Esodo 13, 17 – 14, 21: il passaggio del mare.

Premesse

All’inizio del libro dell’Esodo il narratore ci informa che il popolo si moltiplica (Es 1, 7) compimento della promessa fatta ad Abramo in Gn 15, 5.  In quel medesimo tempo sorge un nuovo re che non aveva conosciuto Giuseppe, e che vede la moltiplicazione degli Israeliti come un pericolo gravissimo per la stessa sopravvivenza dell’Egitto. A causa dell’uccisione dei neonati maschi decretata da Faraone, il popolo, sul punto di nascere, deve affrontare già il pericolo della fine, della morte.

La storia di Mosè salvato dalle acque scrive già nella sua carne il destino che tutto il popolo vivrà in Es 14, dove il popolo scenderà nelle acque del mar Rosso, per poi risalirne.

Dio  allora intenta un processo al Faraone attraverso Mosè, per ricordargli l’ingiusta violenza perpetrata ai danni del popolo e come risarcimento gli chiede di lasciar libero il popolo. Ma il faraone non riconosce Dio e dunque non ha nessuna intenzione di pagare un risarcimento liberando il popolo (cfr. 5, 2). Tutta la serie delle piaghe è orientata a produrre nel faraone il riconoscimento che jhwh è Dio. Il cuore del faraone si indurisce ogni volta, nonostante accenni di conversione e pentimento nella VII e VIII piaga, ma il lettore sa già che questo era previsto nel gioco misterioso del rapporto tra la volontà di Dio e quella del faraone. Dietro l’indurimento del cuore del faraone infatti c’è sempre Dio cui non sfugge nemmeno la libertà del faraone.

Ma affermare questo non basta. Dio si è forse preso gioco del faraone, indurendogli apposta il cuore per poi farlo fuori? Il racconto smentisce questa interpretazione. Il fatto che la piaga cessi ogni volta che il faraone si pente mostra il desiderio di salvezza di Dio e  tuttavia proprio tale desiderio di salvezza finisce per permettere nuovamente l’indurimento del cuore del faraone (cfr. Es 9, 34 – 35). Più che la giustizia è la misericordia di Dio a permettere l’indurimento del cuore del faraone.

Di fronte all’ultimo tentativo del Faraone, di riacciuffare Israele, che sembra misteriosamente disperso nel deserto, si trova il racconto del passaggio del mare al c. 14.  Al termine di tale racconto, per l’ultima volta gli egiziani riconosceranno che ad agire è jhwh (cfr 14, 4. 14. 25) e Israele è finalmente libero e in grado di credere in Dio e nel suo servo Mosè. Questo è il compimento definitivo di tutto il percorso rivelativo di Dio per gli egiziani e per gli ebrei che era iniziato con le piaghe (cfr. 5, 2).

 

Confini del racconto e problemi interni

Il racconto inizia dunque in 13, 17, perché qui c’è la misteriosa decisione di Dio di far deviare il popolo verso il mar dei Giunchi e termina in 14, 31 con la fede del popolo di Israele.

Il racconto è di per se un po’ complesso e sembra mostrare delle tensioni interne, a livello di narrazione e di vocabolario. Per esempio:

In 13, 22 ci sono due colonne una per il giorno di nube e una per la notte di fuoco mentre in 14, 24 si combinano i due aspetti. Ancora in 14, 20 la nube si mette tra i due accampamenti la sera, il problema è che era di notte, quando, secondo 13, 22 avrebbe dovuto esserci la colonna di fuoco e non la nube.

 

In 14, 22 si parla di un muro a destra e a sinistra (cfr. 14, 28) e di un inseguimento, mentre al v. 21. 27 – 28 sembra essere un progressivo ritirarsi del mare per un fenomeno di marea associato ai venti. Inoltre al v. 20 egiziani ed ebrei non si spostano. Gli egiziani non hanno ancora visto il mare ed è il mare che si sposta e solo in questo momento gli egiziani fuggono.

 

Si trovano qui intrecciati insieme due fonti, una delle quali è caratterizzata da un vocabolario vicino alla corrente sacerdotale (P).  Questa fonte P descrive il passaggio del mare attraverso una “spaccatura” tra le acque, che crea un muro a destra e uno a sinistra, e al centro un corridoio dove passano gli Israeliti inseguiti dagli egiziani. Poi durante l’inseguimento, mentre gli Israeliti camminano all’asciutto gli egiziani vengono sommersi dalle acque. Inoltre secondo questa fonte (13, 22) ci sono due colonne, una di nube e una di fuoco, la prima di giorno e la seconda di notte (cfr. Es 40, 38).

La fonte non sacerdotale invece non prevede nessuno spostamento durante la notte, perché israeliti ed egiziani sono accampati di notte e nessuno si avvicina all’altro in un luogo in cui a causa della marea il mare si prosciuga. Sul far del mattino il mare ritorna al suo livello consueto e mentre gli Israeliti scampano gli Egiziani tornando indietro vengono bloccati dalla risalita delle acque.

In ogni caso si tratta di ricostruzioni ipotetiche. Quel che a noi importa è osservare come il redattore P abbia rielaborato le fonti precedenti con un intento narrativo e una visione teologica.

Narrazione e teologia

L’intento narrativo, come abbiamo già accennato, è di porre al culmine della trama di rivelazione la fede di Israele, che al v. 31, vedendo gli egiziani morti sulla riva del mare, credette nel Signore e nel suo servo Mosè. Quella stessa fede viene messa alla prova in 14, 11, quando il popolo si trova gli egiziani alle calcagna. Al v. 9 è importante seguire l’intento del narratore, che mette in primo piano l’esercito del faraone, con una ridondanza di termini e immagini (tutti i cavalli e i carri del faraone, i suoi cavalieri e il suo esercito), per aumentarne il fascino e la paura da parte del lettore, proprio mentre, sullo sfondo, Israele sta tranquillamente accampato presso il mare. L’accostamento immediato delle due scene provoca una scarica di adrenalina nel lettore, che si chiede cosa mai potrà accadere ad Israele e gli permette di condivere in anticipo la paura di Israele e la sua difficoltà nella fede al v. 11, di fronte alla certezza della morte. Il popolo dovrà fidarsi della parola di Mosè e stare tranquillo. Al v. 31 la tensione si scioglie definitivamente con la fede di Israele, che ha affrontato la morte nel mare per rinascere nell’altra riva.

