Sintesi prof. Paganini Simone
“Il codice del dono” Omelia XXV TO Anno C
Un uomo ricco che ha un amministratore, quando perde fiducia in lui normalmente lo licenzia, non lo loda. Invece qui l’uomo ricco non solo non si arrabbia per aver perso una parte consistente del suo patrimonio, ma addirittura loda la scaltrezza dell’amministratore. C’è tanta ironia in questa parabola: Gesù ci vuole provocare, vuole dirci che per quest’uomo ricco, che è Dio, noi siamo peggio, molto peggio di un amministratore disonesto. Infatti ci siamo affezionati a tal punto alle nostre ricchezze, che in realtà appartengono a lui, da tenercele strette con gelosia, nel timore di perderle, fingendo in tal modo di servire Dio.
Invece quest’uomo ricco non è attaccato alla sua ricchezza e l’amministratore disonesto conosce fin troppo bene la sua magnanimità. Ha capito infatti che a quest’uomo la ricchezza serve soltanto per creare relazioni, per fare un dono che generi reciprocità, cioè che sia poi restituito in altra forma, secondo le possibilità di colui che riceve il dono. Nel dono è scritta anche la reciprocità, non nel senso che chi dona, dona per ricevere, ma nel senso che chi dona pone in movimento un principio d’amore che sarà in grado di fare crescere l’altro nella sua dignità e di metterlo nella condizione di restituire questo dono.
Dio è così. Quando ci ha creati ci ha fatto un dono, mettendoci nella condizione di restituirlo, con l’offerta della nostra vita. Quando ci ha redenti si è rivelato come colui che dona suo Figlio, perché il Figlio possa ridonare a lui se stesso e tutta l’umanità. Se ci avesse schiacciato con la sua superiorità impedendoci di rispondere al suo dono, non sarebbe stato Dio, perché l’essenza di Dio è comunicazione, amore, libertà che suscita l’altro e invita alla reciprocità. Dio è reciprocità, perché dona chiamando alla libertà e suscitando una libera risposta d’amore.
Dentro questa parabola c’è il mistero di Dio che si rivela in Cristo e il mistero dell’uomo, c’è tutta la nostra vita e la nostra società. Ogni ricchezza umana genera reciprocità perché è dono di Dio fatto per entrare in un circuito virtuoso di doni. La ricchezza economica, finanziaria e industriale, e tutto il capitale umano dei talenti, dei desideri, delle vocazioni di ogni persona viene liberato e moltiplicato da un Dio che dona ricchezza per suscitare relazioni.
Dobbiamo pregare e darci da fare perché la luce della fede risplenda ancora come una fiaccola in grado di liberare e rinnovare tutta la società dell’uomo, in una lotta, prima di tutto spirituale, contro quelle potenze che tengono per se la ricchezza, e che si annidano nascostamente anche nel cuore di ciascuno di noi.
Quando il potente trama per diminuire l’efa ed aumentare il siclo, come dice Amos, cioè per ribaltare alla radice il funzionamento della giustizia e della legge, noi cristiani dobbiamo indignarci, perché dietro questa trama c’è un progetto autoritario, che vuole asservire il povero, impedendo la crescita culturale e civile di un paese. Quando l’imprenditore aumenta le rendite del proprio capitale mettendole in paradisi fiscali, invece di investirle nell’innovazione e nel lavoro, noi cristiani dobbiamo indignarci, perché questo blocca la crescita e avvita ulteriormente la crisi di lavoro, soprattutto per i giovani. Se qualcuno di noi mette in soffitta i propri talenti e si chiude in un universo protetto e apparentemente appagato, noi cristiani dobbiamo correggerlo fraternamente, e dirgli che in questo modo priva il mondo di una parte necessaria di ricchezza, quella costituita dalla sua persona.
Dice San Paolo a Timoteo: “Figlio mio, raccomando, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio.” La dignità dell’uomo è resa possibile da una società in cui la ricchezza, materiale e spirituale, sia messa in circolo in modo che ciascuno possa intuire i suoi doni, la sua vocazione e avere la possibilità di compiere la sua umanità, donando ulteriore ricchezza. E se i giovani devono andare all’estero ormai per trovare lavoro e per realizzarsi? Anche noi, come san Paolo, siamo molto preoccupati e non smettiamo di pregare per chi ha più responsabilità, perché siano rimossi i vincoli che impediscono oggi a un giovane di crescere e mettere in circolo i suoi doni.
