dall’identificarsi nelle vittorie e nelle sconfitte dei propri figli, per guardare con fede e semplicità a ciò che Dio va costruendo in loro e divenire suoi collaboratori. I figli non potranno che obbedire a dei genitori che crescono insieme con loro nella libera adesione al progetto di Dio. Come Maria che meditava tutte queste cose nel suo cuore… e Gesù le rimaneva sottomesso.

 

Verbum caro – tweet di Dio (Omelia del giorno di Natale)

 

È notizia di ieri sera che è stato aperto su twitter un nuovo account, nominato @deus, di cui non si conoscono le generalità della fonte.  La cosa sconvolgente è che proprio questa notte ha emesso il suo primo tweet, e ha generato improvvisamente una catena incalcolabile di followers, probabilmente la totalità degli utenti. Lo riportiamo qui di seguito: “E la Parola si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”.  È letteralmente inspiegabile da parte degli esperti di twitter come con un solo tweet questo misterioso account sia riuscito a raggiungere tanti milioni di utenti.

Potenza di una Parola che ha concentrato in se stessa le tante parole che la precedevano, e le ha tutte riassunte in un’unica carne, in un’unica natura umana! Si, il Dio che si nascondeva dentro rotoli di molte parole, e che nessuno aveva mai potuto vedere, questa notte si è raccontato in un’unica parola fatta carne . E siccome questa carne è proprio la stessa di cui sono fatti gli uomini, il suo racconto non poteva che raggiungere la totalità delle persone.

Eppure gli esperti continuano a non capire. Nessuno può trasmettere un messaggio così potente senza avere molte piattaforme che lo riprendono e ne moltiplicano esponenzialmente i contatti. Quali sarebbero in questo caso?

“E il Verbo, la Parola, si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità.” Questo “noi” del vangelo di Giovanni, è il noi degli apostoli, coloro che hanno vissuto insieme alla Parola di vita, hanno mangiato, camminato, dormito, condiviso speranze e tristezze insieme con lui. Loro sono i testimoni che, trasformati radicalmente dal racconto di questa Parola, ne fanno a loro volta un racconto che trasforma la vita degli altri, il Vangelo appunto.

I testimoni sono le piattaforme che rilanciano e moltiplicano le potenzialità del messaggio, coloro che possono affermare, con l’Evangelista Giovanni:  “Dalla sua pienezza infatti abbiamo ricevuto grazia su grazia”. Questa Parola divina passa attraverso la vita di ciascuno di noi per arrivare a tutti. È una rete di relazioni che si diffonde per una potenza interna, una potenza di grazia che scaturisce da una pienezza e da una sovrabbondanza d’amore. Dio non ha tweettato perché si sentiva solo, ma perché il fuoco dell’amore sovrabbondante di questa misteriosa fonte non poteva che comunicarsi totalmente e senza riserve a coloro che aveva creato proprio con questo scopo.

Il vangelo è la potenza irradiante di una parola divina che non può non trasformare la nostra vita, è un fascio luminoso di energia divina che non può non illuminare il nostro cuore e rendere a sua volta la  nostra testimonianza come una interminabile sequenza di scie luminose, come stelle cadenti che bruciano in cielo per un breve tratto e in tutte le direzioni, illuminando le tenebre della notte. Queste piattaforme in grado di rilanciare il messaggio evangelico, illuminando la storia in tutte le direzioni siamo noi che lo abbiamo accolto e a cui “Egli ha dato potere di diventare figli di Dio: coloro che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati.”

 

 

Il Vangelo come Pinocchio, un racconto per il Bene Comune. (Omelia Notte di Natale)

 

 

L’arma del potere, oggi come una volta, è di contare. Censire persone, terreni e beni per le tasse sono strumenti da tempo conosciuti. Oggi si sono aggiunti le nuove forme di censimento come i sondaggi,  i nuovi oracoli del potere di oggi, che finiscono per condizionare anche le alleanze e i programmi politici. Infine i social network aggiungono un potere ancora più grande, perché sono in grado di fornire informazioni sulla persona, la sua storia, le sue esperienze, le sue amicizie e amori, i suoi gusti e hobby, i suoi divertimenti. Sono informazioni preziosissime che stanno ormai diventando l’oro dei nostri tempi, perché chi le possiede può orientare la pubblicità, fare indagini per inventare nuovi beni di consumo, e forse anche comprendere e modificare gli stili di vita delle persone.

Chi  può contare la totalità della informazioni personali, è tentato di possedere il futuro e anche di modificarlo: costoro sono i nuovi imperatori dei nostri tempi.

Anche Gesù si fa censire, ossia accetta di sottomettersi a questo potere umano facendosi contare come ogni altro uomo che nasce sulla faccia della terra e nello stesso tempo, così facendo, inserisce nel mondo i germi di un potere totalmente diverso.

