Vivere la pace in tempo di guerra

Come si può pensare alla pace in un tempo di guerra?

Spesso ci diciamo che dobbiamo portare la pace nelle nostre relazioni, una pace artigianale, che parte dal basso. Ed è vero, ma il problema della guerra, delle guerre che vanno avanti spietate, in Ucraina come in Israele, continua. E noi siamo presi da un senso di impotenza. E allora?

Se non vogliamo che i nostri gesti di pace quotidiani risultino essere un modo un po’ moralistico per chiudere la questione, per non avvertire un lancinante senso di impotenza, allora dobbiamo scendere più in profondità.

Non basta porre con le nostre azioni pensieri di pace e poi rassegnarci ad un mondo di guerra.

Alla pace dobbiamo credere con tutte le fibre del nostro essere. Come?

Possiamo riconoscere che Dio ha fatto pace nei nostri cuori e solo lui può portarla nel mondo. Il Natale non è la celebrazione di un fatto avvenuto 2000 anni fa, ma il segno di una presenza tutt’ora attiva nel mondo, che si esprime con la potenza dell’amore.

Qual è il Segno? Isaia ce lo profetizza: “un bambino è nato per noi”. Ed egli è il principe della pace.

Luca lo racconta attraverso la testimonianza degli angeli e dei pastori: “un bambino avvolto in fasce e adagiato in una mangiatoia”.

 Come può un semplice bambino custodire in sé tutta questa potenza d’amore in grado di ribaltare la forza distruttiva della guerra? È davvero realistico pensare che, in questi duemila anni dalla sua nascita, sia accaduto un qualche cambiamento nella storia dell’uomo, che ci ha portato a diventare più buoni?

Queste sono le nostre obiezioni al Natale, quelle che risuonano nel nostro cuore, davanti al teatro della guerra. Allora dobbiamo approfondire il nostro ascolto della parola. Il profeta non ci dice affatto che non ci sono delle guerre, anzi ci dice che il popolo cammina nelle tenebre e che le calzature dei soldati marciano rimbombando. La situazione politica al tempo di Isaia è stata ricca di sconvolgimenti politici, invasioni militari, deportazioni, massacri. Anche al tempo in cui è nato Gesù, malgrado la pax romana, la terra di palestina non era affatto tranquilla, con rischi continui di sommosse ed insurrezioni. E allora?

Allora il profeta e l’evangelista ci dicono che la forza di quel bambino ha una potenza d’amore che, proprio passando attraverso tutte le ostilità e le fatiche, è in grado di far germogliare la pace. Questo bambino è un segno che porta con sé un cambio di sguardo sulla storia, capace di vedere l’altra faccia, quella meno conosciuta e raccontata, ma più fondamentale, quella dei segni di vita, di fecondità, di amore, di amicizia che reggono il mondo. Questi segni sono molto più forti di qualsiasi potere distruttivo, perché sono continui e capillari, e sono in grado di rigenerare un tessuto quotidiano relazioni anche dopo anni di ferite.

Certo ci vuole tempo; ci vuole perseveranza, ci vogliono gli occhiali giusti per leggere la vita, occhiali in grado di percepire quella gioia dello Spirito che i pastori provano al vedere il bambino. Non si può giudicare la storia solo con lo spirito della desolazione, dello sconforto, del cinismo, della rassegnazione alla violenza. Bisogna invece leggerla, all’opposto, con lo spirito di Dio, che è in grado di valorizzare la forza inesauribile della vita e dell’amore, proprio lì dove sembra dominare la distruzione.

La forza dello Spirito che si esprime nella vita è in grado di offrire segni di speranza sempre e dovunque, nella nostra vita e nella vita del mondo, e perfino tra israeliani e palestinesi. Volete qualche esempio?

Il 12 ottobre 2023 centinaia di donne palestinesie israeliane si sono radunate a Gerusalemme e sul Mar Morto, nella Cisgiordania occupata, chiedendo la fine dei conflitti israelo-palestinesi.  Vogliamo la pace, hanno cantato le manifestanti, vestite di bianco e con cartelli con la scritta “Smettetela di uccidere i nostri figli”. 

Imad Hamdan, un palestinese proveniente da una famiglia di rifugiati a Gaza, e Dalia, ebrea israeliana. Erano gli anni ’80 e Imad lavorava nei cantieri di Tel Aviv. A Dalia non erano particolarmente simpatici gli arabi, eppure – come in una storia d’amore che si rispetti – una volta conosciuto Imad se ne è innamorato e ha superato con tutte le forze ogni difficoltà, comprese quelle poste dalla sua famiglia d’origine.

Divenne virale, in piena pandemia, la foto di due paramedici, uno musulmano Zoher Abu Jama e l’altro ebreo Avraham Mintz, che pregavano insieme di fronte all’ambulanza su cui lavoravano ogni giorno. Fu allora il simbolo dell’unione di tutti nel raggiungere lo stesso importante obiettivo, nonostante le divergenze culturali e religiose, anche quelle più difficili da accantonare.

Siamo nel 2017 e mentre il conflitto israeliano-palestinese non accenna ad arrestarsi, a Gerusalemme l’infermiera israeliana Ula Ostrowski-Zak compì un enorme gesto di pace e amore tra i più belli allattando al seno il bimbo di una paziente palestinese in coma.

Questa è la forza del bambino, la forza della vita, della tenerezza, dell’amore, più forte di qualsiasi odio e violenza. Lasciamo che questa forza prevalga non solo in noi, ma anche nello sguardo con cui osserviamo il mondo intorno a noi.

Testimoni di luce

La luce è il primo elemento che viene creato da Dio. Anche per la scienza le particelle che costituiscono la luce sono tra le più piccole e misteriose che si conoscano: i fotoni. Si possono addirittura rilevare i primi fotoni emessi dopo il big bang, nella cosiddetta radiazione cosmica di fondo.

Se vogliamo portare la riflessione a livello umano possiamo dire che la luce è diffusa dappertutto e si trova in ogni angolo di umanità: è capace di illuminare anche le zone più oscure, più nascoste, più difficili da penetrare del cuore dell’uomo e della vita sociale. Oltrepassa tutti i confini, anche quelli ecclesiali, perché è lì dove il cuore dell’uomo la lascia entrare, pronta a “bucare” le zone d’ombra per portare la sua vita che proviene dall’origine, da Dio.

Giovanni il Battista è definito dal prologo del vangelo di Giovanni come testimone della luce. Nonostante il suo enorme carisma, egli non ha mai voluto accentrare su di sé il ruolo di Cristo, di messia, di profeta che deve venire negli ultimi tempi, ma ha lasciato per sé il ruolo di colui che prepara il terreno perché la luce possa entrare nel mondo. Egli si è ritagliato il ruolo di testimone della luce. Questo significa che anche l’acqua, con cui battezzava, era un segno primordiale, cosmico, di una vita che viene dall’origine e non da lui. Un segno e uno strumento, in grado di attirare altri, di preparare l’azione della luce, che opera non all’esterno, come l’acqua, ma all’interno, nel cuore.