Omelia XXIV TO Anno C – il Padre che ama
Può davvero DIo pentirsi, come ci racconta la prima lettura, tratta dal libro dell’Esodo? Non è forse”troppo umano” il pentimento, dal momento che comporta un rinnegamento di azioni e pensieri precedenti? Eppure Dio ha dei sentimenti ed entrando nel gioco della libertà umana, questi sentimenti conoscono variazioni. Dio si arrabbia e la sua ira è una forma d’amore che sollecita la risposta dell’uomo. Dio si pente e il suo pentimento è un’altra forma d’amore che perdona l’uomo, grazie all’intercessione di Mosè. L’ira di Dio invita e richiama l’uomo alla conversione ma non pretende e non condiziona l’amore alla sua risposta .
Dio non pretende nulla, dona soltanto, e questo Mosè lo ha capito, perchè nella sua intercessione fa leva proprio sulla gratuità delle azioni di Dio in favore del suo popolo: << “Perché, Signore, si accenderà la tua ira contro il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto con grande forza e con mano potente? Ricòrdati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: “Renderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo, e tutta questa terra, di cui ho parlato, la darò ai tuoi discendenti e la possederanno per sempre”>>.Se Dio ha dato gratuitamente al popolo tutta l’eredità promessa ad Abramo, ossia la discendenza e la terra, allora può anche perdonarlo, cioè gettarsi dietro tutti i suoi peccati e rinnovare la sua alleanza con lui.
Il pentimento di Dio è così in perfetta coerenza con ciò che Dio è: colui che dona e perdona. Non è forse questa l’immagine che Gesù ha di Dio e che si dona in quella straordinaria parabola, che tradizionalmente intitoliamo il “figliol prodigo”, ma che più correttamente dovremmo intitolare il “padre che ama”?
Questo padre non aspetta che il figlio minore faccia la sua dichiarazione di umiltà, non gli permette di porsi nella posizione del servo, ma appena lo vede, si commuove, gli corre incontro, lo abbraccia e lo bacia. Non lo rimprovera, non gli chiede che cosa abbia fatto dei suoi soldi, non recita la parte dell’offeso, e nemmeno lo mette in punizione, facendolo vivere da servo, ma subito gli mette i calzari ai piedi e l’anello al dito, simbolo dell’uomo libero, che gode dell’eredità paterna.
è questo atteggiamento gratuito che il figlio maggiore non può capire, lui che ha sempre servito suo padre e non ha mai ricevuto in cambio un capretto per far festa con gli amici. Il problema del figlio maggiore è di essere tanto bravo da credere di meritare qualcosa da parte del padre. Egli pensa il suo rapporto col padre in termini di prestazioni e non d’amore. Pensa di valere nella misura in cui fa qualcosa come i servi e non semplicemente perchè è figlio. La risposta del padre è illuminante: “se non ti ho dato un capretto è perchè è sempre stato tuo!! Non avevi ancora capito che tutto ciò che è mio è anche tuo?” Far festa con il fratello diviene segno concreto e passaggio obbligato per riconoscere l’amore del padre.
Entrerà il fratello maggiore in quella casa a fare festa? La risposta è sospesa perchè ciascuno di noi è chiamato a darla al suo posto. Gesù vuole che ci identifichiamo col fratello maggiore e che ci chiediamo se noi saremmo in grado di entrare a far festa col fratello senza calcolarne i meriti, senza fare i confronti, senza sindacare sulla giustizia del padre.
Questo è il Padre che Gesù ci rivela, è uno che non calcola i nostri meriti, ma che ama in modo gratuito e sproporzionato… Paolo ci testimonia questa sovrabbondanza d’amore quando racconta la sua conversione: “Mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù.” In una società che coltiva il culto della prestazione, capace di perdonare solo chi vince e pronta a condannare chi perde senza possibilità di appello, il vangelo della sovrabbondante e gratuita manifestazione dell’amore del Padre suona come provocatorio e scandaloso. Preferiremmo un padre che ci fa i complimenti perchè siamo stati bravi, ma quello è solo un feticcio che ci portiamo dietro dall’educazione moralistica della nostra infanzia. Il Padre di Gesù, quello vero, non ci fa i complimenti e nemmeno ci condanna, semplicemente ci ama. E questo basta!