La visione teologica del narratore  dipinge  il passaggio del mare come una nuova creazione, un passaggio attraverso il morire per rinascere di nuovo. Il vocabolario sacerdotale (P) del brano ci orienta chiaramente in questa direzione. In 14, 21b si usa il verbo “dividere/spaccare”, come in Gn 7, 11, il racconto del diluvio, dove si dice che si aprono le cateratte del cielo. Ancora nel racconto della creazione (Gn 1, 2),  in quello del diluvio (Gn 8, 1) e nel passaggio del mare (Es 14, 21) si trova lo stesso termine “ruah”, per indicare il forte vento mandato da Dio sulle acque. Infine ancora al v. 29 si trova un vocabolo, il termine “asciutto” che viene usato anche in Gn 1, 9 – 10, dove si parla dell’emergere della terra dalle acque primordiali.  Anche in Gn 8, 13 – 14, dopo che Dio ha cancellato tutti gli esseri viventi salvo Noè e la sua famiglia, fa soffiare il vento, si chiudono le sorgenti dell’abisso e le cateratte del cielo e a poco a poco fa apparire la “terra asciutta”. Il processo a cui assistiamo è simile a quello di Gn 1, 9 dove Dio fa apparire la terra asciutta, raccogliendo le acque in un sol posto. Così si può parlare di rinnovamento della creazione dopo il diluvio. Poi quando la terra è asciutta Noè esce dall’arca, così che terra asciutta è destinata al giusto mentre i violenti sono spariti nelle acque. C’è infatti una valenza diversa tra acque e terra: le acque sono mondo della violenza domata da Dio e chi appartiene al mondo della violenza appartiene al mare e vi sparisce dentro come la generazione violenta prediluviana e come gli egiziani che hanno trattato con brutalità il popolo di Israele La terra asciutta invece è riservata a Noè il giusto che si salva e che salva la sua famiglia e insieme al popolo di Israele.

Se il racconto sacerdotale utilizza un linguaggio simile in questi tre testi  significa che certamente vuole allinearli sullo stesso asse teologico. È sempre Dio che crea il mondo, manda il diluvio, salva Noè e che fa uscire Israele dall’Egitto. Dunque il Dio che fa uscire Israele dall’Egitto è il Dio creatore dell’universo, il Signore del mare e della terra asciutta, che facendo uscire Israele dall’Egitto, utilizza a questo scopo la potenza che aveva adoperato per creare il mondo. La gloria che jhwh manifesta quando interviene contro l’Egitto è la gloria del creatore del mondo, capace di comandare agli elementi dell’universo per compiere il suo piano di salvezza.

Conclusione

Gli israeliti camminano tra due muri d’acqua: a destra significa a sud e a sinistra a nord, perché per orientarsi in Israele si guarda verso oriente. Dunque gli Israeliti stanno camminando da ovest a est durante la notte. Questo è in tutte le mitologie il cammino del sole, che va da ovest dove è tramontato a est dove risorge, passando attraverso le acque dell’oceano primordiale, ed è anche il cammino della risurrezione. Infatti la vita inizia con la nascita (est) e finisce con la morte (ovest),  ma quando si va dall’ovest al est si fa il contrario, si rinasce. Ed è quello che fa Israele iniziando il cammino alla sera, attraversando il mare la notte e finendo il cammino al mattino ad est. entrare nel mare in tutte le mitologie significa morire, uscire dal mare significa rinascere. Il popolo muore alla schiavitù, alla paura, alla tirannia e rinasce libero, passa dalla paura, dalla schiavitù degli idoli al servizio di Dio in un cammino di trasformazione. Tutto l’esodo è un cammino dalla schiavitù in Egitto, fino al servizio di Dio nel santuario costruito e consacrato in Es 40 alla fine del libro. Fino al c. 14 il popolo si è liberato dalla schiavitù del Faraone, dal c. 16 in poi il popolo dovrà liberarsi dalla sua mentalità da schiavo, che lo spinge a voler ritornare in Egitto.

 

 

 

 

 

Gen 22: il sacrificio di Isacco

IL SACRIFICIO DI ISACCO

La pericope è piuttosto isolata nel contesto della narrazione del ciclo di Abramo. L’unico collegamento tra ciò che precede e  ciò che segue è costituito dalla notazione geografica relativa a Bersabea (cfr. 21, 33; 22, 19).

Fin dal versetto 1 il narratore intende che si tratta di una vera e propria prova da parte di Dio. Si usa qui un termine tecnico, con il quale si indica un procedimento che avviene nel contesto di una contesa tra due parti in causa, tramite la quale una parte vuole ottenere dall’altra la garanzia della sua innocenza (cfr. uso delle concordanze). Può essere sia una iniziativa divina, che ad esempio attraverso il dono della manna, razionata giorno per giorno, vuole mettere alla prova la fedeltà di Israele (cfr. Es 16, 4), o un’iniziativa del popolo, come a Massa e Meriba, dove viene messo alla prova Dio, per avere la garanzia che egli sia proprio in mezzo a loro, atteggiamento che viene qualificato come mancanza di fede da parte del narratore ( cfr. Es 17, 7; Num 14, 22; Dt 8, 16; Sal 78, 18. 48; Sal 95, 9). In Dt 4, 34, con riferimento alle piaghe d’Egitto, si usa un termine della stessa radice del verbo, e che possiamo tradurre con prove. I segni e prodigi delle piaghe sono delle prove nella contesa tra Dio e il Faraone, per mostrare cosa c’era nel cuore di Faraone. Tuttavia nel contesto di Deuteronomio 4 queste prove divengono segni e manifestazioni nei confronti di Israele, per rafforzarne la fede nei confronti del suo Dio. Una prova può dunque essere positiva, volta cioè a manifestare le qualità positive di Dio o dell’uomo (cfr. Es 20, 20 per la connessione tra prova e scrutare il cuore). Nel caso di Gen 22, 1 si tratta proprio di questo, Dio vuole rendere evidente, manifestare l’obbedienza e la fede del suo servo, per manifestare a sua volta la sua benedizione.

Ma Abramo non  sa che si tratta di una prova e prende sul serio il comando di Dio. C’è qui un gioco narrativo di fondamentale importanza tra narratore e lettore, a scapito del protagonista, che tecnicamente si chiama “focalizzazione zero”. Ossia il lettore, grazie alle notizie comunicategli da un narratore onnisciente, sa quello che i personaggi della vicenda non sanno. Il lettore sa fin dall’inizio che si tratta di una prova e che quindi Dio non fa sul serio e sa al contempo che Abramo non lo sa. Così il lettore è invitato a guardare con trepidazione e compassione ad Abramo e nello stesso tempo anche con grande ammirazione per il suo atteggiamento di radicale obbedienza.

Il lettore è consapevole di tutta la storia di Abramo, delle sue sofferenze fino a tarda età per non avere un erede (cfr. Gen 15, 1 – 2; 16, 1 ) nonostante la promessa di Dio per la quale egli aveva lasciato tutto il suo passato ed era partito (cfr. 12, 1) e dunque immagina quanto il comando di Dio sia per Abramo qualcosa di assolutamente incomprensibile, dal momento che gli chiede di sacrificare il figlio donato da Dio stesso, dopo tanti anni di attesa, e con un miracolo che ha vinto sulla sterilità e la vecchiaia di Sara.  Si tratta di offrire in olocausto il figlio unigenito, che egli ama. Ciò non fa che aumentare l’ammirazione per la grandezza dell’obbedienza di Abramo.

