Omelia XXVIII TO Anno C

Nella sua sobrietà il Vangelo non ci descrive il dialogo che deve essere intercorso tra  i dieci lebbrosi dopo aver ricevuto l’invito da parte di Gesù di presentarsi ai sacerdoti. Forse potranno essersi stupiti del fatto che Gesù non abbia compiuto alcun miracolo su di loro, nessun gesto, nessuna parola esplicita di guarigione e  li ha inviati ai sacerdoti perché questi ultimi, in accordo con la legge mosaica, dichiarassero la guarigione dei lebbrosi. Forse si saranno chiesti se e come il miracolo sarebbe realmente avvenuto… .

Sappiamo soltanto che essi hanno obbedito alla parola del maestro, indipendentemente da un eventuale segno di guarigione.  E obbedendo hanno implicitamente creduto alla potenza di vita che sarebbe scaturita da quella parola.  La guarigione fisica avverrà dopo, mentre essi erano in viaggio, in un momento e in un tempo imprecisato, generico e senza che essi possano immediatamente rendersene conto. È stata la loro fede, la loro obbedienza alla Parola di Gesù a rendere possibile la successiva guarigione.

Questo è “il funzionamento” della fede: è un dare credito alla Parola di Dio, obbedendo ad essa, anche senza segni espliciti che ne attestino la verità. I segni vengono dopo e ci confermano che la nostra obbedienza era giusta. Si la fede è un abbandono alla Parola di Dio, una parola che Dio ha pronunciato nella nostra vita e che la attraversa interamente con una forza che vince il male  e la morte. Ma se i lebbrosi avevano davanti Gesù e potevano ben identificare la parola cui obbedire, qual è la parola di Dio e come ascoltarla? La Parola di Dio è la nostra vita, letta alla luce della fede. La Parola è il Vangelo, la Scrittura, non inteso come libro o insieme di libri, ma molto più come una storia, un racconto. Precisamente quella storia e quel racconto che Dio sta facendo in me guarendo il  mio male e dandomi la vita.

Dovremmo immaginare che la domenica a messa, quando ascoltiamo le letture, la liturgia della Parola, tutta la nostra vita è li contenuta. Veniamo immersi in un mistero che è quello delle meraviglie della salvezza che Dio compie in noi ed esse si realizzano realmente, nella misura in cui entriamo dentro questo mistero, e abbiamo occhi per leggerle alla luce della Parola. Come i lebbrosi, anche noi vediamo la nostra guarigione solo dopo… solo dopo esserci fidati e abbandonati a questa parola che ogni domenica entra nella nostra vita.

Infine, di questi dieci lebbrosi, solo uno ritorna, per giunta un samaritano, uno straniero, a lodare Dio e a ringraziare Gesù. Egli si prostra dinanzi a Gesù con un gesto di adorazione  riservato solo a Dio, e lodando Dio ringrazia gesù. Lodare Dio e ringraziare Gesù sono un solo atto di preghiera del samaritano, che in questo modo riconosce che in Gesù opera la stessa potenza di Dio. Entrare nella lode, ringraziare Gesù per le grandi cose che compie nella nostra vita: questo rende definitivamente possibile la salvezza.

Infatti se i dieci lebbrosi erano stati guariti fisicamente, solo il lebbroso samaritano verrà anche salvato spiritualmente. Non basta credere e essere aperti alla salvezza che Dio vuole compiere nella nostra vita. Bisogna anche lodare Gesù, ringraziarlo, per questa amore che ci ha aperto il cuore e ci ha trasformato la vita.  Significa coltivare un cuore grande, magnanimo, capace di apprezzare Dio e di lodarlo per ciò che compie. La preghiera di supplica non è sufficiente. Solo supplica e lode ci fanno sperimentare realmente la salvezza di Dio.

Non a caso, solo dopo che il smaritano ha ringraziato, Gesù può dire: “va in pace, la tua fede ti ha salvato!”.