Omelia XXI TO Anno C
Gesù si sta incamminando verso Gerusalemme, li dove si compiono i giorni della sua vita terrena e con l’ascensione e il dono dello Spirito darà inizio ad una fase nuova del tempo e della storia, caratterizzata dalla presenza della comunità dei salvati, che annuncia il Vangelo fino ai confini della terra: la Chiesa.
Un adagio medievale recita: extra ecclesiam nulla salus, “fuori dalla chiesa non c’è salvezza”. C’è oggi chi, prendendo alla lettera questo adagio, ritiene che tutti coloro che senza loro colpa non hanno conosciuto la Chiesa e non vi sono entrati non possono essere salvati. Nel paradiso ci sarebbero davvero poche persone in rapporto a tutti gli uomini esistiti finora. Nel mondo siamo 7 miliardi oggi e i cattolici poco più di un miliardo. Senza contare poi tutti coloro che hanno vissuto prima di Cristo. Vogliamo a tal punto limitare la misericordia e la potenza di Dio che essa non potrebbe agire al di fuori dei confini visibili della Chiesa? Ma secondo questi integralisti cattolici affermare che ci si può salvare anche senza battesimo mette a rischio la natura missionaria della Chiesa e la stessa evangelizzazione. Perchè evangelizzare se sappiamo che le persone possono salvarsi lo stesso?
Gesù a coloro che ponevano la domanda: “sono pochi quelli che si salvano”, non ha risposto direttamente, ma li ha invitati ad entrare per la porta stretta. Il problema per Gesù non è di sapere quanti si salveranno, ma chi si salverà. E soprattutto io mi salverò? Gesù ribalta il ragionamento: non sei tu a dover fare il mestiere di Dio, ad aministrare la salvezza per gli altri uomini, come se tu fossi già a posto e come se dovessi dare agli altri qualcosa che hai già. Infatti, dice Gesù, non basta mangiare e bere con lui, ossia condividere la mensa eucaristica, non basta essere nel luogo pubblico ad ascoltare la sua parola, non basta partecipare agli eventi ecclesiastici. L’elezione, ossia il dono che Dio ci ha fatto di essere cristiani, non garantisce di per se stesso la salvezza.
A coloro si credono garantiti Gesù risponde con una frase davvero dura: “allontanatevi da me voi tutti operatori di iniquità”. Non basta essere chiamati a vivere la Chiesa, la comunità dei salvati, per godere della salvezza, bisogna anche compiere la giustizia. Quale tipo di giustizia? La giustizia di chi, consapevole del grande e immeritato dono della fede, traffica per condividerlo. La giustizia di chi, godendo della grazia di Dio, desidera che anche gli altri ne sperimentino l’immenso valore. La giustizia di chi, vivendo la gioia della speranza cristiana, coltiva dentro di se il desiderio che tanti ne siano animati.
Non una necessità ideologica, ma la sovrabbondanza dell’amore ci conduce ad evangelizzare! Non è la necessità della ragione, ma quella dell’amore che si innesca di cuore in cuore, come sapeva il poeta: “amor che a nullo amato amar perdona”. Il vangelo viene annunciato non per imposizione, ma per gratuita condivisione di una gioia che non può non comunicarsi a chi apre uno spiraglio nella profondità del proprio cuore.
Da oriente a occidente, da settentrione a mezzogiorno tutti i popoli del mondo siedono a mensa nel Regno di Dio: quella di Isaia è una visione universale, inclusiva, totalizzante. Tutti sono chiamati a condividere il banchetto eterno del Regno dei cieli, da primi o da ultimi, da dentro alla Chiesa o da fuori. Il problema è piuttosto di chi sta dentro: la nostra parrocchia è veramente una comunità di salvati che testimonia la gioia di essere cristiani? Oppure la nostra vita di fede è fatta prevalentemente di abitudine, di prassi ripetute ma non interiorizzate, di una religiosità fatta di riti, ma che non tocca il cuore della nostra esistenza e non ci rallegra la vita? Questa è la domanda che Gesù pone alla nostra parrocchia oggi, ed è una domanda da prendere sul serio.