Il narratore si sofferma particolarmente su dettagli che rivelano la tenerezza del rapporto di Abramo con il figlio.  Abramo prima sella l’asino per partire e poi però spacca la legna, come a voler ritardare la partenza. Poi in mano al figlio non mette oggetti pericolosi come il coltello o il fuoco, ma solo la legna.  Il dialogo tra Abramo e suo figlio è una geniale pittura dell’animo. L’amore tra padre e figlio si esprime nell’uso ripetuto scambievolmente degli appellativi e dei possessivi: “padre mio; figlio mio”. L’obbedienza di Abramo non è dunque il freddo e disumano automatismo di una macchina, è una sofferta sequenza di azioni in cui Abramo mette in moto la sua decisione di obbedire a Dio e al contempo l’amore per il suo figlio Isacco si manifesta in tutta la sua commovente profondità.

La risposta del padre alla domanda intelligente di Isacco: “Qui c’è il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto?” è pervasa da una fede trepidante nella provvidenza di Dio: Dio stesso vedrà per se (per lui) l’agnello per l’olocausto.  Ad un primo significato il versetto indica che Dio provvede l’agnello sacrificale per se. Ma il verbo usato significa “vedere” e il nome che Abramo darà al luogo è: jhwh vede (v. 14). Cosa vuol dire? Cosa vede Dio? Il significato soggiacente è che lo sguardo di Dio, benevolo e provvidente, non si stacca mai dall’uomo, per sostenerlo e favorirlo. Abramo ha totalmente rinunciato al possesso del dono della promessa, vedendolo in questo modo proprio come dono puro e semplice, di cui non si è portatori in base ad un proprio diritto. Restituire il dono vuol dire rispettare e accogliere pienamente la rivelazione del donatore.

Quindi la risposta di Abramo è in realtà una grande attestazione di fede da parte sua. Qui giunge al culmine quella prova che il narratore aveva introdotto al v. 1, il cuore di Abramo è tutto per Dio, egli è il suo bene più grande, e per lui è disposto a sacrificare anche il figlio della promessa, che aveva ricevuto da lui. Qui abbiamo il culmine della trama di rivelazione, che riguarda l’obbedienza di Abramo (cfr. scheda su trama di rivelazione e di risoluzione). Il seguito delle azioni portano avanti la risoluzione, che ha un picco di tensione quando la mano di Abramo si alza vibrando il coltello per uccidere Isacco. La suspence creata dal susseguirsi di queste azioni e la drammaticità di ciò che sta per accadere mettono alla prova la fede del lettore, che mentre Abramo alza il coltello, chiude gli occhi e si chiede se era proprio vero che si trattava solo di una prova. Cosa farà Dio? L’intervento dell’angelo, che blocca la mano di Abramo all’ultimo momento e con il miracoloso segno dell’ariete impigliato in un albero, sciolgono questo tensione e porta a termine la trama di risoluzione.

Mentre la fede di Abramo è ormai comprovata al v. 8, da quel momento in poi viene messa alla prova la fede del lettore, che si chiede con angoscia cosa farà Dio a questo punto. Il narratore intende in questo modo mostrare che la prova di fede di Abramo è in realtà simultaneamente una prova di fede per il lettore. Quale immagine di Dio ha il lettore, il quale si ribella di fronte a un Dio che mette alla prova Abramo, temendo che sia un Dio cattivo? La fede di Abramo educa quella del lettore. Anche qui la risoluzione degli eventi è in funzione di una rivelazione, la rivelazione di un Dio che vede, che si prende cura dell’uomo.

Per Abramo Dio può chiedere qualsiasi cosa perché “Dio vede”, ossia si prende cura dell’uomo, lo ama. Questo è implicito in tutti gli atti compiuti da Abramo in questo racconto. Mentre Dio mette alla prova la fede di Abramo, Abramo ubbidendo mette alla prova l’amore di Dio. Ogni atto da lui compiuto verso il sacrificio del figlio al monte Moria è una testimonianza della sua fede incrollabile e paradossale nel fatto che Dio è il Dio della vita ( per l’autore della lettera agli Ebrei, Abramo crede nella resurrezione dai morti Eb 11, 17 – 19 ). In fondo, se vogliamo, Dio è venuto ad abitare l’immagine crudele che l’uomo si è fatto di lui fin dall’inizio dell’umanità,  per liberarlo da essa e non c’era altro modo per farlo, se non attraverso la fede di Abramo. Dio mette alla prova la fede di Abramo ( Dio vede ), perché egli possa mettere alla prova il suo amore e questo per la fede di tutti i lettori!

Allo stesso modo Isacco non può credere di essere ingannato dalla parola del padre, e supera la paura di essere ingannato dal padre, facendosi legare. La prova di fede di Abramo è implicitamente affrontata anche da Isacco nel rapporto con il padre ( cfr. tradizione ebraica sulla legatura di Isacco ).

Ciò mi pare si ricolleghi bene alla duplice tradizione del nome del luogo: il signore vede e “sul monte il Signore è visto si fa vedere”, gioca con il verbo vedere. La fede di Abramo riguardo al fatto che Dio vede rende possibile la manifestazione, la rivelazione di Dio in lui ( Dio si fa vedere). Si annuncia qui qualcosa che il narratore non poteva prevedere, ma la cui figura risplende nel rapporto tra Abramo e Isacco. Il figlio unico e prediletto viene donato dal padre e il figlio stesso si lascia donare fidandosi di lui. Questa figura si compie e cade nel momento in cui la realtà risplende nella croce del Figlio, dove il Padre si rivela come il donatore per eccellenza.

Ma per ora siamo agli inizi della rivelazione. Fin qui possiamo solo dire che al termine di questa prova, la promessa di Dio viene confermata (v. 15 – 18).

 