 

 

 

Esercizio per giovedì 17

 

Ricordo che per la prossima volta è richiesta una lettura attenta delle liturgia della Parola di domenica 13 ottobre, alla luce della seguente domanda. Quale rapporto c’è tra la prima lettura e il vangelo? Tale rapporto si può configurare in termini tipologici? Se si, prova ad argomentare.

Potete trovare le letture al seguente link:

 

http://www.lachiesa.it/calendario/Detailed/20131013.shtml

La Bibbia come Antico e Nuovo Testamento

 

Quale rapporto possiamo pensare tra AT e NT. Il punto di partenza della nostra riflessione vuole essere Rm 11, 29: l’ alleanza di Dio con Israele non è mai stata annullata, perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili. Questo sarà il punto di riferimento e il filo conduttore che ci guiderà nel riflettere sull’AT in rapporto con Cristo e col NT, evitando il rischio di considerarlo come qualcosa di sorpassato! Una teologia di questo tipo è erronea e non fondata né sulla Scrittura né sulla tradizione dei padri e della Chiesa. Infatti non vi è alcun documento della Chiesa che dica che l’AT è superato e non serve più. Questo contraddirebbe il fatto che lo consideriamo ispirato e ispirante per la vita della Chiesa e che fa parte del canone. Sarebbe sbagliato anche ritenere che l’AT sia importante solo nella misura in cui è citato dal NT e serve a chiarire il NT. Uno comprensione di questo tipo, ossia di carattere meramente funzionale, contraddice  la natura stessa dell’ispirazione, che comporta una piena collaborazione dell’uomo all’opera dello Spirito Santo, il quale non può essere considerato mero strumento in funzione di qualcosa d’altro. Detto in altri termini, c’è una pienezza di umanità nell’AT, attraverso la quale passa il soffio dello Spirito, che va considerata nella sua autonomia, per poter apprezzare fino in fondo il mistero del compimento cristologico delle Scritture, come mistero della libertà di Dio e dell’uomo insieme ( cfr. l’uomo sofferente del Salmo 22 rappresenta un uomo in carne e ossa, o ancor meglio, l’esperienza di un popolo in carne e ossa. Solo passando attraverso questo  spessore di umanità, questa “figura” reale, si può poi arrivare a capire come questo Salmo si compie nel mistero del Cristo morto in croce e risorto).

Allora, per essere più precisi, quali modelli sono stati costruiti nella storia per pensare il rapporto tra AT e NT?

1) Modello di sostituzione: il NT sostituisce l’AT. Questo modello Il popolo di Dio è la Chiesa, Israele è stato rigettato ( cfr. Mt 8, 11 – 12 ). Questo modello si coglie qua e la nell’interpretazione di qualche padre della Chiesa, come ad esempio l’apologista Giustino nel suo dialogo con Trifone ( tra 155 e 160 d.C. ).  Ma sarà Marcione a farne il cuore della sua impostazione esegetica e teologica, di fatto espellendo tutto l’AT e gran parte del NT dal canone scritturistico. In epoca moderna e contemporanea posizioni simili sono state assunte da Schleiermacher e da von Harnack.

Lo scritto neotestamentario che più da vicino sembra appoggiare questo modello è Eb 10, 1 – 18. In particolare  10, 18 sembra abolire l’alleanza precedente, perché con il sacrificio di Cristo non vi è più bisogno dei sacrifici levitici. Cristo è infatti il sommo sacerdote che con la sua morte sacrificale ha riconciliato una volta per tutte gli uomini con Dio, mentre il culto sacrificale antico aveva bisogno di molti riti senza poter compiere ciò che Cristo ha compiuto. Tuttavia l’autore non dice mai che l’alleanza sinaitica come tale è stata abolita. Il richiamo alla nuova alleanza di Geremia 31, 33 – 34 mostra che l’autore pensa alla nuova alleanza non come fine dell’alleanza sinaitica, ma come compimento di essa, nella discontinuità rispetto al sacerdozio levitico del tempio ( traendo ispirazione della linea profetico/sacerdotale, attestata in Geremia e anche in Ezechiele). Non si può dunque servirsi di Eb 10, 18 per appoggiare una teologia della sostituzione.