La gioia sarà la cartina di tornasole del nostro ingresso nella porta stretta della salvezza.
L’amore inatteso (XX TO Anno C)
Nel film francese l’amore inatteso il protagonista, un avvocato in carriera, sposato con due figli, battezzato ma non più praticante, inizia a frequentare un gruppo di preghiera della Chiesa cattolica. All’inizio, per timore del giudizio altrui, tiene nascosta questa sua frequentazione perfino alla moglie. Ma quando lei arriva a sospettarlo di una relazione extraconiugale lui le racconta la verità. La cosa più interessante è che a questo punto la donna non solo non si tranquillizza, ma si inquieta e si turba maggiormente: ora suo marito sta vivendo qualcosa a cui lei non ha accesso e che la spaventa, qualcosa che ha il nome di fede, ma che nella sua mentalità si confonde col fanatismo e l’ideologia.
Questa sequenza del film è molto realistica e rappresenta proprio questa divisione che si opera all’interno di un rapporto di coppia armonioso. La fede in un primo momento divide e non unisce, perché riguarda un aspetto estremamente intimo della persona, difficilmente comunicabile e che implica un salto, un passaggio, un cambiamento spesso radicale, che suscita paura e che non sempre può essere accettato.
Se ciò può essere fino ad un certo punto comprensibile, ad attizzare il sentimento della paura e ogni tipo di angoscia ci pensa il male che, proprio dove il bene è maggiormente all’opera, cioè dentro al percorso di conversione e di riscoperta della fede della persona, cerca di suscitare ogni tipo di opposizione e da ogni versante, esterno e interno. È per questo che Gesù dice di aver portato divisione e non la pace. Non perché egli non dia la pace, ma proprio perché la sua pace fa paura e provoca spesso una reazione di rifiuto che divide. Il fuoco d’amore che Gesù ha portato, lo Spirito Santo, attraverso il battesimo di morte e resurrezione, inaugura l’epoca messianica dell’umanità, l’epoca cioè in cui quello stesso Spirito che riposava su Gesù nei giorni della sua vita umana, viene promesso ad ogni uomo e donato sacramentalmente a ogni battezzato perché egli agisca sulla base di tali impulsi d’amore.
Riscoprire la fede significa comprendere che il battesimo ricevuto da bambini si attualizza solo oggi, in un battesimo di spirito che consente di entrare realmente in un tempo nuovo. Nella vita di chi si converte tutto cambia, anche se le condizioni esteriori possono rimanere identiche, perché egli entra consapevolmente dentro una dimensione temporale della coscienza realmente nuova: è il tempo della vita spirituale.
Se per un attimo prescindiamo dalla pratica sacramentale, anche noi siamo come quell’avvocato francese del film l’amore inatteso, perché forse non abbiamo ancora inteso fino in fondo il richiamo della vita spirituale, forse il nostro battesimo non si è ancora manifestato come battesimo di Spirito! Il rischio per noi è ancora più grande che per quell’avvocato, perché rischiamo di illuderci di essere cristiani, ma in realtà prevale ancora in noi l’abitudine, la tradizione e un certo richiamo moralistico alle cose che si devono fare.
Come uscire da questo rischio? Il desiderio di annunciare la fede, di condividerla, di uscire allo scoperto in un dialogo aperto e franco con gli amici, i colleghi di lavoro, i parenti è la chiave di volta. Nell’atto stesso in cui io annuncio, riscopro la fede che annuncio. Il vangelo mi evangelizza e mi trasforma mentre viene comunicato, perché è esso stesso amore che si comunica, scintilla di gioia e di umanità che accade, evento che apre gli occhi di chi lo vive. Non importa se sono timido, non importa se temo il giudizio, non importa se mi imbarazzo nel parlare di cose così intime: la mia fede non può crescere se rimane chiusa nel cassetto, anzi muore.