Lectio divina XXXII TO Anno C

Preghiera su Lc 20, 27 – 38  XXXII T.O. Anno C

I sadducei, che sono famiglie di sacerdoti che amministrano il Tempio di Gerusalemme, interrogano Gesù, probabilmente per metterlo alla prova, su una questione dibattuta tra gli ebrei dell’epoca di Gesù: la resurrezione. Secondo i sadducei, che interpretano la legge di Mosè alla lettera, non c’è resurrezione dai morti, invece secondo i farisei e i loro scribi le Scritture attestano la resurrezione finale. Questi sadducei prendono spunto dalla legge del levirato (cfr. Dt 5, 5 – 10), che obbliga un uomo a sposare la moglie di suo fratello morto senza figli, in modo da dargli una discendenza, per mettere in dubbio una vita nell’aldilà. Infatti se tutti i mariti muoiono senza aver dato figli, a chi apparterrà la loro moglie nell’aldilà? La risposta di Gesù mette in crisi la visione materialistica che questi sadducei hanno dell’aldilà. Egli arriva ad affermare che chi avrà parte alla resurrezione non ha più bisogno di sposarsi, perché non vi sarà più attività sessuale (v. 35 – 36). Se la legge del levirato mostra il desiderio di eternità insito nell’uomo attraverso la generazione carnale, Gesù ne indica il compimento nella resurrezione dei morti. Non sarà più necessario avere figli, perché saremo tutti figli di Dio, in comunione con il Figlio per eccellenza, Gesù Cristo, morto e risorto secondo le Scritture (cfr. 1 Cor 15, 3 – 4).  Gesù trova anche una conferma di questa riflessione nella Scrittura del Pentateuco, considerata ispirata anche dai Sadducei. Egli si rifà a Es 3, 6, in cui Dio si autoproclama come il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Se Dio ha fatto Alleanza con degli uomini fino al punto che egli si autodefinisce in rapporto a loro, allora questa Alleanza non può che essere eterna, insieme con i suoi beneficiari.  Chi è il Dio che si rivela nella Bibbia? È il Dio – con – noi, l’Emmanuele (cfr. Is 7, 14), colui che vive per noi e con noi, così che anche noi possiamo vivere per lui (v. 38). Cosa significa vivere per lui? Significa sia vivere grazie a lui e al dono della vita che gli appartiene per definizione, sia vivere per amare Lui, donandogli a nostra volta tutto ciò che siamo.

La conferma delle parole di Gesù da parte degli scribi lascia intuire che proprio Lui, la sua persona e il mistero della Sua resurrezione sono il criterio interpretativo più adeguato per comprendere le Scritture dell’Antico Testamento (cfr. v. 39; cfr. 24, 27).

Suggerimenti per la preghiera

1. Mi dispongo davanti a Dio in preghiera. Sto in ginocchio o seduto, per entrare in colloquio con il Signore, o meditare su ciò che leggo, a seconda di ciò che voglio.

2. Leggo con attenzione il brano di Vangelo.

3. Chiedo al Signore di poterlo conoscere interiormente come maestro divino, per amarlo e seguirlo sempre più.

4. Vedo le persone che agiscono, osservo come si comportano e si relazionano. Es: rifletto sulla corta visione dei sadducei, che leggono le Scritture senza comprendere in profondità il senso. La superficialità e la banalità nella visione materialistica delle cose è qualcosa di molto attuale.

5. Medito su cosa dicono i personaggi.  Es: Gesù afferma che fin d’ora siamo figli di Dio, figli risorti. Il mio vivere per Dio è già un essere figlio, principio di resurrezione futura. Medito su come Dio mi trasforma in suo figlio, attraverso un cammino di purificazione nell’umiltà.

6. Concludo con un Padre Nostro.

SCHEDA DI LETTURA XXXII TO Anno C

Lectio divina XXXI TO Anno C

Preghiera su Lc 19, 1 – 10  XXXI T.O. Anno C

Prima di entrare in Gerico Gesù, mentre si avvicinava alla città (18, 35), aveva guarito un cieco, che poi aveva incominciato a seguirlo diventando suo discepolo (18, 43). Ora, nel suo movimento verso Gerusalemme, Gesù ha fatto tappa a Gerico entrando nella città e la sta attraversando (19, 1).  Ecco si presenta un uomo di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, la cui cecità non è fisica ma morale e spirituale (19, 3), ed è mosso dalla curiosità di vedere chi fosse Gesù. Come per il cieco (cfr. 18, 39) anche per Zaccheo la folla è un ostacolo, perché egli è piccolo di statura. Senza temere di mettersi in ridicolo davanti a tutti egli corre in avanti e sale su un sicomoro perché sapeva che Gesù sarebbe passato di la (v. 4).  Al momento culminante quando Gesù passa, non è Zaccheo a prendere l’iniziativa, ma Gesù stesso, che lo chiama per nome: “Zaccheo, scendi subito perché oggi è necessario che io rimanga a casa tua” (v. 5). Come Gesù poteva aver già conosciuto Zaccheo? Non è dato saperlo. Zaccheo e noi lettori ci rendiamo conto che mentre quest’uomo cercava Gesù per curiosità, era in realtà Gesù che stava entrando in città per cercarlo. Tutta la passaggiata di Gesù a Gerico non aveva altro scopo che andare a trovare quest’uomo ricco e ladro – nonostante la simpatia che il narratore ci comunica per Zaccheo egli era un capo dei pubblicani, che facevano una buona cresta alle tasse richieste dall’impero – ed entrare in casa sua.  Ci sarà sicuramente stata gente migliore di Zaccheo in Gerico, eppure Gesù vi è entrato solo per lui.  Zaccheo scende subito con gioia. La sua fretta rivela che l’oggi  della salvezza (v. 5 cfr. 2, 11; 4, 21) è arrivato anche per lui ed egli ne approfitta con gioia (cfr. 1, 14; 2, 10).  Contestualmente è la folla a costituire un nuovo ostacolo nella comprensione di ciò che accade: essi mormorano contro Gesù, andato ad alloggiare da un peccatore (v. 7). Come quando era andato a mangiare dagli amici di Levi (cfr. 5, 30) anche qui la folla si scandalizza.  Zaccheo mostra che l’incontro con Gesù lo ha cambiato intimamente e le opere che promette di fare sono il segno di un’autentica conversione, che apre il suo sguardo ai poveri e ripara ai peccati passati (v. 8). Con la sua risposta Zaccheo è finalmente entrato nella salvezza e si sono compiute per lui le promesse fatte ad Abramo (cfr. Lc 13, 16): egli appartiene al popolo dei figli di Abramo (cfr. Gal 3, 7), di coloro che si sono salvati per la fede nel Signore (v. 8) come Abramo, che aveva accolto con sollecitudine il Signore nella sua casa (cfr. Gn 18, 3).  Gesù stesso sintetizza tutta la sua missione come un ricercare colui che era perduto, con l’amore del pastore che va in cerca della pecora perduta, lasciando le 99 nell’ovile (cfr. Lc 15, 4 – 7; Ez 34, 16).

 

Suggerimenti per la preghiera

1. Mi dispongo davanti a Dio in preghiera. Sto in ginocchio o seduto, per entrare in colloquio con il Signore, o meditare su ciò che leggo, a seconda di ciò che voglio.

2. Leggo con attenzione il brano di Vangelo.

3. Chiedo al Signore di poterlo conoscere interiormente come maestro misericordioso, per amarlo e seguirlo sempre più.

4. Vedo le persone che agiscono, osservo come si comportano e si relazionano. Rifletto sul fatto che mentre Zaccheo cerca Gesù in realtà è cercato e trovato da Lui. Ripenso a come il Signore mi ha cercato e trovato, passando attraverso la mia personale ricerca di Dio.

5. Medito su cosa dicono i personaggi.  La dichiarazione di Zaccheo: “Signore, ecco do la metà dei miei beni ai poveri e se ho frodato qualcuno ridò quattro volte tanto”, esprime prima di tutto la fede in Gesù come Signore, attraverso segni concreti di conversione. Rileggo i frutti di conversione della mia vita, a partire dall’incontro con Gesù.