Modello di preparazione: (cfr. DV 15). In questo modello l’AT è visto come una preparazione e annunzio profetico di Gesù Cristo. Esso è visto come un repertorio di figure ( tempio, agnello pasquale, Mosè, servo sofferente, profeta, re, sacerdote, pastore ) che il NT applica a Cristo come compimento. Tuttavia il rischio di questo modello è, come abbiamo già anticipato, di considerare l’AT come meramente funzionale al NT, e di fatto, abolito da quest’ultimo, perché serve solo a comprendere il NT. Esso invece ha un suo spessore storico, come storia di rivelazione che ha un valore perenne (cfr. Rm 11, 29).

Uno scritto neotestamentario può essere interpretato in questo senso, ossia Gal 4, 21 – 30.

 

vv. 21 – 23: Paolo presenta i due figli, Ismaele e Isacco, collegati rispettivamente alla schiava e alla libera come figlio della carne e figlio della promessa.

vv. 24 – 28: Paolo introduce l’allegoria, una donna, Agar, la schiava, rappresenta l’alleanza del monte Sinai ed è la Gerusalemme terrena. L’altra è invece la Gerusalemme di lassù ed è libera ed è la madre. Al v. 28 si conclude con un identificazione diretta degli interlocutori con i figli della madre libera / Gerusalemme celeste, come Isacco.

vv. 29 – 30: ora l’allegoria si applica ai due figli, ossia anche a quello della schiava, che viene interpretato come il giudeo che rimane sotto il giogo della legge, e in particolare il giudeocristiano che costituisce l’avversario diretto di Paolo nella lettera.

L’ asse monte Sinai – Gerusalemme terrena è una sintesi di tutta la storia della salvezza veterotestamentaria vista come preparazione. Si riassume tutta la storia del popolo di Dio dal cammino nel deserto, passando attraverso il dono della legge sul monte Sinai, fino alla piena stabilità con l’instaurazione della monarchia davidica in Sion e la costruzione del tempio.  Questo asse è completato da quello tra Gerusalemme terrena e Gerusalemme celeste. Nel giudaismo tardivo la riflessione sulla storia di Gerusalemme, ricca di delusioni distruzioni e ricostruzioni, porta a non identificare più il compimento nella città terrena, ma con una Gerusalemme di lassù.

Tuttavia il fatto che Paolo contrapponga Gerusalemme terrena e Gerusalemme celeste non implica che queste due realtà siano totalmente separate. Infatti la Gerusalemme celeste è il compimento di quella terrena e ne svela l’identità storica, ossia essere il segno di una liberazione in Cristo.

In questo modo Paolo non contrappone la legge / Sinai alla fede in Cristo (cfr. 3, 21). Piuttosto intende mostrare la radicale incompatibilità tra due atteggiamenti di fronte alla legge e ultimamente davanti a Dio. Ossia l’atteggiamento di chi fa della Legge una barriera che impedisce di cogliere la libertà di coloro che aderiscono a Cristo e sono figli della Gerusalemme celeste, e l’atteggiamento di chi come Paolo ritiene che Cristo abbia rivelato il vero senso della Torah. Agar, Sinai e Gerusalemme terrena non sono affatto abolite ma sono una preparazione, che trova una piena liberazione nella Sion / Gerusalemme celeste. Dietro la formulazione allegorica c’è in realtà una vera e propria concezione tipologica di Paolo ( cfr. scheda su rapporto tra allegoria e tipologia) , la quale non svuota la storia ma la concentra e la porta a compimento.

Quindi in Paolo il rischio insito nel modello di preparazione è in realtà evitato.