Anche noi, come Giovanni il Battista, possiamo essere testimoni della luce. Non perché amministriamo dei riti con l’acqua, ma perché sappiamo aiutare gli altri ad aprire il cuore alla luce. Con la nostra parola, il nostro sorriso, la nostra presenza, dentro al buio e alle fatiche che gli altri vivono. Va bene, mi potrete dire voi, ma non siamo noi i primi ad aver bisogno, ad attraversare il buio e le fatiche: e come potremo portare luce agli altri? Proprio così, vi rispondo io, accettando le vostre fatiche e il vostro buio, accogliendo quella luce che è in grado di attraversarli: così essa potrà passare da cuore a cuore, con quell’empatia che non giudica, ma porta dentro le fatica dell’altro, che è simile alla mia.

Lo stile non è quello di colui che dice la strada con autorità, che risolve i problemi: noi siamo come Giovanni il Battista, non possiamo accentrare su di noi senza far danni, senza illudere, senza creare false aspettative, senza intrappolare l’altro in una falsa fiducia. Lo stile del testimoniare richiede il decentramento, che sa cogliere l’azione della luce, indipendente da noi, nel cuore dell’altro. Richiede saper valorizzare le qualità, i doni, i carismi dell’altro, senza intrappolarlo in giudizi senza appello, ma anzi lasciando aperta la porta ad evoluzioni anche inaspettate.

Come genitori c’è spesso un rifiuto della fragilità dei propri figli: forse invece proprio quelle fragilità possono rivelare la pietra preziosa, vanno accolte, accompagnate, perché si rivelino anche i doni e le qualità positive. Saper confidare nei propri figli e stupirsi di loro, accogliendoli come un dono: significa essere testimoni della luce.

Nel lavoro spesso può accadere di intrappolare l’altro in un giudizio, in una mansione, in un contesto che gli impedisce di esprimersi per quello che è, per quello che può dare. Anche qui, con tutta umiltà, possiamo essere testimoni della luce.

Nella vita, in tutte le relazioni, la postura oggi più necessaria per essere testimoni della luce è quella dell’ascolto. Solo chi ascolta con tutto il cuore può ospitare l’altro e far passare la luce. Si tratta di essere amici e di lasciare che lo sposo agisca ed entri per abitare.

Come Giovanni il Battista: l’amico dello sposo.

Portiamo luce, con il sorriso e le parole, in questi giorni e entrerà anche nel nostro cuore la luce di Cristo, di colui che abita in noi con la potenza del Suo amore.

Pregare con il vangelo della domenica

Mc 1,1-8 (II Avv B)

Giovanni il Battista

Il messaggio nel contesto

Il titolo traccia tutto il programma narrativo del Vangelo di Marco, che intende mostrare Gesù come il Cristo, il messia che è Figlio di Dio (v.1). Il Vangelo di Gesù è l’annuncio di Gesù, in senso oggettivo e soggettivo. Si tratta non soltanto di un messaggio orale, ma di una parola kerigmatica, ossia di un annuncio che ha in sè la sua ricompensa, comunicando l’esperienza della fede e donando i santi effetti della consolazione e della gioia (cfr. 1 Cor 9,18: “la mia ricompensa è il Vangelo”).

Poi subito viene inserita una citazione biblica (vv. 2-3) che serve da introduzione alla figura di Giovanni il Battista. In questo modo Marco collega strettamente l’AT con il Vangelo. La tradizione anticotestamentaria si compie senza discontinuità nella narrazione marciana con la presentazione del messaggio di Giovanni Battista (v. 4ss). Il messaggero che prepara la strada diviene ora una voce che grida nel deserto di preparare la strada del Signore. Si tratta sia dell’angelo che conduce il popolo nel deserto dell’Esodo (Es 23,20) sia del messaggero che verrà negli ultimi tempi e sarà identificato con Elia redivivo (cfr. Ml 3,1. 23). Questo messaggero è una voce potente, che risuona con la profezia di Is 40, 3, secondo la quale, dopo la distruzione del tempio ad opera dei babilonesi, il ritorno grazie all’editto del re Ciro è come un nuovo Esodo attraverso il deserto, in cui il popolo ritrova la strada del Signore. Non soltanto la strada geografica di ritorno a Gerusalemme, ma anche la strada interiore, del cuore, per obbedire alla volontà di Dio.

Il compimento di questa profezia è nella voce che chiama alla conversione e prepara il riconoscimento e l’accoglienza del messia. Il Precursore è un testimone autorevole, è l’uomo che Dio, compiendo le Sue promesse, ha scelto per preparare la via al suo messia.

A chi si rivolge questa profezia? Direttamente alle folle, tramite la voce del Battista, indirettamente a noi che leggiamo, che siamo chiamati a fare posto a Gesù nella nostra vita. Lo scopo dell’evangelista Marco è quello di coinvolgere il lettore e di far nascere in lui la fede in Gesù. Il simbolo di questo cambiamento di vita è nel battesimo di conversione, segno esteriore di una purificazione interiore, che conduce al perdono dei peccati. I segni esteriori, come insegna anche l’AT (Gdc 20,26; 2 Re 6,30; 1 Sam 7,6) sono necessari per giungere alla liberazione del cuore dal male e dal peccato.

Giovanni il Battista ha l’abbigliamento tipico dei profeti (v. 6 cfr. Zc 13,4) e di Elia (2Re 1,8) e si ciba di locuste e miele selvatico, cibo permesso dalla legge e simbolicamente correlato alla terra promessa (cfr. miele in Es 3,8). Tante folle accorrono continuamente a lui, come sottolineato dal verbo al tempo imperfetto (v. 5). L’intento dell’evangelista è quello di rappresentare il Battista come il profeta Elia (Mi 3,23; Sir 48,10-11).