6. Concludo con un Padre Nostro.

 

 

Omelia XXX TO Anno C

Un bambino dell’età delle elementari si posiziona secondo l’autorevole indicazione di chi ha il compito di educarlo. Ancora non sa distinguere in modo netto tra l’oggettività dei valori in gioco e il rispetto affettivo nei confronti del babbo o della mamma, così come qualche anno dopo, in piena adolescenza, sarà eccessivamente influenzato dal rifiuto di tutto ciò che proviene da loro. L’oggettività del valore è una conquista graduale, è la conquista della maturità che tanti adulti,  prigioneri del loro narcisismo, non sanno ancora raggiungere. Il narcisismo è la malattia psicologica della nostra epoca, la malattia dell’uomo prigioniero dell’immagine che vuole dare agli altri, tutti sostituti del babbo e della mamma, che ti devono approvare ed applaudire perché hai fatto bene ogni cosa.  E se per caso c’è qualcuno che ti contraddice o scalfisce la tua immagine perfetta, ecco la crisi manifestarsi in forme di vittimismo o di aggressività o di depressione. Il narcisismo è precisamente l’incapacità di distinguere tra se stessi, le proprie prestazioni, le opinioni che gli altri hanno di noi e il valore che si vuole raggiungere, nella sua oggettività, nella sua bellezza che mi sta davanti e che non dipende da me.

Questa forma di psicologia, normale nell’adolescente ma malata nell’adulto, si trasferisce molto spesso nel rapporto con Dio e degenera in forme negative e autoreferenziali di spiritualità. È il caso della preghiera del fariseo condannata da Gesù non per ciò che afferma, per il suo contenuto, ma per lo stile che la caratterizza.  Infatti il fariseo non solo osserva la legge del decalogo, ma fa di più osservando il digiuno e le decime in forma ancora più radicale e tutto questo egli lo vive realmente. Egli è giusto nei suoi comportamenti esteriori ma lo stile di giudizio con cui si paragona al pubblicano e a tutti gli altri uomini lo smaschera: egli è concentrato su se stesso e non su Dio, si sta autogratificando e non sta realmente lodando il Signore. Non a caso le sue parole, riferite nella parabola, sono introdotte da un’espressione assai significativa: “pregava rivolto verso se stesso, in se stesso”.  Questo fariseo ha coltivato un immagine genitoriale di Dio che ha finito per chiuderlo in se stesso, in un circolo vizioso in cui costruirsi un’identità autoconsolatoria e gratificante e approvarla a nome di Dio sono due tendenze che si alimentano a vicenda. Il suo Dio è il suo io, malato e ipertrofico, che tenta di colmare il  vuoto con una ricerca religiosa individualistica e in fondo infelice.  L’altro non trova posto in questa ricerca, che sia Dio o il prossimo pubblicano, disprezzato perché incapace di competere.

Quanto coglie nel vero questa descrizione per l’uomo e per il cristiano contemporaneo! Quanti estetismi e liturgismi sono alimentati da spiritualità narcisistiche e malate! Vere e proprie fissazioni su forme estetiche, su riti, su modi di vestire – e qui mi riferisco soprattutto a certe categorie ben presenti nel clero ma anche tra gruppi di laici “molto devoti” – che rafforzano l’immagine sacrale del prete o del ministro. Altre volte  nel modo di pregare si assiste ad irrigidimenti in forme immodificabili, non solo a livello liturgico, ma anche nelle preghiere di tipo devozionale. Sembra quasi che se non si osserva una certa lettera della forma e se si osa proporre qualche modifica,  non vi possa essere comunicazione vera con Dio. Infine ancora quanti elitarismi nella Chiesa. Ci sono gruppi nelle parrocchie e nella comunità ecclesiale che non fanno mistero di sentirsi i migliori, i più fedeli al magistero, i più bravi a livello educativo ecc… Quanta debolezza crea questa malattia psicologica e spirituale. Crescono adulti incapaci di sostenere la benchè minima contraddizione, o scontro, sempre pronti a fornire un’immagine accomodante rispetto al gruppo cui appartengono. È la formazione del carattere, la virtù della fortezza, che abbiamo perso…essa si radica in una buona spiritualità. Dobbiamo recuperare la preghiera del pubblicano, il quale, pur con tutti i suoi peccati, è ben consapevole di trovarsi davanti a Dio, perché  non  osa alzare gli occhi battendosi il petto. Egli riconosce che tutto è dono di Dio, i suoi eventuali meriti ed anche il perdono offerto per i peccati. Questa è la vera legge, la legge dell’amore di Dio, davanti al quale, con tutti i nostri meriti, si è sempre e comunque inadeguati, perché ci previene e ci sorpassa. Solo l’apertura all’amore di Dio, all’oggettività dell’amore che non proviene da noi, ma ci attraversa come un dono che viene dall’Altro, ci guarisce dalla malattia spirituale dei nostri tempi.

Lectio divina XXX TO Anno C (Lc 18, 9 – 14)

 