Certo c’è anche chi rifiuta e attacca, chi si contrappone, chi tira fuori argomentazioni storiche o teologiche, chi si aggrappa ai “peccati” della Chiesa. Non a tutte le domande c’è risposta e d’altra parte non siamo chiamati a fare i “dottori”, ma a rendere ragione della nostra fede con dolcezza e rispetto. Questo stile caratterizza la vita di colui che non deve difendere più nulla, perché ha capito che Dio si difende da solo, con la potenza del Suo amore inatteso.
Omelia per l’assunzione di Maria
L’apocalisse sembra parlare il linguaggio misterioso della fine del mondo, in realtà i suoi simboli sono talmente potenti da attraversare tutta la storia dell’umanità. Da un lato troviamo la sagoma enorme e spaventosa del drago rosso, che rappresenta la forza del male in opera nella storia. Dall’altro troviamo una donna che vive nel dolore e nelle doglie del parto, vestita di sole, con una corona di dodici stelle e la luna sotto i suoi piedi. Questa donna è la Chiesa, che è avvolta dal sole dello Spirito Santo, della resurrezione di Gesù, e che ha una corona di dodici stelle che sono le dodici tribù di Israele e i dodici apostoli. La luna sotto i suoi piedi rappresenta il tempo su cui la Chiesa ormai regna sovrana, come realtà che gode del Regno inaugurato con la resurrezione di Gesù. Ma nello stesso tempo vive nella storia e dunque soffre le doglie del parto, il dolore della nascita dei figli di Dio. Il bambino che viene salvato dal tentativo omicida del drago è la discendenza dei figli di Dio, insieme con il Figlio per eccellenza, il Messia Gesù Cristo.
Questi simboli contrappongono in modo netto l’umile potenza di Dio, che si manifesta nella generazione e nella fecondità, con la superba potenza del male, che si manifesta in forme grottesche e mostruose. Alla fine la vittoria spetta all’umiltà di Dio, al mistero della fecondità, scritto già nella pagine della creazione del mondo, come parola che si compie e pienamente manifestatosi nella vita della Chiesa. Beata colei che ha creduto nel compimento della Parola del Signore afferma Elisabetta a Maria! La fecondità della Chiesa è anticipata dalla fecondità di Maria, non solo fisica, ma anche spirituale. Ella è madre non solo perché ha generato un figlio dal punto di vista biologico, ma anche perché ha creduto nella potenza della Parola di Dio nella sua vita. Anche la nostra vita può essere dunque caratterizzata da questa misura alta di fecondità. In famiglia, nella relazioni lavorative, nella comunione ecclesiale siamo fecondi nella misura in cui permettiamo alla parola di Dio di prendere possesso in noi, di modificare la nostra mentalità, di correggere i nostri atteggiamenti di giudizio nei confronti delle persone. Siamo fecondi se ci spogliamo dalle tentazioni di possesso, di invidia, di egoismo, di attaccamento a noi stessi, per aderire alla realtà e alle possibilità di bene e di amore che sono nascoste in essa.
Il Signore a volte ci nasconde quanto bene è presente nella realtà intorno a noi, perchè vuole che lo cerchiamo, che ci mettiamo in gioco, che usciamo da noi stessi per incontrare gli altri, e l’Altro in loro. Questo incontro è di per se fecondo!
Il vertice di questo percorso di fecondità è l’assunzione di Maria, come trasformazione e generazione al cielo. Da li Maria ci attira a Suo Figlio per la potenza dello Spirito Santo,e contribuisce a rigenerarci come figli di Dio. Proprio per questo suo ruolo particolare nella storia della salvezza possiamo davvero pregarla senza alcuna paura.
Spesso si sente dire che la preghiera mariana, in particolar modo il rosario, è inutile e ripetitivo. Ma quando devi dire ti voglio bene d una persona che ami, glielo dici una volta sola o glielo ripeti? La pazienza di ripetere è al cuore di ogni amore umano e anche in questa preghiera in cui ogni mistero è come avvolto dalla ruminazione dell’ ave maria, intessuta di frasi evangeliche. Maria ci conduce a Gesù, per le sue mani possiamo offrirci a lui ben consapevoli che il suo cuore di madre è solidale con le nostre sofferenze e fatiche e al contempo in profonda comunicazione con il cuore di Cristo, fonte dello Spirito.