Marco riporta nei due versetti successivi (vv. 7-8) le parole dirette del Battista che chiarisce la sua identità in rapporto al messia. Egli è il più forte, secondo un’indicazione propria della tradizione biblica a riguardo di Dio stesso (cfr. Dt 10,17; Ger 32,18) e, in rapporto a lui, il Battista si paragona al servo che ha il compito di togliere i sandali del padrone. È possibile che dietro a questo riferimento ai sandali del messia si nasconda la tradizione del levirato, secondo la quale se un uomo si rifiuta di sposare la moglie del suo fratello defunto, per dare discendenza al fratello, egli deve essere scalzato davanti alla porta della città. In tal senso Giovanni non può scalzare lo sposo, non può togliergli il diritto di riscattare la vedova, Israele/Gerusalemme, secondo la profezia di Isaia (Is 54,4-5).  Il messia infatti è l’unico in grado di battezzare nello Spirito Santo ossia di salvare totalmente l’uomo e di integrarlo nella dimensione di Dio. Egli dona lo Spirito Santo, che è l’amore di Dio sposo. Al v. 8 c’è un ulteriore paragone tra Giovanni Battista e Gesù che ne sottolinea la disparità, indicando la differenza tra i rispettivi battesimi. Il battesimo di Giovanni non è che una preparazione a quello di Gesù che realizzerà una profonda trasformazione, attraverso la potenza di Dio. Il testo parallelo nell’AT più vicino a questo versetto è Ez 36,25-26, dove leggiamo che Dio rinnoverà il suo popolo purificandolo con l’acqua e infondendo uno spirito nuovo.

  • Qual è il tempo in cui avviene la predicazione del Battista? 

Il tempo non è precisato, se non come il tempo del compimento della Scrittura del profeta Isaia. La Parola si compie nella storia, al tempo stabilito da Dio. Ma si tratta anche del tempo della nostra vita, di noi che leggiamo il vangelo che è per noi come la parola del Battista. Anche a noi risuona la voce del Battista e nella nostra vita si compiono le antiche promesse.La lettura del Vangelo è per me luogo di autentica conversione del cuore?

  • Quale luogo?

Il deserto, luogo della voce che grida, e della preparazione delle vie del Signore è il contesto simbolico e spaziale in cui il Battista opera. Esso richiama l’Esodo di Israele, il suo ritorno dall’esilio babilonese, e il cammino di conversione di ciascuno di noi nella sua vita. Il deserto è un richiamo alle grandi opere compiute da Dio a favore del suo popolo e dell’Alleanza sul Sinai (Es 19,24; Ger 2,2-3) ma è anche luogo di tentazione e della ribellione di Israele (Es 16; Num 11). Ci si può interrogare su qual è il deserto che Dio mi sta facendo ora attraversare, tempo di prova e di incontro con lui e quali sono le tentazioni che mi frenano nel seguire la via che Gesù ha indicato.

  • Il personaggio di Giovanni il Battista

Egli è la voce che grida e chiama alla conversione il popolo, nell’attesa del messia.  Veste come un profeta dell’Antico Testamento, e la sua predicazione richiama e riassume tutta la predicazione profetica. Egli pratica anche un battesimo, segno esteriore di conversione. Anche nella nostra vita abbiamo bisogno di segni esteriori di conversione. Quali rinunce, quali cambiamenti possono esemplificare e concretizzare la mia ricerca di Dio.

  • Quale rivelazione è contenuta qui?

Il Battista non è il Cristo, il messia, ma l’Elia degli ultimi tempi che prepara la strada al più forte. Egli non è lo sposo che si unisce all’umanità sposa ma colui che favorisce tale unione, con la parola e i segni e intercede con la sua preghiera. Anche nella mia vita c’è l’attesa di una festa matrimoniale, di un incontro pieno e perfetto con Dio.

Passi per la preghiera personale

  • Leggo il brano del Vangelo, almeno due volte, con attenzione, per farlo entrare nella mia memoria
  • Entro nel contesto del racconto, nel suo spazio e tempo particolari: siamo nel deserto, vicino al fiume giordano, vediamo tanta gente accorrere da Giovanni il Battista
  • Chiedo una grazia, ad esempio quella di sentire il percorso di purificazione e guarigione che si sta compiendo in me
  • Vedo Giovanni Battista e le folle che vengono da lui, confessando i loro peccati. Mi metto in fila con i peccatori, ricavo un frutto.
  • Sento cosa dice Giovanni Battista: l’attesa di colui che è più forte, al quale non è degno di sciogliere il legaccio dei sandali. Ricavo un frutto.
  • Cerco di raccogliere tutto ciò che ho contemplato, a partire da ciò che provo in me: come mi ha toccato quello che comprendo? Quale sentimento mi suscita?
  • Dialogo con Gesù e con il Padre, lasciandomi trasportare, nel chiedere, nel ringraziare, nel lodare, nel contemplare, a seconda di ciò che sento.
  • Concludo la preghiera con un padre nostro


Pregare con il vangelo della Domenica

Mc 13, 33-37 (I Avv B)

Il ritorno di Gesù

Il testo del Vangelo di Marco che la liturgia ritaglia per la prima domenica di Avvento è la conclusione del discorso apocalittico di Gesù, ambientato sul monte degli Ulivi, da cui si può godere una splendida vista del tempio e della città di Gerusalemme. Due domande dei discepoli, sul tempo della distruzione del tempio, e sui segni che permettono di prevedere il compimento degli eventi, introducono il discorso di Gesù (vv. 13,1-4). Siamo dunque nell’imminenza della passione, morte e resurrezione di Gesù, della sua partenza, e questo contesto narrativo motiva la predizione della distruzione e i consigli di Gesù ai suoi discepoli. Infatti quando viene eliminato il profeta che è chiamato ad intercedere per il popolo e la città, non può che seguirne la distruzione, come era già accaduto con i profeti dell’AT, per esempio Geremia.  Inoltre la “partenza” di Gesù rende necessaria un’istruzione da parte sua ai discepoli, per comprendere il tempo che vivranno, nell’attesa del suo ritorno definitivo: le parole della liturgia di oggi concludono questa istruzione narrando, nel contesto di una esortazione alla vigilanza, la parabola di un padrone in partenza che lascia la sua casa ai suoi servi, ciascuno con il suo compito. È evidente che il padrone di casa è Gesù che parte da questo mondo e i servi sono i discepoli, chiamati ad amministrare la casa, che non è il tempio di Gerusalemme, ma il Regno di Dio, rivelato loro da Gesù (cf. Mc 4,11-12) e la Chiesa che ne è il primo umile seme. Questa esortazione alla vigilanza è introdotta da un imperativo: “badate, state attenti”(cfr. Mc 13,5.9.23), che scandisce tutto il discorso apocalittico, come invito pressante. Esso è seguito da un ulteriore imperativo “vegliate” (agrypneo, lett:perdere sonno), che si trova anche nell’AT, per indicare una “vigilanza spirituale” (cf. Pr 8,34), intesa come obbedienza alla volontà di Dio. La motivazione di questa vigilanza continua è l’ignoranza del “kairòs”, del tempo caratterizzato dalla venuta del Figlio dell’uomo (cf. 1,15). Questa introduzione esortativa è ripresa esattamente dalla parabola, che si conclude con l’esortazione a vegliare, rivolta ai discepoli, che sono così identificati con i servi, dal momento che non conoscono il ritorno del padrone di casa. Al v. 35 l’imperativo “vegliate” utilizza un verbo diverso dal precedente (gregorèo) che è usato per esortare alla fedeltà attiva e vigile (cfr. 1Ts 5,6.10), contrapposta al sonno dell’inattività e della rinuncia. Gesù dunque, si rifiuta di rispondere alla domanda sul “quando”, perché vuole che i discepoli vivano con tutto se stessi il tempo loro affidato, nell’attesa del suo ritorno. 