Preghiera su Lc 18, 9 – 14  XXX T.O. Anno C

Questa parabola di Gesù è introdotta da un’indicazione riguardante gli uditori a cui Gesù si rivolge: essi sono coloro che confidano in se stessi e nella loro giustizia e  disprezzano gli altri (v. 9). Con questo riferimento iniziale l’evangelista chiarisce molto bene che l’accusa non è rivolta soltanto ai farisei, rappresentati nella parabola, ma soprattutto ai suoi lettori, cristiani sempre tentati da una religiosità falsa, in fondo idolatrica. Vengono presentati due personaggi, il fariseo e il pubblicano, che sono emblemi rispettivamente dell’uomo “pio israelita” e del “disonesto, impuro, amico dei romani”.  Salgono entrambi al tempio a pregare ma il loro atteggiamento e le loro parole sono contrapposte. Da un lato il fariseo sta in piedi e prega tra se con molte parole che descrivono il suo atteggiamento e il giudizio nei confronti degli altri (vv. 11 – 12). Dall’altro il pubblicano prega più con i gesti che con le parole, perché stando lontano non osa alzare gli occhi, si percuote il petto e dice semplicemente: “Abbi pietà di me peccatore” (v. 13).  Se gli atteggiamenti del pubblicano evidenziano la sua consapevolezza di trovarsi in relazione con una presenza a lui esterna, invece il fariseo sembra chiuso in se stesso e nella contemplazione di se.  Le parole di quest’ultimo ne rivelano l’animo: egli si pone a paragone con tutti gli altri uomini, compreso il pubblicano, diprezzandoli intimamente per le loro mancanze nei confronti della legge. Ben diversa è l’invocazione del Salmista che, conoscendo la sua debolezza,  supplica il Signore di non abbandonarlo alla comunione con i peccatori  (cfr. Sal 26, 9 – 11). Egli infatti non confida in se stesso, ma solo nel Signore. Ancora il fariseo elenca le sue azioni secondo la legge (v. 12): egli digiuna due volte la settimana e paga la decima: sono azioni che vanno perfino oltre gli obblighi della legge mosaica, che prevedeva la decima solo su frumento, olio e vino e sul primogenito del bestiame (cfr. Dt 12, 17; 14, 22  – 29) o il digiuno solo in alcuni periodi dell’anno (cfr. Lv 16, 29. 31). Eppure tutta questa perfezione gli serve solo per lodare se stesso. Il ringraziamento iniziale di Dio (v. 11) è solo formale, perché egli attribuisce a se stesso il merito di una giustizia che Dio è chiamato soltanto a ratificare. Questo atteggiamento nei confronti di Dio si traduce di conseguenza nel disprezzo del prossimo. Infatti lo stretto legame tra i due comandamenti centrali della legge, amore di Dio e amore del prossimo (cfr. Lc 10, 25 – 28), chiarisce in modo definitivo che tale disprezzo del prossimo discende da una mancanza di amore per Dio. Il fariseo ha fatto della legge un idolo, che invece di avvicinarlo a Dio lo allontana da Lui e dal suo amore (cfr. 11, 42).     Il pubblicano invece, che sa di essere interamente peccatore e che avrebbe dovuto lasciare il suo mestiere e restituire il 120 per cento di tutto ciò che aveva acquisito, e che quindi, dal punto di vista umano, non ha alcuna possibilità di salvezza per la legge,  può solo confidare nella misericordia gratuita di Dio: “Abbi pietà di me peccatore” (cfr. Sal 51, 3 – 4). Egli comprende che l’amore di Dio non dipende dai suoi meriti e per questo viene giustificato da Dio, a differenza del fariseo (v. 14). Con un’ultima frase Gesù conclude la parabola per enuclearne il significato (v. 14): farsi umile non significa disprezzare se stessi, ma comprendere che tutto, anche i nostri meriti, sono dono di Dio e del Suo amore. Il primo a darci l’esempio è Cristo, che pur essendo Dio non considerò un possesso geloso la sua uguaglianza con Dio…, ma umiliò se stesso fino alla morte e alla morte di croce. (Fil…)

 

 

Suggerimenti per la preghiera

1. Mi dispongo davanti a Dio in preghiera. Sto in ginocchio o seduto, per entrare in colloquio con il Signore, o meditare su ciò che leggo, a seconda di ciò che voglio.

2. Leggo con attenzione il brano di Vangelo.

3. Chiedo al Signore di poterlo conoscere interiormente come maestro divino, per amarlo e seguirlo sempre più.

4. Vedo le persone che agiscono, osservo come si comportano e si relazionano. Rifletto sull’atteggiamento di umiltà del pubblicano, che non si cura delle opinioni altrui, ma solo del suo rapporto con Dio. Chiedo a Dio di farmi povero e umile con Cristo povero e umile.

5. Medito su cosa dicono i personaggi.  Ripeto in me stesso le parole del pubblicano: “Abbi pietà di me, peccatore!”. Considero l’amore di Dio in Gesù che va verso la passione per i miei peccati.

6. Concludo con un Padre Nostro.

 

 

Omelia IXXX TO Anno C

In questo tempo di crisi economica tendiamo a vedere tutto nero, nella vita politica come nella vita personale. Mai come oggi il mondo ha bisogno della virtù cristiana – teologale, per essere precisi – della speranza. Essa è un dono di Dio, ma, come tutti i doni, per diventare effettiva nella nostra vita, deve essere amministrata, coltivata, fatta germogliare e crescere. Essa è come una casa che ha bisogno di pilastri per essere fondata nel terreno. Uno di questi pilastri è senz’altro la perseverenza, ossia quell’atteggiamento umano, insieme naturale e frutto di volontà, che rimane aderente, attaccato alle abitudini positive, a ciò che costituisce la roccia della nostra esistenza. Parlo in particolare della perseveranza nella preghiera.

Nella parabola della vedova importuna e del giudice disonesto, la vedova incarna proprio questa virtù della perseveranza nel chiedere, che si traduce poi nella speranza incontrovertibile della giustizia. Ecco la Chiesa, ci dice Gesù, è come la vedova che prega con perseveranza, ben sapendo che il suo Dio non è un giudice disonesto,  ma un Padre che ama, onora e perdona l’uomo. Se la perseveranza nella parabola della vedova ha cambiato la decisione del giudice disonesto, nella nostra vita la perseveranza finisce per cambiare non la decisione di Dio, che è sempre a nostro favore, ma il nostro modo di vedere Dio e la storia. E’ la perseveranza che ci fornisce gli occhi nuovi per contemplare la realtà da una nuova, inaspettata, potente angolatura: l’angolatura della fede.

C’è certamente un aspetto paradossale nel modo con cui la fede ci fa guardare le cose. Le ingiustizie rimangono nella storia e nella nostra vita: i bambini morti in questi giorni nel mediterraneo rimangono, le cattiverie che abbiamo subito gratuitamente ci hanno procurato delle ferite che sono ancora li… eppure dove l’occhio dell’uomo vede soltanto dolore e male irrimediabile, gli occhi della fede permettono di vedere la giustizia di Dio all’opera. Si, la giustizia di un Dio che muore sulla croce, condividendo con noi proprio il dolore più inaccettabile e in questo modo lo trasforma da dentro.

Un giorno una mamma che ha avuto il figlio adolescente cerebroleso in seguito ad un incidente stradale mi ha detto: ecco quel dolore li, inaccettabile, impossibile, in modo assurdo e illogico si è poi trasformato in una gioia incontenibile. Questa è la gioia del paradiso, la gioia della fede, la gioia della resurrezione, che ci fa vedere le cose con gli occhi del martire, del testimone che è stato purificato dal crogiolo della prova.

Ecco, pregare senza stancarsi, per l’inaccettabile dolore possa diventare in noi fonte di una gioia incontenibile, fino alla fine, fino ai confini, alla pienezza di un amore che attraversa il tempo e la storia e non ha limiti di spazio. è un amore che ha già vinto il mondo con le sue malvagità. Così noi diventiamo come quella vedova, testimoni di un amore impossibile, che è già passato attraverso le pieghe della storia, e che può infonderci speranza anche in tempi di crisi e di corte vedute come il nostro.

Esercizio per casa

 

ANALISI NARRATIVA

 

TRAMA: Situazione iniziale; complicazione; Azione trasformatrice; soluzione; Situazione finale

 

TRAMA DI RISOLUZIONE: l’azione trasformatrice opera sul piano dei fatti (guarigione, prodezze…).

TRAMA DI RIVELAZIONE: l’azione trasformatrice consiste in un aumento di conoscenza su un personaggio della storia raccontata.

 

Esercizio.  Gen 22: identifica la trama di risoluzione e la trama di rivelazione nell’episodio del sacrificio di Abramo.

La giustizia di Dio e l’obbedienza del servo (Gn 6, 1 – 22)

GEN 6, 1 – 22: LA GIUSTIZIA DI DIO E L’OBBEDIENZA DEL SERVO.

1Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla terra e nacquero loro delle figlie, 2i figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle e ne presero per mogli a loro scelta. 3Allora il Signore disse: «Il mio spirito non resterà sempre nell’uomo, perché egli è carne e la sua vita sarà di centoventi anni».

4C’erano sulla terra i giganti a quei tempi – e anche dopo -, quando i figli di Dio si univano alle figlie degli uomini e queste partorivano loro dei figli: sono questi gli eroi dell’antichità, uomini famosi.

5Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni intimo intento del loro cuore non era altro che male, sempre. 6E il Signore si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo. 7Il Signore disse: «Cancellerò dalla faccia della terra l’uomo che ho creato e, con l’uomo, anche il bestiame e i rettili e gli uccelli del cielo, perché sono pentito di averli fatti». 8Ma Noè trovò grazia agli occhi del Signore.

9Questa è la discendenza di Noè. Noè era uomo giusto e integro tra i suoi contemporanei e camminava con Dio. 10Noè generò tre figli: Sem, Cam e Iafet. 11Ma la terra era corrotta davanti a Dio e piena di violenza. 12Dio guardò la terra ed ecco, essa era corrotta, perché ogni uomo aveva pervertito (sht) la sua condotta sulla terra. 13Allora Dio disse a Noè: «È venuta per me la fine di ogni uomo, perché la terra, per causa loro, è piena di violenza; ecco, io li distruggerò (sht) insieme con la terra. 14Fatti un’arca di legno di cipresso; dividerai l’arca in scompartimenti e la spalmerai di bitume dentro e fuori. 15Ecco come devi farla: l’arca avrà trecento cubiti di lunghezza, cinquanta di larghezza e trenta di altezza. 16Farai nell’arca un tetto e, a un cubito più sopra, la terminerai; da un lato metterai la porta dell’arca. La farai a piani: inferiore, medio e superiore.

17Ecco, io sto per mandare il diluvio, cioè le acque, sulla terra, per distruggere sotto il cielo ogni carne in cui c’è soffio di vita; quanto è sulla terra perirà. 18Ma con te io stabilisco la mia alleanza. Entrerai nell’arca tu e con te i tuoi figli, tua moglie e le mogli dei tuoi figli. 19Di quanto vive, di ogni carne, introdurrai nell’arca due di ogni specie, per conservarli in vita con te: siano maschio e femmina. 20Degli uccelli, secondo la loro specie, del bestiame, secondo la propria specie, e di tutti i rettili del suolo, secondo la loro specie, due di ognuna verranno con te, per essere conservati in vita. 21Quanto a te, prenditi ogni sorta di cibo da mangiare e fanne provvista: sarà di nutrimento per te e per loro».

22Noè eseguì ogni cosa come Dio gli aveva comandato: così fece.

 

 

 

 

Il racconto di Noè e del diluvio in Genesi rielabora temi antichissimi presenti in molte letterature del medio oriente antico e dei popoli del mediterraneo. L’autore sacro reinterpreta questo tema che gli è pervenuto dalle sapienze dei popoli vicini alla luce della particolare esperienza del Dio di Israele. Come funziona la giustizia di Dio e come è possibile all’uomo il riscatto da una situazione definitivamente compromessa dal peccato e dall’escalation della violenza? A partire dal peccato di Adamo ed Eva (Gen 3) si è prodotta un’escalation di violenza che ha coinvolto due fratelli (Caino e Abele in Gn 4), per concludersi in una spirale di vendette senza possibilità di uscita ( cfr. canto di Lamech in Gn 5, 23 – 24). La storia umana, appena iniziata, è subito spinta alla sua distruzione da un vettore di declino e violenza che sembra senza possibilità di rimedio. In questo senso è la stessa colpa e violenza umana a condurre l’uomo verso la sua distruzione. Come Dio si pone di fronte a questa messa in discussione del suo progetto di creazione?

In 6, 11 si dice che: “la terra era corrotta (šḥt) davanti a Dio e piena di violenza”. In 6, 13 segue subito la decisione di Dio: “ecco io li distruggerò (šḥt)  insieme con la terra”.

La ripresa della medesima radice verbale non è casuale, ma voluta dall’autore. Qui si vuol mostrare il senso profondo della giustizia di Dio, che non è punizione arbitraria, ma manifestazione delle conseguenze del peccato sull’umanità.  Dio non sta distruggendo l’umanità per un gusto sadico, né perchè giudice inflessibile, ma intende semplicemente rendere manifesta una corruzione, una distruzione, una morte, che l’umanità si era già autoinflitta (cfr. Ger 2, 30; 5, 25 – 31). Questa riflessione nasce dalla predicazione profetica. Essa infatti mostra un popolo che con il peccato si esclude dal rapporto vitale con il suo Dio e che per conseguenza subisce il castigo dell’invasione straniera e dell’esilio.

Il peccato e la violenza che corrompono il progetto creatore di Dio consistono nel rifiuto della differenza, anzitutto quella tra Dio e l’uomo (cfr. 6, 1 – 4). Dio con il diluvio intende manifestare proprio questa radice profonda, anticreazionale, del peccato dell’uomo. Infatti il diluvio, permesso da Dio, non è altro che lo scatenarsi delle forze anticreazionali messe in certo modo in movimento dalla violenza umana poiché, nella concezione di Gen 1 la separazione delle acque superiori da quelle inferiori costituisce l’opera del secondo giorno della creazione, presupposto per l’emersione della terra, e il diluvio finisce per ricongiungerle compromettendo fatalmente la vita sulla terra.  Se Dio crea separando, il diluvio distrugge ricongiungendo ed eliminando le differenze della creazione, così come il male aveva già operato, mettendo a rischio la differenza tra Dio e uomo (Gen 3, 22) e tra i fratelli (Gen 4).

La sapienza dell’autore biblico mostra però che mentre è in atto la linea del giudizio divino, la linea della misericordia e dell’alleanza non si interrompe, ma viene ristabilita attraverso l’obbedienza del servo Noè.  I dettagli costruttivi dell’arca (cfr. 6, 14 – 16), minuti e complessi, sono funzionali dal punto di vista narrativo a sottolineare l’obbedienza puntuale di Noè al comandamento divino. L’arca diviene il contenitore di una nuova creazione, dove la divisione secondo le specie e la specificazione della reciprocità del maschile e femminile, si riferiscono chiaramente al racconto di Gen 1.  L’arca è il microcosmo di una nuova creazione che avviene grazie all’obbedienza del servo. Tale ri – creazione è dunque resa possibile dall’alleanza (berit ) che Dio rinnova con il suo servo e la nuova creazione porta con se un ristabilimento della differenza creatrice, quella dell’umanità con Dio, del cielo e della terra e delle creature tra loro, secondo le loro specie.   Al c. 9 la benedizione di Dio su Noè ha i tratti della benedizione originale su Adamo ed Eva (cfr. Gen 9, 1a). Ma ci sono dei dettagli aggiuntivi. La paura di ogni essere vivente nei confronti dell’uomo.  La concessione data all’uomo di mangiare carne, senza sangue. La minaccia giuridica relativa all’omicidio. La nuova creazione è stata ristabilita ma la traccia del peccato rimane attraverso le indicazioni della legge, argine necessario e pur sempre parziale nei confronti dell’esplodere della violenza dell’uomo contro l’uomo.