 

Modello promessa – compimento:  l’AT in questo modello può essere compreso come una promessa che viene compiuta dal NT. Girolamo, ad esempio, vede nel Vangelo il compimento della promessa di Ger 31, 31 – 34.  Hartmut Gese, ordinario di AT a Tubingen, nel 1970 afferma che il NT è il compimento del telos (finalismo) che attraversa il dinamismo anticotestamentario, permettendo di comprenderlo nella sua propria natura. Anche Agostino ha una felice affermazione di questo tipo quando sintetizza: “ Il NT è nascosto nell’AT e l’AT diventa chiaro nel NT” ( cfr. Queast. In Hept., 2, 73; citato da DV 16). Tuttavia questo modello può essere “banalizzato”, quando si pensa il compimento come un completamento, come se dall’AT al NT ci sia un semplice passaggio dal meno al più, in cui il più contiene tutto il meno e lo rende perciò superfluo. In realtà il compimento del NT non rende superflua la promessa dell’AT, perché questa promessa è ancora valida e da compiersi definitivamente alla fine della storia, quando anche il compimento del mistero di Cristo nel NT sarà pienamente realizzato con il suo ritorno (cfr. Il popolo ebraico e le sue sacre Scritture nella Bibbia cristiana. Documento della Pontificia Commissione Biblica n 21 ultimo capoverso.)

Vediamo più nel dettaglio.

Ger 31, 31 – 34

Schema: annuncio v. 31

Descrizione dell’alleanza nuova:

a. in termini negativi ( v. 32 )

b. in termini positivi ( vv. 33 – 34 )

Alleanza: tyrB berit, il termine di per se non indica un patto bilaterale, ma la promessa di uno dei contraenti nei confronti dell’altro ( cfr. Gen 15, 18 ), che dunque assume un obbligo. Nel brano di Geremia in esame questo significato è molto chiaro, Dio si impegna nei confronti del suo popolo senza chiedergli alcuna contropartita.

Questa alleanza è detta nuova ( cfr. Dt 30, 1 – 14; Ger 24, 6 – 7; Ez 11, 17 – 20; 36, 26 dove si parla di cuore nuovo ). Si confronti anche Es 34, 10 dove si trova il rinnovamento dell’alleanza sinaitica, dopo il peccato del vitello d’oro.  Qui l’alleanza avviene subito dopo l’infrazione e le leggi sono riscritte. Fin dall’inizio dunque al centro non è l’agire dell’uomo, ma la promessa di Dio che si rinnova senza revocare quella precedente.

Quindi alleanza nuova può indicare non la sostituzione di un’alleanza con un’altra ma il rinnovamento della stessa alleanza su basi più solide, che rendano possibile anche la fedeltà dell’uomo. Qui la pietra è sostituita dal cuore, nel senso che la legge di Dio è scritta all’interno della volontà e dell’intelligenza dell’uomo perché egli cooperi con il volere di Dio.  In questo senso il Signore circonciderà il cuore dell’uomo ( cfr. Dt 30, 6 ), perché egli possa amare Dio con tutto il cuore ( cfr. Dt 6, 6 ). Qui tutti lo conosceranno dal più piccolo al più grande e non ci sarà più bisogno di mediatori, dal momento che il rapporto tra Dio e il suo popolo avviene direttamente nel cuore di ogni uomo.

Dove si compie questa promessa di una nuova alleanza?  Nel NT  troviamo quattro racconti dell’istituzione dell’eucarestia ( Mc 14, 22 – 25; Mt 26, 26 – 29; Lc 22, 15 – 20; 1 Cor 11, 23 – 26 ). Lc e Paolo fanno riferimento alla nuova alleanza di Ger 31. In questo contesto la passione e morte di Gesù in Croce è vista non come il fallimento definitivo dell’uomo rifiutato da Dio e dagli uomini ma viene reinterpretata alla luce del dono che Gesù fa di se nel suo corpo e nel suo sangue, come una nuova alleanza, che comporta perdono e riconciliazione, fedeltà da parte dell’uomo e il dono di una nuova intimità tra Dio e gli uomini.

Tuttavia questo compimento della promessa deve ancora ottenere la sua ultima realizzazione nel banchetto eterno (cfr. loghion sul banchetto escatologico Mc 14, 25; Lc 22, 18).  Il compimento della nuova alleanza di Geremia non può essere visto semplicisticamente come già avvenuto nel NT, ma come un dinamismo che si compirà solo alla fine dei tempi.