  •  Tempo e luogo Siamo ancora sul monte degli ulivi, dove Gesù pronuncia il suo discorso sugli ultimi tempi, alla luce della profezia della distruzione del tempio. Questa parabola è inserita in questo contesto escatologico e va letta in controluce con l’evento imminente della passione, morte e resurrezione di Gesù a Gerusalemme.
  • Chi dunque rappresentano i personaggi della parabola?Il padrone rappresenta Gesù e i servi sono i discepoli. In particolare il portiere, che ha il compito di vegliare durante la notte, impersona la necessità di un tenere gli occhi aperti, di una vigilanza permanente, che ha un risvolto spirituale. Si tratta di una conformità, ricercata nei pensieri e nelle azioni, alla volontà di Dio nella propria vita, nell’attesa del ritorno di Gesù. Il padrone ha lasciato la sua autorità ai servi nel senso che ha lasciato ai suoi discepoli il dono dello Spirito Santo. E proprio per il fatto che ognuno ha il suo compito significa che lo Spirito è uno ma le sue funzioni sono molteplici. La vita e l’amore chiedono di essere accolti per poi essere riformulati da ognuno di noi in modo nuovo e originale.
  • Quale rivelazione è contenuta qui? Il mistero del padrone di cui non si conosce l’ora del ritorno è il mistero stesso di Cristo e della storia, che si concluderà con il suo ritorno. Ma è anche il mistero della nostra vita, che è proiettata all’incontro personale con Gesù risorto, che avverrà con modalità e tempi impredicibili da parte nostra.

Passi per la preghiera personale

  • Leggo il brano del Vangelo, almeno due volte, con attenzione, per farlo entrare nella mia memoria
  • Entro nel contesto del racconto, nel suo spazio e tempo particolari: Gesù è sul monte degli ulivi, davanti al Tempio di Gerusalemme e il suo tempo sta per compiersi
  • Chiedo una grazia, ad esempio quella di conoscere il Suo amore per me e come Egli desidera che la mia vita fiorisca
  • Comprendo ciò che la parabola intende dire e ricavo qualche spunto di riflessione
  • Medito su ciò che la parabola significa per me, per la mia vita
  • Cerco di raccogliere tutto ciò che ho meditato, a partire da ciò che provo in me: come mi ha toccato quello che comprendo? Quale sentimento mi suscita?
  • Dialogo con Gesù e con il Padre, lasciandomi trasportare, nel chiedere, nel ringraziare, nel lodare, nel contemplare, a seconda di ciò che sento.
  • Concludo la preghiera con

Pregare con il vangelo della Domenica

Mt 25,31-46 (XXXIV TO Cristo Re dell’universo)

Il giudizio universale

Il messaggio nel contesto

Nei versetti introduttivi (31-32a) si descrive la scena della venuta finale del figlio dell’uomo, accompagnato dagli angeli (cf. 13,39.41.49; 16,27) seduto sul trono della sua gloria (cf. 19,27). Ormai il Vangelo è stato annunciato in tutto il mondo, e quindi è giunta la fine (cf. 24,14) e tutti i popoli e le nazioni del mondo sono radunati insieme attorno al giudice universale (cf. Dan 7,9-10). La divisione immediata, ancor prima del giudizio, in pecore e capretti, le prime alla destra e i secondi alla sinistra del giudice-pastore, indica la sua sovranità. Egli ha in mano la sentenza ancor prima di aver sentito i testimoni, perché il tribunale è stata la storia dell’umanità. Non a caso egli è definito re (v. 34). Egli emette subito la sua sentenza, iniziando dalle pecore, definite “benedetti dal Padre mio”. Essi sono in un certo senso predestinati alla benedizione e alla salvezza fin dalla fondazione del mondo, ma essa non si attua se non attraverso delle “opere d’amore” che costoro hanno compiuto verso persone bisognose. L’elenco procede per coppie: fame-sete; forestiero-nudo; ammalato-in carcere, come suggerisce la ripetizione della domanda da parte degli interlocutori (vv. 37-39).  Ciò che risulta rilevante per l’interpretazione della parabola è la loro inconsapevolezza di trovarsi davanti al giudice universale, quando hanno compiuto un atto d’amore verso il prossimo: in tal modo essi non hanno potuto “calcolare” la ricompensa. La sorpresa che questo causa in loro e nel lettore ha anche un effetto di rivelazione: Gesù si identifica con i fratellini più piccoli e bisognosi. Si tratta anzitutto di membri della comunità, che si definiscono fratelli e che fanno la volontà del Padre (12,49; 28,10), come missionari poveri (10,9), dipendenti dall’altrui ospitalità (10,11-15), che portano Cristo stesso a chi li accoglie (cf. 10,40). Come loro e con loro Cristo stesso è inviato, come forestiero senza patria (8,20), affamato (21,18) e incarcerato (cf. 26,57). In loro si può però vedere anche la sofferenza di ogni uomo, senza distinzioni, in una prospettiva universale.

Nella seconda parte (41-45) la simmetria non è totale: non si parla di “maledetti dal Padre mio” né si usa l’espressione “fin dalla fondazione del mondo”. In altri termini esiste una sola predestinazione, quella per la salvezza. Al v. 44 tutte le opere di amore sono riassunte dal verbo “servire”. Essi avrebbero dovuto comportarsi come lo stesso figlio dell’uomo, che “non è venuto per farsi servire ma per servire e dare la sua vita per molti” (20,28).

  •  Qual è il contesto geografico e narrativo dove avviene il discorso di Gesù e come è ambientata la parabola?

Siamo sul monte degli Ulivi, nell’ultimo discorso di Gesù prima della sua morte. Egli fa riferimento al giudizio universale, alla fine dei tempi, per istruire i suoi discepoli prima della sua partenza e ricordare loro che ci sarà un tempo in cui egli ritornerà. Proprio per questo la cornice della parabola ha un tenore escatologico. Si parla del giudizio definitivo da parte del “figlio dell’uomo”, dipinto con i tratti del pastore e del re celeste, accompagnato dai suoi angeli. 

  • Chi dunque rappresentano i popoli e i fratelli più piccoli?