Egli infatti compie nel mondo una promessa che nessun censimento potrà mai registrare, la promessa di una discendenza tanto numerosa che non si può contare, come i granellini di sabbia o le stelle del cielo. Come solo Dio può contare gli infiniti spazi dell’universo, costellati di galassie, così solo Dio può contare la discendenza di Abramo, quella promessa che si compie in Gesù, figlio di Dio fatto carne e in ogni uomo che in Lui è chiamato a diventare figlio di Dio.

Inoltre a differenza dell’imperatore umano, che può contare i suoi sudditi e dunque ragiona con i numeri senza interessarsi delle singole persone, il vero re è universale, perché non può contare le sue pecorelle e nello stesso tempo è il pastore che, a somiglianza di Davide, umile pastorello, si prodiga per strappare la pecorella smarrita dalla bocca dell’orso e del leone (1 Sam 17, 34 – 35). Questo pastore sa che i numeri sono sempre una tentazione perché trasmettono l’impressione di un controllo sulla realtà che all’uomo non è disponibile e allora sceglie di interessarsi di ciascuno, facendo arrivare non a tutti genericamente ma a ciascuno singolarmente il suo Vangelo.

E come pretende di arrivare a tutti e a ciascuno, più di qualsiasi potente, se non ha strumenti di potere? Egli infatti non conta, perché è solo un umile pastore, un piccolo bambino che viene fasciato e deposto in una mangiatoia perché non c’era posto in una stanza più grande e accogliente. Se non conta non ha neanche il potere di contare tutti gli indirizzi delle persone per avere il potere di trasmettere loro qualche informazione direttamente. Dunque come farà?

L’unico modo per far arrivare a ciascuno singolarmente il suo Vangelo non è contare, ma raccontare. Al conto del potere umano si oppone il racconto del divino Vangelo, che non ha bisogno di dominare le informazioni per arrivare a tutti, ma solo di testimoni in grado di ricevere e ritrasmettere il racconto, ciascuno con la sua vita.

Il racconto degli angeli, che indica il segno del salvatore nella città di Davide, Betlemme, in un bambino avvolto in fasce in una mangiatoia, indica una potenza di pace che è frutto dell’amore di Dio e che è il riflesso terreno della stessa gloria di Dio: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini che egli ama”.  Il racconto degli angeli diviene poi racconto dei pastori, testimoni diretti di questo segno. Essi prendono in carico il Vangelo per trasmetterlo a loro volta, e divengono partecipi di quella caratteristica “pastorale” del re divino, che è il desiderio di coinvolgere ognuno in questo racconto di pace e di speranza, senza che nessuno sia escluso.

Infatti i pastori che sono davanti al bambino adagiato nella mangiatoia, non si limitano a constatare il compimento di un segno, ma ne vengono nutriti. La mangiatoia è il simbolo di un racconto che nutre l’anima di una vita capace di irradiarsi interno a se.  Il vangelo passa attraverso la vita di ciascuno di noi per arrivare a tutti. È una rete di relazioni che si diffonde per una potenza interna, perché questo racconto nutre e da la vita e così raggiunge ciascuno nella concreta situazione in cui si trova.

Da questa potenza irradiante del Vangelo che raggiunge tutti e ciascuno ricaviamo almeno due conseguenze valide per la nostra vita.  La prima è che non possiamo sottrarci alla potenza della testimonianza cristiana, se veramente abbiamo Dio nel cuore e lo sentiamo presente. È una testimonianza spesso fondata più sui fatti e sulla vita che sulle parole, ma ciò non impedisce che qualcuno, stupito dal nostro modo di essere, ci chieda di rendere ragione della speranza che è in noi anche con le parole.

La seconda è che il vangelo implica un servizio a tutti e a ciascuno, e un modo specifico di intendere il bene comune come bene di tutti e di ciascuno.  Una generazione di politici ci ha abituati a pensare che le decisioni debbano essere prese a partire dai sondaggi di gradimento delle persone. Se dovessimo fare tutti così, gli insegnanti non insegnerebbero più, i genitori non educherebbero, gli imprenditori non avrebbero aziende, i sindaci non governerebbero più, e su tutto e su tutti vigerebbe la legge del più forte. Abbiamo bisogno di re-imparare il linguaggio del bene comune, che implica da un lato la condivisione dei sacrifici, dentro ad una fondamentale fiducia nel futuro, e dall’altro il rispetto per le cose che appartengono a tutti, dai banchi della parrocchia e i muri della scuola fino al Presidente della Repubblica. Il presidente della Repubblica infatti, come i muri della scuola e i banchi della parrocchia non sono di tutti e quindi di nessuno, ma sono di ciascuno e quindi di tutti.

Non saranno il gatto e la volpe, che invitano Pinocchio nell’inesistente Paese dei Balocchi, ad aiutarlo, ma il buon Geppetto, che gli indica una strada di sudore, onestà e speranza. Così i nostri padri e i nostri nonni sono usciti dai disastri della seconda guerra mondiale, così noi usciremo dal deserto della crisi economica che, anzitutto, è una crisi del bene comune.