Modello della simultaneità o  dialogico:  Si parte dall’analisi di Rm 9 – 11, da cui abbiamo iniziato la nostra argomentazione. Il ragionamento di Paolo nasce dalla necessità di comprendere come mai è avvenuto il rifiuto di una parte di Israele. Forse la parola di Dio è venuta meno?

Prima argomentazione 9, 6 – 29: la parola di Dio non è venuta meno perché non tutti i discendenti di Giacobbe sono Israele. Egli è libero di chiamare chi vuole, così come chiama il figlio minore ( Giacobbe ) al posto del maggiore (Esaù).

Seconda argomentazione 9, 30 – 10, 21:  la giustizia richiesta dalla legge ha raggiunto il suo scopo in Cristo. Una parte di Israele non ha raggiunto la giustizia perché l’ha cercata non per mezzo della fede in Cristo ma per mezzo delle opere della Legge.

Terza argomentazione 11, 1 – 32: Dio ha allora forse ripudiato il suo popolo?  No, ma l’indurimento di una parte di Israele ha la funzione di far entrare i pagani.  Tuttavia la piena realizzazione della promessa di Dio si avrà quando anche tutto Israele sarà salvato (cfr. v. 26).

 

La relazione tra Israele e le nazioni non è semplicemente binaria ma ternaria.  Infatti l’olivo e l’olivastro non sono semplicemente uno dopo l’altro, ma uno nell’altro, e ciò che li tiene insieme è la promessa con il suo compimento, Cristo. Tra Israele e i pagani instaura una competizione che Paolo considera positiva alla luce del progetto di Dio: infatti la gelosia di Israele è per la sua salvezza ( cfr. 11, 11) e mostra la transizione da un desiderio conflittuale, che spinge al conflitto con le nazioni e alla reciproca sostituzione, ad un desiderio positivo per il quale Israele e le nazioni non possono possedere il loro oggetto, la salvezza, se non insieme. E questo avverrà definitivamente solo alla fine della storia.

L’uno e l’altro testamento non sono in una posizione di rivalità, essi non posseggono il loro oggetto, che è Cristo, se non insieme. Questo significa che il compimento dell’AT è nel NT, solo nel senso che entrambi si compiono simultaneamente in Cristo, colui che viene a noi al termine della storia.

 

 

Lectio divina XXVIII TO Anno C – La lode del samaritano

 

Preghiera su Lc 17, 11 – 19 – XXVIII T.O. Anno C: “La lode del samaritano”

Gesù sta camminando verso Gerusalemme, dove sarà innalzato al cielo, al Padre, compimento definitivo della sua missione terrena (cfr. 9, 51).  Ecco che entrando in un villaggio gli vengono incontro tre lebbrosi, che rimangono a distanza, secondo l’obbligo imposto dalla legge mosaica (cfr. Lv 13, 45s ).  Il loro grido è una supplica rivolta al maestro, di cui riconoscono la parola autorevole come se ne fossero discepoli (cfr. 8, 24).

Infatti essi si fidano della sua parola al punto da obbedirgli ed andare a farsi vedere dal sacerdote, che secondo la legge avrebbe dovuto constatarne la guarigione, senza ancora essere effettivamente guariti (v. 14). Solo durante il viaggio essi si accorgono di essere purificati dal male. Gesù non compie riti complicati, né accentra su di se e sui suoi gesti l’attenzione dei lebbrosi: chiede semplicemente a loro di avere fede nella sua parola. Come il profeta Eliseo aveva mandato il funzionario siriano Naaman, lebbroso, a bagnarsi nel Giordano, ed egli si era fidato della sua parola ed era stato guarito (cfr. 2 Re 5, 10. 14), così  è la fede dei lebbrosi nella parola profetica di Gesù a guarirli.