Tutti i popoli convocati al tribunale del re non rappresentano i pagani contrapposti agli ebrei o ai cristiani, ma tutto l’insieme degli uomini di tutti i tempi, che ormai hanno potuto conoscere il Vangelo del Regno. La divisione tra di loro non è etnica ma spirituale, e si basa sulla loro risposta d’amore. “Questi miei fratelli più piccoli” sono in primo luogo gli stessi membri della comunità cristiana, povera e perseguitata. In senso più ampio essi rappresentano ogni uomo che soffre.

  • Quale rivelazione è contenuta in questo dialogo? Gesù si identifica nei più piccoli ed insignificanti fratelli e ogni opera d’amore fatta a loro è in realtà fatta a lui. Questa “scoperta” è inaspettata: infatti il bene fatto dalle persone non è stato “calcolato” da loro, in ordine ad una “ricompensa”. Inoltre tutti gli uomini sono fin dalla fondazione del mondo benedetti, ma tale benedizione può non compiersi e trasformarsi in maledizione, nella misura in cui ad essa non corrisponde un comportamento conseguente. Dove trovo Cristo nella mia vita? Di quali ricompensa e gratificazione sono in cerca?Quali occasioni mancate per vivere il Vangelo dell’amore come la mia più grande ricompensa?
  • Leggo il brano del Vangelo, almeno due volte, con attenzione, per farlo entrare nella mia memoria
  • Entro nel contesto del racconto, nel suo spazio e tempo particolari: Gesù è sulla strada per Gerusalemme e il suo tempo sta per compiersi
  • Chiedo una grazia, ad esempio quella di conoscere il Suo amore per me e come Egli desidera che la mia vita fiorisca
  • Comprendo ciò che la parabola intende dire e ricavo qualche spunto di riflessione
  • Medito su ciò che la parabola significa per me, per la mia vita
  • Cerco di raccogliere tutto ciò che ho meditato, a partire da ciò che provo in me: come mi ha toccato quello che comprendo? Quale sentimento mi suscita?
  • Dialogo con Gesù e con il Padre, lasciandomi trasportare, nel chiedere, nel ringraziare, nel lodare, nel contemplare, a seconda di ciò che sento.
  • Concludo la preghiera con un Padre Nostro e saluto il Signore con un gesto di riverenza.

Il fuso e la conocchia, una sapienza al femminile (Omelia XXXIII TO Anno A)

Non so se sapete com’è fatto un fuso e una conocchia. Si usavano una volta per sbrogliare la matassa della lana e farla diventare un filo. Il fuso è un bastoncino piccolo che può essere tra le dita della mano destra, per tenerlo dritto senza premere (a proposito il proverbio non dice dritto come un fuso?): tutto questo perché ruotando attorno a se stesso il fuso possa avvolgere il filo intorno a se. La conocchia è un bastone più grande, che viene messo sotto l’ascella e retto con la mano sinistra e regge tutta la matassa della lana. In questo modo la donna sapiente può filare, ossia trasformare la lana in una filo adatto a cucire qualsiasi vestito per l’uomo. Ella stende la sua mano alla conocchia e tiene il fuso tra le sue dita, come dice il libro dei proverbi. Con le stesse mani così abili nel lavoro minuzioso, la donna sapiente dona anche del denaro ai poveri, non lasciando nessuno a mani vuote.

Questa metafora delle mani femminili, che lavorano sapientemente e donano, diventano simbolo della sapienza stessa di Dio, che si cura dell’uomo fin nei più piccoli dettagli: una sapienza che appartiene certamente a Dio ma diviene anche qualità essenziale della donna e dell’uomo e della sua quotidiana esistenza.

Vorrei quindi leggere alla luce di questa comparazione della sapienza di Dio e dell’uomo come una sapienza femminile, piena di cura, abilità manuale, attenzione al dettaglio, anche la parabola dei talenti.

Qual è il problema del servo detto malvagio e pigro? Non è tanto la semplice pigrizia, ma la malvagità che consiste nel pensare che il talento datogli dal padrone sia qualcosa che rimane suo. Lui lo rifiuta impaurito, perché quel denaro, secondo lui, appartiene ad un padrone duro ed inflessibile, che pretende dagli altri ciò che lui non fa. Ha un’immagine del tutto distorta del padrone, che invece si rivela nella sua verità quando parla agli altri servi, lodandoli ed invitandoli ad “entrare nella gioia del suo padrone”. Cioè questo padrone, che è Dio, quando dona qualcosa, un talento, non intende imporre nulla, ma solo far entrare profondamente l’uomo in una gioia, in una comunione più piena e più grande, che è la sua sapienza e il suo amore, al punto che non si può più separare una qualità dell’uomo, la sua sapienza, da una qualità di Dio.

Allora non dobbiamo scandalizzarci se il padrone si comporta in modo duro nei confronti del servo. Non può parlargli diversamente, perché utilizza proprio quell’immagine che il servo si è fatta di lui per fargli capire che, se non per amore, almeno per timore, avrebbe dovuto comportarsi diversamente, cioè far fruttificare i talenti.

Vorrei allora citare l’esempio di una donna, Maria Montessori, per capire come i talenti vanno spesi senza paura. Contro la volontà del padre contro tutta la società del tempo, questa donna alla fine del 1800, fu la prima donna ad iniziare e concludere il percorso di studi in medicina. Non solo: applico le conoscenze scientifiche e pedagogiche che aveva maturato per rivoluzionare il modo di insegnare ai bambini nelle scuole, formando un metodo che è passato alla storia come “metodo montessori” e che è in grado di far maturare l’intelligenza e la creatività dei bamibini dall’esperienza concreta, anche manuale. La sua intelligenza straordinaria, che le permise di precorrere i tempi, era una forma di sapienza, come quella della donna saggia del libro dei proverbi. La sua applicazione concreta non era frutto di una mentalità dura e inflessibile, ma di un amore che diviene cura e attenzione ai dettagli, per i più piccoli.

Dio non ci vuole perfetti e sempre vincitori. Non gli interessa nulla delle nostre vittorie. Gli interessa solo che possiamo entrare nella gioia del suo amore, trafficando con cura lieta tutti i suoi doni.

Pregare con il vangelo della Domenica

Mt 25,14-30 (XXXIII TO)

La parabola dei talenti

Il messaggio nel contesto

Questa parabola è suddivisa in tre parti: partenza del padrone e affidamento dei talenti ai tre servi (14-15); atteggiamento dei tre servi, i primi due analoghi, il terzo differente (16-18); ritorno del padrone e resa dei conti (19-30). La porzione maggiore di testo è assegnata al dialogo finale tra il padrone e il terzo servo e corrisponde al differente criterio usato da quest’ultimo nell’utilizzo dei beni affidatigli.