 

Omelia IV Avvento C

Elisabetta, senza che Maria le comunichi nulla, appena udito il suo saluto, viene mossa dallo Spirito Santo a benedirla. In una classica benedizione ebraica si benedice prima la persona e poi Dio per quello che ha operato in essa. Invece qui Elisabetta  benedice Maria e il frutto del suo grembo, che dunque occupa la posizione stessa di Dio.

Per effetto dello Spirito Santo, che inaugura in tal modo i tempi del messia, facendo sussultare il precursore nel grembo di Elisabetta, ella riconosce operante in Maria il mistero di Dio stesso. Maria è addirittura definita come “la madre del mio Signore”, con un vocabolario che i cristiani adopereranno dopo la resurrezione di Gesù per indicare la sua identità divina.

Elisabetta, visitata da Maria, riconosce in lei la visita di Dio stesso, contemplando nel suo grembo il mistero di un Dio che si fa uomo. Chiediamo anche noi, come Elisabetta, di essere visitati dalla Madre di Dio in questo Natale, di poter contemplare nel silenzio del suo seno la misteriosa crescita di questo embrione, di questi grumi di celluline e di sangue, conformati dalla persona stessa del Figlio di Dio per la potenza dello Spirito Santo.

Possiamo contemplare questo mistero alla luce di alcuni Salmi, che si riferiscono al Messia, come ogni Scrittura sacra. Nella voce di un uomo che contempla con stupore il proprio corpo e la propria vita, e si riconosce formato da Dio stesso risuona la voce del messia, del Figlio di Dio, che ha assunto una natura umana proprio come noi.

4 “Ti lodo, perché mi hai fatto come un prodigio;
sono stupende le tue opere,
tu mi conosci fino in fondo.
15 Non ti erano nascoste le mie ossa
quando venivo formato nel segreto,
intessuto nelle profondità della terra.
16 Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi
e tutto era scritto nel tuo libro;
i miei giorni erano fissati,
quando ancora non ne esisteva uno.”

Allo stesso modo il Figlio di Dio si sta facendo corpo, carne e sangue, seguendo il percorso di ogni uomo qui su questa terra, nel caldo e accogliente grembo di una madre. Ancora un altro Salmo, che abbiamo ascoltato oggi nella liturgia, secondo la citazione della lettera agli Ebrei, si riferisce al messia che deve venire nel mondo per fare la volontà di Dio, e per questo ha bisogno di un corpo.

«Tu non hai voluto né sacrificio né offerta,
un corpo invece mi hai preparato.
Non hai gradito
né olocausti né sacrifici per il peccato.
Allora ho detto: “Ecco, io vengo
– poiché di me sta scritto nel rotolo del libro –
per fare, o Dio, la tua volontà”».

Il messia Gesù, il Figlio di Dio, è nato per portare a compimento la volontà del Padre, secondo la quale egli doveva assumere un corpo e una natura umana, per offrirla al Padre sulla croce. Mediante questa volontà, ci dice la lettera agli Ebrei, siamo stati santificati. Ma come si può assumere un corpo, se non  attraverso una donna? Questo mistero si è potuto compiere solo grazie all’ascolto di Maria e alla sua obbedienza. Solo attraverso di lei e attraverso la sua libertà, il Figlio di Dio ha potuto diventare uomo, prendere questa carne per portare a compimento la volontà del Padre.  Pensate che sia stato facile per Maria? Certamente no! Ha dovuto fidarsi dell’impossibile, affrontare l’incomprensione degli altri, mettersi in ricerca di quei segni che Dio le aveva suggerito. Il viaggio verso Ain Karem, dove stava la sua parente Elisabetta, circa 150 Km di montagne, era motivato da questa fretta, da questa trepidazione di Maria, che desiderava la conferma delle parole dell’angelo.

In questo modo Maria diviene un modello importante per noi, perché possiamo anche noi lasciare che la sua parola entri nella nostra vita e la trasformi, attraversando i dubbi e le sofferenze. Mettiamoci anche noi in viaggio come Maria per ricercare e trovare la conferma di quei segni che il Signore non ha mancato di mettere nel nostro cammino, per indicarci la sua volontà.

Due donne, riconoscendo reciprocamente l’opera di salvezza, condividono il mistero di una vita sorprendente e sovrabbondante che Dio dona, la potenza di una fecondità straordinaria con cui Dio ha agito in loro. Possiamo prendere esempio da loro, perché anche nella nostra comunità possa avvenire una comunicazione profonda della fede e una comunione e condivisione di doni che vince ogni tendenza all’egoismo e all’individualismo. Troppo spesso i pregiudizi e il parlar male alle spalle scoraggiano le persone a ricercare in parrocchia quella comunione e condivisione di cui tutti noi abbiamo bisogno. Troppo spesso il disinteresse noi confronti degli altri o il distacco dalle loro sofferenze e dalle loro situazioni personale, ci fa perdere di vista anche il dono prezioso che esse custodiscono per ciascuno di noi. Chiediamo al Signore di essere una comunità in cui, come nella casa di Elisabetta, possiamo accogliere Maria incinta, e in lei ciascuna persona con il suo passato di sofferenza e di salvezza, per poter condividere anche il dono di Gesù che essa ci porta.