La formulazione ricorda la legge del taglione: “chi sparge il sangue dell’uomo, dall’uomo il suo sangue sarà sparso”. Nel vangelo di Matteo la stessa legge viene citata da Gesù quando impedisce a Pietro di vendicare l’arresto di Gesù e di rimettere la spada nel fodero (cfr. 26, 52).  Gesù riprende questa legge, per portarne a compimento il significato nascosto. Dio reagisce alla violenza dell’uomo con un’alleanza ancora più radicale, fondata su un bene e un amore senza condizioni, manifestati dal servo innocente. Gesù è il servo innocente il cui sangue è stato sparso (cfr. 27, 4) ma quel sangue, lungi dal gridare vendetta presso Dio, è il sangue attraverso cui si compie il perdono dei peccati (cfr. 26, 28).  Anche il popolo di Israele, peccatore, chiede che venga riversato su di lui il sangue innocente. Se dal punto di vista del personaggio “popolo” questo indica la piena responsabilità nella condanna di Gesù e dunque la piena manifestazione del peccato, dal punto di vista del lettore, che sa che il sangue di Gesù è versato per il perdono dei peccati, questa affermazione del popolo di Israele viene paradossalmente e ironicamente ribaltata nel suo significato. Non si tratta qui di punire il popolo di Israele, ma di un perdono incondizionato, offerto da Dio attraverso il sangue di Gesù. Al compimento della redenzione si ribalta il senso stesso della giustizia retributiva nella gratuità della redenzione. Qui il superamento della violenza è ormai definitivo e il progetto creativo di Dio si rivela come da sempre orientato al perdono e alla vita. La resurrezione è il sigillo della redenzione ed è una nuova creazione, con le relazioni di sponsalità e fraternità e genitorialità radicalmente rinnovate. L’incontro con Gesù risorto da parte delle donne (28, 8 – 10), la fraternità ritrovata con i discepoli (v. 10), il mandato missionario che renda possibile una nuova generazione di discepoli tra tutti i popoli (v. 16 – 20).

 

 

 

 

Lectio divina XXIX TO Anno C

 

Preghiera su Lc 18, 1 – 8  XXIX T.O. Anno C

Questa parabola di Gesù si inserisce in un contesto che riguarda gli ultimi tempi, prima della fine del mondo (cfr. 17, 22 – 35). Con Gesù il tempo della fine è arrivato, nel senso che “passa la scena di questo mondo” (1 Cor 7, 31), e nonostante l’attesa della storia sembri infinita, in realtà il giorno del Signore (v. 17, 24) arriverà improvviso come un lampo che attraversa il cielo. Quale atteggiamento caratterizza il cristiano nella sua attesa? La preghiera, con insistenza e senza stancarsi (v.  1).  A questo proposito Gesù racconta la parabola del giudice malvagio e della vedova importuna. Il giudice è descritto come uno che “non teme Dio e non si cura degli uomini”, con una definizione che ribalta la sintesi della legge nell’amore di Dio e del prossimo (cfr. Lc 10, 25 – 28) anche alla luce della tradizione profetica riguardante i giudici corrotti in Israele (cfr. Mic 7, 3). La vedova – categoria che, assieme all’orfano e allo straniero, rappresenta i deboli per eccellenza, che devono essere difesi e non maltrattati per legge (cfr. Es 22, 21- 23) –  è presentata come una che “veniva” dal giudice, con un verbo che indica un’azione continua e ripetuta. In effetti per diverso tempo il giudice non volle darle ascolto (v. 4).  Solo l’insistenza della vedova permette alla situazione di sbloccarsi, dal momento che il giudice, pur non agendo per misericordia, le fa giustizia almeno per cavarsela di torno, perché non venga  importunato per sempre (v.  5).  Gesù conclude la parabola con un ragionamento a forziori (cfr. Lc 11, 5 – 13): se il giudice, che è ingiusto, farà giustizia alla vedova, quanto più Dio farà giustizia rapidamente a coloro che gridano verso di lui giorno e notte? Non può esserci paragone tra Dio e un giudice empio: se dunque anche un giudice empio può fare giustizia a chi lo prega, quanto più Dio?  La vedova è qui posta in rapporto con gli eletti (cfr. Is 65, 9) che gridano a Dio giorno e notte: essi sono i fedeli, il popolo di Dio che, messo alla prova dal male e dall’ingiustizia della storia, si abbandona totalmente a Dio e grida come Mosè di fronte alla morte imminente  (cfr. Es 14, 15; 15, 25) o come Israele di fronte all’oppressione dei nemici (cfr. Gdc 6, 6). Non a caso Israele stesso è identificato dai profeti con una vedova sterile, che viene riscattata dal suo sposo, il Signore, e ritorna ad avere figli (Is 49, 21).  Se il tempo della prova, dell’esilio, della persecuzione, dell’ingiustizia sembra essere infinito perché Dio sembra pazientare (v. 7 cfr. Sir 35, 21 – 25), se la storia, con i suoi corsi e ricorsi sembra non uscire mai in modo definitivo dalla spirale del male e dell’oppressione degli innocenti, in realtà la preghiera con insistenza dei fedeli, fa loro sperimentare  il paradosso di una giustizia di Dio che arriva prontamente, anche se in modo spesso misterioso, perché i tempi ultimi del Regno di Dio con Gesù sono definitivamente arrivati.

 

 

Suggerimenti per la preghiera

1. Mi dispongo davanti a Dio in preghiera. Sto in ginocchio o seduto, per entrare in colloquio con il Signore, o meditare su ciò che leggo, a seconda di ciò che voglio.

2. Leggo con attenzione il brano di Vangelo.

3. Chiedo al Signore di poterlo conoscere interiormente come maestro divino, per amarlo e seguirlo sempre più.

4. Vedo le persone che agiscono, osservo come si comportano e si relazionano. Rifletto sull’atteggiamento di perseveranza della vedova. Se la vedova poteva avere fiducia nel giudice empio, se non altro in virtù della propria insistenza, quanta fiducia dovremmo avere noi nel Padre?

5. Medito su cosa dicono i personaggi.  Penso alla storia del mondo, con le sue ingiustizie e il suo male, e considero come nella croce di Gesù tutto il male è stato assunto da Dio e trasformato in un dono d’amore. Con la preghiera entro in questo mistero della redenzione.

6. Sento le parole di Gesù, che mi dice: pregate senza stancarvi. Chiedo al Signore Gesù il dono della perseveranza.

7. Concludo con un Padre Nostro.