Tutta la tensione drammatica della parabola si concentra su questo punto: visto il diverso comportamento che assume il terzo servo sotterrando il suo talento, quale sarà la reazione del padrone? Nel dialogo il servo stesso contribuisce a mettersi nei guai, chiarendo la sua prospettiva, che è quella della paura nei confronti di un padrone definito “duro”, che “miete dove non ha seminato e raccoglie dove non ha sparso” (v. 26). Proprio il timore di un padrone così avrebbe potuto costituire una motivazione adeguata per agire come i primi due servi, cioè far fruttificare il talento ricevuto con gli interessi: ma egli non se ne è assunta la responsabilità, perché è un servo pauroso (non pigro!) e malvagio. Egli infatti misura il volto del padrone a partire da sé stesso, proiettando su di lui un atteggiamento egoista e sfruttatore. Non avendo compreso che il padrone vuole la gioia del suo servo e considera il talento affidato come una modalità di vivere con il proprio servo una comunione intima e amorosa, egli si autocondanna a sperimentare su di sé quella stessa immagine del padrone che si è costruita di lui: un uomo duro che non perdona. Ma questa durezza è solo la conseguenza di una comunione rifiutata dall’uomo che ha restituito il talento al padrone dicendogli “eccoti il tuo!”: non volenda avere nulla a che fare con questo padrone, per paura di lui, a partire da un’immagine falsata, da un pregiudizio, questo servo si taglia fuori da solo dalla possibilità di scoprire un volto diverso del padrone, un volto d’amore, di dono, di gioia. Egli impedisce al suo padrone di accoglierglo dicendogli “entra nella gioia del tuo padrone”.  In questa frase che il padrone pronuncia nei confronti dei servi buoni, saltano i confini relazionali propri di un rapporto di lavor, e si entra in un contesto di intimità e condivisione che guida il lettore ad interpretare correttamente questa parabola. Gesù non vuole dire solo che è importante far fruttificare i doni naturali con l’impegno che ciascuno deve mettere: sarebbe ridurre a moralismo la portata rivoluzionaria di questo messaggio di Gesù. Molto più si tratta di partecipare attivamente, con gioia e con libertà, al mistero del Suo Regno, che si manifesta con la “violenza” di un amore totale, capace di donarsi gratuitamente ad amici e nemici.  Si tratta di vivere con creatività, responsabilità e libertà il dono di una vita che vuole moltiplicare tutto il bene che c’è in essa, tutto l’amore che è consegnato non per rimanere rinchiuso, ma per diffondersi in modo esponenziale.

Ancor più profondamente di tratta di vivere l’attesa del ritorno finale del Signore, che è il Cristo, con fedeltà (cfr. v. 23), ossia con un atteggiamento coerente con i doni ricevuti, in primo luogo il dono della fede e della conoscenza del mistero del Regno dei cieli (cfr. 11,25-27), in secondo luogo con i carismi ed incarichi conseguenti (cfr. 24, 45-46) nella misura della capacità di ciascuno (v. 15). Si tratta quindi di portar frutto (7,15-20), con la luce delle buone opere (cfr. 5,13-16).

 È dunque chiaro come la punizione e la ricompensa siano moltiplicati perché il contesto è ormai quello definitivo, escatologico: una vita titubante e chiusa in sé stessa non è conforme al Regno dei cieli.

  • Qual è il contesto geografico e narrativo dove avviene il discorso di Gesù? Siamo ancora sul monte degli ulivi, dove Gesù ha pronunciato il suo discorso sugli ultimi tempi. Questa parabola è inserita in questo contesto escatologico e va letta in controluce con l’evento imminente della passione, morte e resurrezione di Gesù a Gerusalemme. Egli è il Signore che sta per partire per un viaggio e lascia ai suoi discepoli i talenti della fede e della conoscenza dei misteri del Regno.
  • Chi dunque rappresentano i personaggi della parabola e come si evolve la trama? Il padrone rappresenta Gesù e i servi sono i discepoli. La trama si evolve lasciando in sospeso e per ultima la reazione del padrone nei confronti del terzo servo. Nel comportamento servo e nelle parole del padrone si concentra il culmine rivelativo della parabola.
  • Quale rivelazione è contenuta in questo dialogo? Il servo non solo non conosce il suo padrone, definendolo un uomo “duro”. Forse può essere duro un uomo che consente ai suoi servi di condividere la sua gioia, come nei precedenti due casi? Dietro al volto di questo padrone si nasconde il volto di Cristo stesso, che rivela l’amore gratuito del Padre. Tuttavia il servo avrebbe potuto agire, anche sulla base del suo timore, in modo corretto. Invece la durezza del suo padrone diviene solo un pretesto per opporsi al padrone, con un misto di paura e rifiuto. Egli si autocondanna ad escludersi dalla gioia di Cristo, perché ne ha paura e lo rifiuta.
  • Mi accade spesso di avere paura di Dio o di ribellarmi a lui, perché non lo considero mio alleato, ma piuttosto un padrone “duro”?
  • Quali tentazioni mi accadono nelle difficoltà? Ho spesso la tentazione di mollare tutto?
  •  Mi fido che i doni che Lui mi ha dato, naturali e sovrannaturali, sono commisurati alle mie capacità per compiere la mia vocazione?

Passi per la preghiera personale

  1. Leggo il brano del Vangelo, almeno due volte, con attenzione, per farlo entrare nella mia memoria
  2. Entro nel contesto del racconto, nel suo spazio e tempo particolari: Gesù è sulla strada per Gerusalemme e il suo tempo sta per compiersi
  3. Chiedo una grazia, ad esempio quella di conoscere il Suo amore per me e come Egli desidera che la mia vita fiorisca
  4. Comprendo ciò che la parabola intende dire e ricavo qualche spunto di riflessione
  5. Medito su ciò che la parabola significa per me, per la mia vita
  6. Cerco di raccogliere tutto ciò che ho meditato, a partire da ciò che provo in me: come mi ha toccato quello che comprendo? Quale sentimento mi suscita?
  7. Dialogo con Gesù e con il Padre, lasciandomi trasportare, nel chiedere, nel ringraziare, nel lodare, nel contemplare, a seconda di ciò che sento.
  8. Concludo la preghiera con un Padre Nostro e saluto il Signore con un gesto di riverenza.