A questo punto si verifica una svolta nel racconto: uno dei lebbrosi, vedendosi guarito, ritiene non più prioritario andare dal sacerdote: ora l’urgenza vera è ringraziare Gesù.  Il modo con cui Luca descrive le sue azioni è centrale. Mentre egli ritorna a gran voce loda Dio  (v. 15) e cadendo ai piedi di Gesù – con un gesto di prostrazione che è riservato solo a Dio – egli ringrazia Gesù (v. 16).  Qui lodare Dio e ringraziare Gesù sono un unico atto! Se Eliseo aveva rifiutato i regali di Naaman, per non essere identificato con Dio (cfr. 2 Re 5, 16), Gesù non rifiuta, anzi approva la lode del lebbroso. Gesù è più che un profeta, in lui si compiono pienamente i segni di salvezza posti da Mosè e dai profeti nella storia del popolo di Israele: Lui è il compimento della legge e dei profeti, di tutto l’Antico Testamento, e un samaritano (uno straniero per gli ebrei osservanti!) lo ha compreso (v. 18).

Il mancato ritorno dei nove lebbrosi anticipa il rifiuto che il popolo di Israele opporrà a Gesù a Gerusalemme, mentre la fede del samaritano rappresenta tutti i popoli pagani, aperti alla salvezza.

 

 

 

 

 

Suggerimenti per la preghiera

1. Mi dispongo davanti a Dio in preghiera. Sto in ginocchio o seduto, per entrare in colloquio con il Signore, o meditare su ciò che leggo, a seconda di ciò che voglio.

2. Leggo con attenzione il brano di Vangelo.

3. Chiedo al Signore di poterlo conoscere interiormente come maestro divino, per amarlo e seguirlo sempre più.

4. Vedo le persone che agiscono, osservo come si comportano e si relazionano. Rifletto sull’atteggiamento di fede dei dieci lebbrosi nella parola di Gesù. Essi non hanno bisogno di grandi segni nella loro vita, semplicemente si fidano. Ho anch’io la stessa fiducia quanto all’agire di Dio nella mia vita?

5. Medito su cosa dicono i personaggi.  Il samaritano non si limita a supplicare Gesù ma lo ringrazia Gesù, lodando Dio. La supplica da sola non è sufficiente: solo supplica e lode insieme ci fanno entrare nel mistero della salvezza, nel compimento di tutte le promesse di Dio. Entro nella lode di Dio, per ciò che egli compie nella mia vita.

6. Sento le parole di Gesù, che mi dice: “Va la tua fede ti ha salvato”. Entro in colloquio con Gesù.

7. Concludo con un Padre Nostro.

Scrivo una lode di Dio, per ciò che sta realizzando nella mia vita: ……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………….

Omelia XXVII TO Anno C

Un albero è simbolo in tutte le culture di ciò che unisce la terra al cielo. Le sue radici vanno in profondità nel terreno, per fondarne la struttura aerea. Il tronco eleva in alto la chioma che, all’occhio umano finisce per confondersi con il blu del cielo. In Israele erano famosi i cedri del libano, alberi caratterizzati da un’altezza spaventosa, anche 40 e 60 metri, e da una chioma fortemente ramificata. In questi alberi molte varietà di uccelli, perfino le cicogne nella loro migrazione, facevano il nido e il loro legno veniva usato per le grandi costruzioni, come le navi o il tempio di Gerusalemme.

L’albero nella Bibbia viene così a rappresentare la grandezza del potere umano che interpreta la volontà divina e la applica sulla terra e che dà protezione a molti popoli e a molti alleati (gli uccelli). Tuttavia questo potere è sempre in pericolo di trasformarsi in un esercizio dispotico e autoreferenziale dell’autorità, per fare di se e non di Dio il cuore e la fonte della vita e dell’ordine sociale (cfr. Ez 31).

Quando Gesù afferma che basta una fede grande come un granellino di senapa per sradicare l’albero del potere arbitrario e violento, fondato sull’orgoglio dell’uomo, usa un’immagine paradossale, perché il granellino di senapa è quasi invisibile all’occhio dell’uomo. Eppure questo granellino, che è la fede, è più potente di forze apparentemente invincibili come quelle che derivano dall’orgoglio umano.