Omelia XIX TO Anno C
Omelia XIX TO Anno C
Nel vangelo di oggi si parla di padroni e di schiavi, un modo antico di amministrare il potere. Oggi esistono forme nuove, come gli amministratori delegati, per consentire alle grandi famiglie di gestire il loro potere per mezzo di persone competenti. Al tempo dell’impero Romano se uno schiavo si era manifestato particoarmente bravo e solerte nell’aministrazione del patrimonio del padrone veniva riscattato e liberato: erano i cosiddetti liberti, che poi diventavano uomini molto potenti e influenti. Oggi gli amministratori delegati ricevono parcelle altissime quasi quanto i DJ, che in una serata possono prendere fino a 200.000 euro. Amministratori delegati e DJ sono alcuni tra i liberti del mondo di oggi, coloro che godono del favore delle multinazionali economiche.
In senso lato però tutti siamo amministratori delegati, semplicemente perchè gestiamo un potere, piccolo o grande, che non ci appartiene. I datori di lavoro lo esercitano verso i dipendenti, i capufficio verso i sottoposti, i genitori verso i figli, i professori verso gli studenti. Molti si trovano a loro agio nel gestire questo potere, vedi certi politici, altri invece sono più in difficoltà, come ad esempio i professori, ma tutti sono chiamati ad esercitarlo.
Perchè però questo potere non appartiene a loro dal momento che lo esercitano? Il segno e la prova più chiara che il potere è semplicemente delegato è il tempo. I figli crescono e diventano maggiorenni, gli studenti finiscono la scuola, i politici terminano il loro mandato elettorale ecc… il potere non possiamo amministrarlo per sempre e questo è il segno più chiaro che siamo tutti amministratori delegati, e che lo esercitiamo in attesa del ritorno del Padrone.
Un padrone che ci ha lasciato completamente liberi tanto da permetterci di gestirlo senza controllarci. Un padrone che quando ritorna passa a servire i propri schiavi e che proprio in questo modo ci fornisce il modello di ogni potere.
Questo modello è il servizio, umile, semplice, concreto, reale. La pazienza e la fermezza con i propri figli adolescenti che scalpitano è servizio; uno stile di ascolto che prima di giudicare un collega cerca di comprendere e se possibile riconciliarsi, questo è servizio. La ricerca del bene comune, combattendo ogni spreco di risorse pubbliche e testimoniando in prima persona il rispetto delle leggi: questo è servizio.
Il Padrone ci chiede oggi di avere i fianchi cinti e le lucerne accese, perchè è vicina la pasqua, in cui ciascuno è chiamato a condividere con gli altri l’agnello. Alla luce della pasqua il servizio è uno stile di sobrietà e comunione con gli altri. Quando il Padrone ci affida i suoi beni, in realtà ha in mente delle persone precise, che noi abbiamo il compito di nutrire, come se dipendessero da noi. Ed egli ci chiederà conto di esse.
Pensiamo in particolare agli anziani, ai bambini. Quante persone anziane sole in casa, che hanno bisogno del nostro aiuto, della nostra consolazione, della nostra semplice presenza per vivere un pò più serenamente. Quanti bambini trascurati dai genitori, non nelle cose materiali, ma in quell’ascolto, in quel gioco, in quella presenza che è l’anima di un affetto che fa crescere. Sempre più preoccupati dale cose e stressati dal lavoro che non c’è i genitori rischiano di non rendersi nemmeno conto veramente di essere genitori, di non stupirsi più di quel miracolo dell’amore di Dio che è una familgia che nasce.
Ognuno di noi ha almeno una persone, nella cerchia familiare o al di fuori, che ha bisogno e che forse il Signore gli sta affidando: pensiamoci, abbiamo l’opportunità di essere pronti all’arrivo di Dio, nella misura in cui vinciamo ogni dissipazione di tempo e di energie interne e impieghiamo noi stessi a donarci nel contesto preciso in cui il Signore ci ha posto per servirlo.