Dio non è la maschera dell’IO

La parabola delle dieci vergini mi infastidisce, perché tocca in me delle corde profonde. Chi sarebbe quel Dio che impedisce ad alcuni di entrare nel suo Regno, che non apre più la porta? A me sembrerebbe un Dio duro, che fissa delle regole inesorabili e non accetta ritardi. E poi ancora mi disturba il fatto che le cinque vergini non cedano un po’ del loro olio. Perché? Perché non potevano almeno fare un tentativo per aiutare le altre? A me sembrano troppo comprese di un loro senso di superiorità e di autosufficienza nei confronti delle altre, delle vergini stolte. Infine ancora le 10 vergini sono in cammino, escono incontro allo sposo e poi, mentre si avviano, si addormentano…cosa significa? Sono forse tornate indietro, a letto? Si sono addormentate sull’uscio di casa o per strada? La parabola è raccontata da Gesù proprio per aiutarci a mettere in discussione delle immagini un po’ scontate e banali di Dio.

Proviamo a partire proprio da quest’ultimo paradosso: le vergini sono in cammino eppure dormono. Questo significa che il sonno è una metafora, che va interpretata. Esso indica che mentre viviamo, mentre camminiamo avanti, non possiamo mai essere perfettamente consapevoli di ciò che accade in profondità nella nostra vita, di come il tempo ci scolpisca dentro e ci trasformi, senza che ce ne accorgiamo: il tempo è una variabile che non possiamo controllare, fermare, rallentare, accelerare a nostro piacimento. Noi non sappiamo né il giorno, né l’ora, dice Gesù. Ma non si tratta di una minaccia, piuttosto è una constatazione. In questa situazione infatti per Gesù il nostro rischio più grande è quello di esorcizzare la nostra incapacità di controllo attraverso una fitta agenda di obiettivi e di impegni. Sì, proprio quell’agenda, se cessa di essere uno strumento di programmazione e diventa un po’ il fine della nostra giornata, così siamo sereni se abbiamo “spuntato” tutti i nostri appuntamenti ed impegni, siamo stati bravi, abbiamo ottenuto l’approvazione altrui…beh proprio quell’agenda ci impedisce di “gustare” e di “godere” quel “di più” di sorpresa, di inaspettato, di nuovo, che la vita può riservare come dono.

Si, quando abbiamo fretta, siamo ansiosi, siamo tutti proiettati sul raggiungimento di chissà quali obiettivi, ci perdiamo il meglio, il di più che scaturisce dal nostro cuore, quando incontra l’altro.

 È stato fatto un esperimento psicologico in cui un gruppo di persone aveva un obiettivo da raggiungere e doveva elaborare un progetto e portarlo da un punto all’altro della città, entro un dato tempo. Lungo il tragitto gli psicologi hanno messo un uomo che fingeva di manifestare un evidente difficoltà di salute respiratoria, e che era accasciato a terra. Bene, gli individui più performanti, più ansiosamente protesi al raggiungimento del loro obiettivo non si sono nemmeno accorti dell’uomo. Altri si sono accorti ma hanno trascurato di assistere, perché presi dall’ansia di concludere il loro lavoro. Altri ancora, infine, ma sono una minoranza, hanno accettato di perdere tempo per aiutare la persona. Senza giudizi di carattere morale, da questo esperimento si può concludere quanto la disponibilità a provare empatia verso una persona, ad interessarsi di lui o di lei, ad incontrare veramente l’altro con la sua vita dipenda anche da una vita meno ansiosa.

In fondo questa disponibilità a guardare più in alto della nostra agenda, ad accogliere l’incontro inaspettato, a perdere tempo con un bel paesaggio o con un amico che incontriamo o con una persona che ci chiede qualcosa, è proprio l’olio della lampada che caratterizza e distingue le vergini sagge da quelle stolte.  L’olio è il senso profondo del nostro essere, il significato più ampio della vita, l’orizzonte più reale e vero della mia esistenza concreta, quell’amore in cui sono immerso e che mi orienta radicalmente, oltre me stesso, verso la realtà. Quell’amore che mi fa incontrare l’altro, mi fa rendere conto di lui, della sua vita, della sua presenza, mi fa entrare in empatia con lui.

Fino all’ultimo imprevisto incontro, quello che corrisponde al più profondo desiderio della nostra vita, l’incontro con lo sposo, quando finalmente conosceremo un Dio che non ci chiede di fare nulla o di raggiungere qualche obiettivo, ma ci dona tutto, ossia l’amore e la vita. Così scopriamo la vera immagini di Dio e possiamo scegliere se vivere così, orientati a questo amore, oppure se difenderci e controllare tutto, in nome di un Dio che ci fa paura e che corrisponde alla maschera del nostro io.

A noi sta la scelta ed è per questo motivo che l’olio non si può cedere, perché è il frutto di una scelta interiore e personale: vivere per amore o vivere per se stessi.

pregare con il vangelo della domenica

Mt 25,1-13 (XXXII TO)

La parabola delle dieci vergini

Due domande colgono il lettore moderno davanti ad una parabola come questa: perché lo sposo si fa tanto aspettare, che le vergini si addormentano tutte nell’attesa? E poi, perché le vergini sagge non possono dare un po’ del loro olio a quelle stolte?

Il significato della parabola sta nell’incrocio di queste due domande: la prima ci spinge a comprendere meglio il tema del tempo e della relazione con il mistero, mentre la seconda ha a che fare con la responsabilità personale. In effetti, tempo e responsabilità sono connessi.

La vita è, come ben sappiamo per esperienza, caratterizzata dallo scorrere del tempo, di cui ci rendiamo conto solo in momenti improvvisi, barlumi di coscienza che ci fanno comprendere quanta acqua è passata da un’esperienza che emerge al nostro ricordo. Ordinariamente, però, siamo tutti immersi nei nostri affari e problemi, tanto da non avere consapevolezza dello scorrere del tempo: questo è il sonno delle vergini. Esse certamente attendono l’arrivo dello sposo, l’incontro con il mistero di Dio nella loro vita, ma ordinariamente sono prese da tante cose più urgenti, mentre il tempo passa. Inoltre l’arrivo dello sposo è avvolto nel mistero della mezzanotte, cioè in un tempo che è sepolto nel buio della notte e non può assolutamente essere né previsto, né controllato. Ancora una volta il tempo è protagonista, nel senso che sia il suo scorrere (chronos) sia il suo giungere a compimento (kairos) sfuggono totalmente al controllo dell’uomo e obbediscono ad un disegno più profondo, che l’uomo può solo accogliere come dono o come condanna.

La differenza tra il dono e la condanna sta tutta lì, nell’olio della lampada, che non può essere ceduto, perché esso rappresenta la libertà della persona, la sua scelta di fondo: orientarsi ad un amore che lo spinge fuori di sé oppure chiudersi ad esso. Nel primo caso in tutto ciò che si fa, anche senza avere piena coscienza, in ogni momento, delle implicazioni di ogni azione e del fine ultimo della vita, questo amore è in grado di trasformare, purificare, orientare l’intenzione verso la pienezza, verso l’incontro con l’Amore, verso lo sposo che sta per arrivare. Questo è l’olio che rende possibile alla lampada di illuminare la strada davanti a sé, quanto basta per proseguire a camminare, passo dopo passo. Nel secondo caso invece ogni intenzione si chiude in sé stessa e non è in grado di andare oltre ad un orizzonte ristretto, che alla fine passa e non mantiene le sue promesse. La porta della vita non si apre se la riduce continuamente ad un orizzonte transeunte. Ma basta solo un poco d’olio, solo un pizzico d’amore, dato e ricevuto con una libera scelta, che quella porta è in grado di nuovo di aprirsi e di far entrare la vita. Solo che questa scelta è personale e non si può delegare.