Quanto spesso la nostra vita è inutilmente tormentata dall’orgoglio, e da tutti quei sentimenti e atteggiamenti che ne costituiscono l’inevitabile corollario: risentimento, ira, spirito di vendetta, vittimismo, odio… Con i vicini di casa siamo in lite da anni e non riusciamo più a parlarci; con i parenti, perfino con i fratelli, ci sono antiche ruggini dovute all’eredità, che ancora appesantiscono l’anima e l’atmosfera; con gli amici ci offendiamo perché pensiamo di non essere sufficentemente contraccambiati. ecc. Sono pochi e semplici esempi di quanto l’orgoglio ci separa e ci allontana dagli altri e, a volte, purtroppo, da Dio. Quante volte è accaduto che un cammino di fede è stato interrotto per una battuta fuori posto, o per un rimprovero sentito come ingiusto da parte dell’educatore o del parroco o di un collaboratore! Arriviamo a privarci di Dio, pur di alimentare la cisterna screpolata del risentimento, che mai potrà essere riempita. E se osserviamo la potenza distruttiva di questi sentimenti su scala sociale, ne constatiamo i perversi effetti su tutti e su ciascuno: conflitti permanenti tra le istituzioni che devono rappresentare l’unità di tutti i cittadini, fazioni politiche che arrivano fino all’odio dell’avversario, sfiducia e disincanto da parte dei cittadini verso la cosa pubblica e verso il futuro. Così un intero paese può essere avvolto da una spirale che solo disgrazie terribili e decenni di cure civili e sociali possono pian piano far ruotare nella direzione opposta.

“Se aveste fede quanto un granellino di senapa, potreste dire a questo gelso, sii sradicato e trapiantato nel mare ed esso vi ascolterebbe”. Il Signore ci dice che basta la fede piccola, invisibile come un granellino di senapa per sradicare l’albero dell’orgoglio dal nostro cuore e trapiantarlo nel mare che è simbolo del male e della morte, ossia per gettarlo la dove non darà più fastidio. È la fede che ci porta a sentire la presenza dell’amore di Dio e ci porta a vincere la spirale dell’odio umanamente -impossibile da frenare- che scaturisce dall’aver subito ingiustizie gratuite e la violenze insensate: si può arrivare a  pregare per i persecutori, come facevano i martiri cristiani davanti ai giudici pagani che li condannavano a morte.  È la fede che ci porta a considerarci servi umili e inutili, o meglio non necessari, nel senso che l’onnipotenza di Dio non ha bisogno di noi per realizzare ciò che vuole,  il Regno di Dio. Questo è davvero liberante e rasserenante! In una cultura meritocratica, dove si vale in funzione dei successi personali, siamo tentati di applicare a Dio il medesimo principio, per cui noi valiamo di fronte a lui nella misura in cui siamo in grado di costruire eventi, strutture, realtà che organizzino la Chiesa e il Regno di Dio. Non prendiamoci così sul serio- ci dice il Signore- il futuro della Chiesa e del Regno di Dio dipende solo da Lui! Noi siamo servi inutili, ossia non necessari al fine che Dio compie. E tuttavia a noi è dato uno spirito non di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza, per portare avanti ciò che il Signore ci chiede.

Quando l’ansia se n’è andata, perché ho capito che tutto dipende da Dio, allora e solo allora posso pensare che tutto dipende da me, perché Dio mi ha dato il dono appropriato per compiere la Sua volontà.

 

Omelia XXVI TO Anno C – Lazzaro è affamato di fede

Questa parabola può risultare molto dura all’orecchio nostro. In un tempo in cui tutto è rivedibile e niente è da considerarsi come definitivo, siamo presi da una certa compassione nel vedere l’uomo ricco patire per l’eternità  e ci stupisce un Dio che non può o non vuole neanche dargli una goccia d’acqua. Anzi la nostra coscienza moderna si ribella all’idea del contrappasso, di una giustizia fatta con la bilancia secondo la quale ai beni della vita corrispondono le pene dell’eternità per l’uomo ricco.