Pregare il Padre Omelia XVII TO ANNO C
C’era una volta un bruco che tentava di salire verso il cielo strisciando lungo una foglia di erba verde. Man mano che saliva verso l’alto il suo entusiasmo cresceva. Tuttavia, arrivato ormai verso la cima, la pianta improvvisamente cominciò ad accasciarsi sotto il suo peso ed egli si ritrovò gettato a terra, al punto di partenza. Ed egli pensò: “Me misero, dove pensavo di arrivare con questa pianta? Chi mi ha messo nel cuore il desiderio del cielo? Forse io sono fatto per continuare a strisciare sulla terra. Del cielo me ne frego!”.
La parabola del bruco è il percorso di ogni uomo che ha nel cuore il desiderio di Dio e tenta di arrivarci con la propria mente, ma poi si accorge che ritorna sempre sulla terra e quindi finisce per abbassare le sue speranze e optare per un agnosticismo pratico. Tanto si può vivere sereni lo stesso, anche senza Dio, l’importante è accontentarsi della terra!
In effetti arrivare a Dio con le nostre forze è al di là delle potenzialità umane. Ma Dio non vuole che noi abbassiamo l’asticella della nostra speranza e allora non ci ha lasciato soli, ma ci ha donato lo Spirito Santo. Si abbiamo bisogno dello Spirito Santo che attiri la nostra mente e la riempia della presenza di Dio, abbiamo bisogno di quell’amore donato da Dio che ci fa gridare papà, abbiamo bisogno di ricondurci al cuore di quella fonte, che è già dentro noi stessi ma che è al contempo radicalmente fuori di noi e altro da noi, perché è Dio: quella fonte che abbevera la nostra natura spirituale.
E come ritroviamo nella mappa complessa del nostro cuore le indicazioni stradali per arrivare alla fonte? Come i discepoli sono rimasti affascinati dalla preghiera di Gesù e quindi gli hanno chiesto di insegnar loro a pregare, anche noi, se vogliamo imparare, dobbiamo guardare a Gesù. Egli era già in contatto col Padre, perché era Figlio di Dio, ma come uomo ha avuto necessità di manifestare tale unione nella preghiera. Come un figlio si rivolge al padre, dandogli del tu o del voi? Anche Gesù nella sua umanità si rivolge al Padre da Figlio, dandogli del tu, con la massima confidenza, e insegna a noi a fare altrettanto, a fidarci della provvidenza del Padre, che è infinitamente più buono di ogni padre umano, di cui pure ci fidiamo.
Allora preghiamo come Lui, preghiamo in lui. Conversiamo con Dio Padre nello Spirito che Gesù Suo Figlio ci dona!
“Alle volte io prego ma Dio non mi esaudisce…”. Che cosa chiedi e come lo chiedi? Parti dal ringraziare il Signore per tutte le meraviglie che ha compiuto e poi chiedi con piena certezza i doni più grandi, più smisurati che Dio può e vuole concedere. Chiedi il dono della Vita, per stare con i tuoi cari per sempre, chiedi la prudenza per fare la Sua volontà, chiedi l’Amore per donarti generosamente agli altri, chiedi lo Spirito Santo che è la vita e l’amore di Dio dentro di te. In effetti cosa facciamo a messa, cosa è la preghiera liturgica? Nient’altro che pregare al Padre per mezzo del Figlio e chiedere il dono dello Spirito Santo che ci trasforma tutti in Lui, corpo di Cristo e tempio dello Spirito. Noi non ascoltiamo la messa, men che meno la prendiamo, noi partecipiamo e concelebriamo pregando con l’AMEN liturgico, che conferma nella fede tutti i doni che Dio ci ha fatto.
La preghiera liturgica ci insegna l’ardimento nel chiedere. Dobbiamo e possiamo chiedere grandi cose, con coraggio, questo piace a Dio, che non esita ad esaudire Abramo, per la sua insistita preghiera di intercessione. Chiediamo per gli altri, chiediamo senza paura grandi cose, anche per intercessione dei Santi, la Madonna e San Giuseppe per primi, il Signore non mancherà di esaudirci anche nelle piccole.