  • Qual è il contesto geografico e narrativo dove avviene il discorso di Gesù? La parabola viene raccontata da Gesù nell’imminenza della sua passione, morte e resurrezione. Sta per giungere il compimento del tempo e i suoi discepoli sono chiamati a vivere nella vigilanza interiore, per accogliere la partenza del maestro e il suo ritorno misterioso nella loro vita.
  • Chi sono i personaggi e cosa dicono? Le dieci vergini, cinque sagge e cinque stolte e lo sposo. Le stolte chiedono olio alle sagge ma queste ultime rifiutano. C’è una scelta personale, che coinvolge l’attesa dello sposo, e che come tale non può essere delegata.
  • Cosa fanno i personaggi? Le vergini dormono. Ci si può chiedere se il sonno se colga mentre sono uscite ad aspettare lo sposo. Proprio qui sta il senso della parabola, nel senso di questa attesa in uscita. Le sagge prendono l’olio in piccoli vasi. Non si tratta di eroismo straordinario, ma di un’apertura alla vita e all’amore nella concretezza del quotidiano.
  • Quale rivelazione in gioco L’amore è un dono imprevedibile: a noi spetta solo rispondere in modo personale.ù

    Preghiera personale
  • Leggo il brano del Vangelo, almeno due volte, con attenzione, per farlo entrare nella mia memoria
  • Entro nel contesto del racconto, nel suo spazio e tempo particolari: Gesù è sulla strada per Gerusalemme e il suo tempo sta per compiersi
  • Chiedo una grazia, ad esempio quella di conoscere il Suo amore per me e come Egli desidera che la mia vita fiorisca
  • Comprendo ciò che la parabola intende dire e ricavo qualche spunto di riflessione
  • Medito su ciò che la parabola significa per me, per la mia vita
  • Cerco di raccogliere tutto ciò che ho meditato, a partire da ciò che provo in me: come mi ha toccato quello che comprendo? Quale sentimento mi suscita?
  • Dialogo con Gesù e con il Padre, lasciandomi trasportare, nel chiedere, nel ringraziare, nel lodare, nel contemplare, a seconda di ciò che sento.
  • Concludo la preghiera con un Padre Nostro e saluto il Signore con un gesto di riverenza.

La roccia con le fenditure

Chi sono i santi? Pochi uomini e donne eccezionali, che avevano tanta volontà? Donne e uomini molto particolari, baciati dalla grazia di Dio, che hanno fatto cose speciali, senza molta fatica?

Tanto spesso noi diciamo, di fronte ai nostri limiti: “io non sono santo”. Come se il santo per definizione non avesse limiti.

L’immagine biblica della santità, che ricaviamo dalla prima lettura e dal Vangelo, è molto diversa da questa idea un po’ astratta. Nell’Apocalisse i santi sono tutti coloro che hanno le vesti bianche e i rami di Palma nelle mani: essi celebrano la vita per sempre (veste bianca) che scaturisce dalla resurrezione di Cristo, perché vivono il mistero della sua morte e resurrezione, che l’apocalisse descrive con l’immagine paradossale del lavare le proprie vesti nel sangue dell’Agnello.

Essi sono una moltitudine immensa, che non si può contare, potenzialmente allargata a tutta l’umanità. Anche nel vangelo Gesù pronuncia le beatitudini davanti ai suoi discepoli, guardando le folle: come a dire che i beati sono da ricercare proprio lì, tra la gente comune assiepata sotto il monte, in ansioso ascolto di una parola del maestro. Li, tra la gente comune, si trovano i poveri di spirito, che si abbandonano ogni giorno nelle mani di Dio; lì, tra la gente comune, si trovano i cercatori di giustizia e di pace, che spesso pagano di persona la propria battaglia quotidiana per il bene; lì, tra la gente comune, ci sono i miti che sanno rinunciare alla vendetta e sciolgono ogni giorno i nodi del risentimento dentro al loro cuore.

Potenzialmente, tutti siamo santi, perché chiamati alla santità, pervasi dal dono dello Spirito che ci attraversa.

Il cammino della santità è caratterizzato da due segnali, che dicono che si è in progressione, in crescita.

Il primo segnale è saper gustare ogni giorno il dono della pace e della gioia che il Signore comunica nel cuore. Non è l’esaltazione di chi pensa di aver vinto un premio, è semplicemente un saper stare nella gioia, senza disturbarla con pensieri preoccupati, pesanti su noi stessi. Se abbiamo dei difetti, di cui facciamo fatica a liberarci, possiamo esercitare l’umorismo, che è in grado di farci guardare a noi stessi con un po’ di distacco, senza che ci prendiamo troppo sul serio. Mi ricordo di una signora molto anziana, piena di acciacchi, vedova e sola da tanti anni, gravata dal peso della morte di un figlio giovane. Quando andavo da lei, mentre si confessava, dopo aver parlato delle sue piccole mancanze, alla fine raccontava sempre almeno un aneddoto scherzoso o una barzalletta… che la santità non sia anche questa capacità di sorridere, fino alla fine?

Il secondo segnale è saper stare nelle contraddizioni, senza scoraggiarsi o cercare scorciatoie, mettendole nelle mani di Dio. Ci sono nodi o aspetti della vita su cui noi, con le nostre forze, possiamo ben poco: solo lui potrà sciogliere pian piano certi nodi o trasformare i cuori. Tutto il nostro lavoro sta nel predisporre e lottare ogni giorno in una direzione positiva, buona, incoraggiante, che favorisca la grazia di Dio, che sgombri gli ostacoli, che faciliti il lavoro dello Spirito Santo. Così potremo anche offrire le nostre sofferenze e ci sembreranno più leggere.

Stare nella gioia, stare nelle contraddizioni, questi due segnali compongono la beatitudine, che ha un aspetto negativo, di povertà, sofferenza, fatica e un aspetto positivo di gioia, di riscatto, di amore. Ad un certo punto scopriremo che la letizia scaturisce proprio dentro le contraddizioni in modo inaspettato e gratificante.

La santità è come una roccia, una Pietra, ma non senza spaccature. Infatti è proprio da quelle fenditure che passa la luce…