Dobbiamo scendere sotto all’apparenza, ad un livello di maggiore profondità, per capire il tipo di pena che l’uomo ricco patisce e soprattutto perché la patisce.  Quest’uomo è sempre stato accanto a Lazzaro, che sedeva davanti alla sua porta, tormentato dai morsi della fame, ridotto ad una situazione di infermità (cfr. le piaghe)  ed impurità (i cani, che leccano le piaghe di Lazzaro,  sono considerati animali impuri in Israele). Per la sapienza più tradizionale di Israele (cfr. Libro dei Proverbi) la ricchezza è  considerata come il segno della benedizione di Dio, mentre la povertà, l’infermità e l’impurità sono segno di maledizione, di una vita lontana da Dio. Questa parabola ci mostra bene che questo modo di ragionare  non può essere applicato rigidamente e che anzi la realtà  può improvvisamente ribaltarsi. Certamente la ricchezza di quest’uomo era una benedizione di Dio nei suoi confronti, un segno di elezione, di favore. Ma come interpretare e vivere tale elezione?

Anche il padre Abramo viene eletto da Dio, diventa un pastore ricco di bestiame e riceve l’eredità di un figlio…ma questa elezione non è per lui, ma per tutti i popoli della terra: “in te si diranno benedette tutte le nazioni della terra”.  È vero che Dio benedice ed elegge, ma questa benedizione non si attua, non si compie per la persona, se non trasmettendosi anche agli altri. Il ricco non possiede questa ricchezza per se stesso, ma per Lazzaro. La benedizione di Dio deve trasmettersi al povero, ridargli la dignità che viene da un’umanità risanata e consolata. Solo così la benedizione di Dio può rimanere, anzi moltiplicarsi sull’uomo ricco. Ma, dal momento che il ricco non riconosce Lazzaro, non riconosce il suo fratello, egli implicitamente rifiuta la stessa benedizione di Dio. Non riconoscere il proprio fratello, gli impedisce di godere della comunione con il Padre, con Dio.

Quel fratello durante  la sua vita era sempre stato accanto a lui ma il ricco non l’aveva mai considerato tale. Ora, dopo la morte, questo atteggiamento del ricco viene congelato, bloccato. In effetti le sue parole ad Abramo ne svelano l’ottica ormai irrimediabilmente egoistica: egli considera Lazzaro niente più che un servo che Abramo dovrebbe mandare a servirlo ed è preoccupato della sua parentela. Quest’ uomo, rimasto chiuso in se stesso, è egli stesso la causa della sua condanna! Non è Dio ad averlo condannato, è lui che chiudendosi al fratello ha sciupato la benedizione di Dio e si è autoescluso dalla salvezza.

Se questo è il senso della parabola, ritengo che Gesù qui si riferisca alle ricchezze materiali come segno. Ancor più qui dovremmo pensare alla ricchezza della fede. Essa è segno di elezione, di benedizione divina, ma non si accresce se non viene donata, anzi finisce per sciuparsi. Quanti Lazzaro sono affamati di vita alla nostra porta, bramosi di Dio, desiderosi di una consolazione che non sanno dove trovare. Dietro all’apparenza di una vita che scorre in un’esteriorità buona e serena, quante domande, quanta ricerca, quante ferite!  Persone ferite nel loro rapporto con Dio da episodi del passato, allontanate da pregiudizi, educate all’indifferenza, alla superficialità. Non sono questi i Lazzaro che a noi spetta servire? A cui dovremmo far cadere qualche briciola dell’alimento inesauribile della nostra vita? Altrimenti, se non evangelizziamo, è la nostra stessa fede ad indebolirsi, a perdere l’aggancio con la vita, a diventare ininfluente, astratta, autoconsolatoria.  La fede non è un possesso automatico, è qualcosa che si accresce in una battaglia, come dice Paolo a Timoteo: “Combatti la buona battaglia della fede”, contro tutte le tentazioni di chiusura, intimismo e accomodamento che minacciano la vita delle nostre comunità