Omelia XVI TO Anno C
Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta. Queste parole di Gesù hanno fatto storia, e sono state utilizzate spesso nella Chiesa per stabilire una sorta di superiorità delle vocazioni alla vita consacrata rispetto alle vocazioni laicali -e forse anche oggi quando parliamo di vocazione pensiamo subito al prete, al monaco, al frate o alla suora.
Alla lunga questa applicazione ecclesiale della parola di Gesù ha finito per distorcerne il senso e ribaltare il significato del rimprovero di Gesù a Marta. Gesù non rimprovera Marta per il suo servizio, come se l’azione concreta sia meno dell’ascolto della parola. Gesù rimprovera Marta per la sua pretesa che anche Maria faccia come lei, pretesa che svaluta totalmente l’ascolto di Gesù. Ella vede una contrapposizione netta tra il pregare e il fare attribuendo all’ultima parte di questi binomi il suo favore. È una forma di orgoglio, di narcisismo dell’azione, che è incapace di fare unità tra contemplazione e azione, di vivere una vera spiritualità dell’agire.
Allora Gesù è provocato ad affermare che Maria ha scelto la parte migliore, non perché l’agire concreto sia inferiore all’ascoltare, ma perché l’agire, ogni agire, se non nasce da un ascolto profondo di Dio, se non è informato dal desiderio di servire Dio e di contemplarlo proprio dentro la proprio azione, alla fine non riceve l’eredità eterna, quella che non può essere tolta. La parte migliore non è altro che questo: l’eredità che ogni figlio riceve dal padre, quell’eredità che come figli riceviamo dal Padre, Dio, e che nessuno ci può togliere. Le opere sono segni transitori deposti nella storia di questa eredità che solo la fede, intesa come ascolto, può rendere eterna.
Gesù non intende stabilire una superiorità delle vocazioni religiose, anzi, vuole stigmatizzare ogni contrapposizione tra consacrazione e laicità, tra spiritualità e azione. È il senso profondo dell’incarnazione, che già risplende in quella splendida prefigurazione che è l’apparizione di Dio a Mambre ad Abramo. Per Abramo servire l’ospite e ascoltare la parola della promessa è un unico, inseparabile atto!
Anche noi siamo spesso tentati come Marta di contrapporre spiritualità e servizio. Quando ci sono tante impegni quotidiani, come trovo il tempo di pregare? La fretta, l’ansia, il desiderio di chiudere uno dei tanti files aperti , su cui stiamo lavorando contemporaneamente , ossia idee, progetti, scadenze, incombenze, imprevisti da risolvere ecc…ci portano a vivere la giornata nel perenne inseguimento di un obiettivo raggiunto. Ma quando e come ci godiamo tutto quello che stiamo vivendo? Come e quando contempliamo con gusto la nostra vita, con le cose belle, facendole risuonare dentro di noi per evitare che un nuovo evento, una nuova impressione sostituisca l’altra, senza più creare memoria, lasciare traccia? Ecco la preghiera, ecco quel respiro improvviso di Dio dentro di noi che ci ossigena lo spirito e ci fa vivere da figli e non da schiavi la nostra giornata… può essere un’ora, può essere una mezz’ora, possono essere dieci minuti, può essere una intercessione richiesta a Maria mentre sono in macchina, può essere un breve pensiero di ringraziamento, può essere una frase del vangelo che mi è rimasta impressa in memoria…anche questa è preghiera.
A questo punto possiamo chiederci: le nostre parrocchie sono scuole di ascolto, di preghiera, luoghi di ristoro spirituale dove posso stare ai piedi di Gesù oppure sono ambiti dove all’ansia delle cose da fare per la famiglia e il lavoro si aggiunge l’ansia ulteriore dei servizi pastorali? Qui non sto dicendo che non ci devono essere i servizi pastorali, perché torneremmo a fraintendere la parola di Gesù… Vi invito a chiederci, insieme, come esame di coscienza:
in parrocchia imparo il servizio, anche concreto, come prolungamento del mio desiderio di incontrare Dio, della mia testimonianza di fede ? La liturgia eucaristica è per me ascolto di Dio e nutrimento spirituale? Le altre devozioni, come la recita del rosario, mi portano a vivere l’affetto materno di Maria e ad affidarmi al suo cuore per poter conoscere e seguire sempre meglio suo figlio Gesù nella mia vita?
