La resilienza a Scampia e non solo…

 

Ieri e oggi ho fatto un po’ di attività coi bambini di Scampia, assieme ad un gruppo di giovanissimi e giovani di una parrocchia di Monza.

Li siamo passati a prendere al Lotto P, detto dei Puffi. Io ho avvisato una mamma che saremmo andati alla Villa (il parco comunale). “Riportatemelo qua” mi ha risposto perentoriamente.

Il bambino, Carmine, di 5 anni, vivacissimo, in un quarto d’ora è riuscito a litigare con altri tre bambini: minaccioso e per nulla impaurito li affrontava con aria di sfida.

La stessa aria che un gruppo di sette bambini, capitanati da Ciro, mostravano nei confronti di altri tre bambini, che non erano del nostro gruppo ma erano colpevoli di averci incrociato in senso opposto (e forse di averli provocati con lo sguardo). I nostri magnifici sette li hanno inseguiti e raggiunti in men che non si dica, ignorando completamente i richiami degli adulti. La scaramuccia è terminata con qualche mala parola scagliata ai tre, che non hanno replicato.

“Perché avete fatto questo?”, chiedo a Ciro”eh quelli gridano da lontano ma da vicino stanno zitti!!!”.

Abbiamo giocato un po’ a calcio. Nel pomeriggio il campo era occupato dai più grandi ma Ciro non ha avuto paura di occuparlo e sfidarli. Alla fine se ne è dovuto andare, ma, per la rabbia,  ha trascinato altri suoi amici e sono scappati via”. Inutili i richiami degli “educatori”.

Questi comportamenti sono una chiara imitazione degli adulti, della legge del più forte imparata col latte materno, di una società adulta in cui domina la prepotenza e chi è in grado di incutere un maggiore timore.

In tutto questo è lodevole l’impegno dei gesuiti e di altre realtà con loro, che si impegnano ogni giorno a creare occasioni formative e sociali, ad invitare giovani e adulti a fare attività. È un segno, forse piccolo, ma sicuramente importante anche per le famiglie di Scampia.

Qualcuno ha già fatto crescere nel proprio cuore il seme di questo annuncio evangelico. Altri semi sono destinati a portar frutto in futuro, secondo i tempi di Dio.

“La sua caratteristica più importante era la resilienza” mi ha detto Daniele, gesuita, riferendosi a Fabrizio Valletti, il fondatore del centro Hurtado.

Resilienza è la capacità di ripartire ogni volta, quando la scorza della realtà sembra troppo dura per essere scalfita.

Il punto di vista di Dio

Se dovessimo scrivere un racconto della nostra vita, ci metteremmo i successi e le cose che ci rendono importanti di fronte agli altri.

Non è questo il modo con cui Dio scrive la Sua storia. Il suo punto di vista è quello dell’uomo mezzo morto sul ciglio della strada. Solo lui può vedere quello che i passanti fanno, vedendo e andando oltre. Solo lui può conoscere le azioni del buon samaritano, che gli si avvicina, e si prende cura di lui.

Solo lui può apprezzare lo sguardo di tenerezza di colui che si è messo nei suoi panni. È la tenerezza che parte dalle viscere profonde dell’amore, che sa vedere in ogni uomo un piccolo bambino bisognoso di tutto, e soprattutto desideroso che le sue ferite vengano curate e guarite.

Un bambino che si muove su un triciclo, in una strada sgangherata, piena di rifiuti, e ha bisogno di stima e incoraggiamento.

 

Museo di Capodimonte

Questa foto mostra il panorama che si osserva dal giardino reale di Capodimonte. Si nota il porto di Napoli e le diverse cupole delle Chiese del centro città.

Con un amico biblista che insegna alla facoltà teologica di Napoli abbiamo fatto una bella passeggiata, visitando anche il museo di Capodimonte e la mostra del Caravaggio installata in questi giorni, aperta al pubblico. È il Caravaggio maturo, quello del periodo napoletano, venato da una sfumatura drammatica, come nella celebre flagellazione di Cristo.

Un’attrice vestita con i costumi dell’epoca ci ha portato dentro l’ambiente di corte di Carlo e Federico, sovrani Borboni che hanno costruito e abitato la residenza.

Un pizzico di nostalgia traspariva dalle parole dell’attrice, come se davvero il popolo napoletano, con la fine dei Borboni, abbia perso qualcosa della sua gloria.

Tornando a Scampia osservavo le Vele e i palazzi e ho compreso: la borghesia napoletana ha voluto Scampia, dopo i terremoti, per isolare la massa e impedire ad essa di disturbare il Vomero, il quartiere dei ricchi.

Senza servizi. O meglio solo con quelli necessari alla sopravvivenza, perché non uscissero da li. Perché si autogovernassero, in mano alla camorra, o meglio si autodistruggessero.

Un esperimento da campo di concentramento.  Che tuttavia ha generato, insieme a criminalità e sottosviluppo, anche realtà sociali di servizio e voglia di riscatto.

 

 

 

 

 

Scampia, campo rom

Ieri ho iniziato a lavorare al campo rom di Scampia.

Insieme con Michael, gesuita scolastico di Malta, abbiamo aiutato Mile, un “operaio edile” della comunità rom, a ricostruire la baracca di Biserca una donna di 32 anni con 5 figli rimasta sola e che sta dormendo da due settimane all’addiaccio.

Mentre aiutavo a montare finestre o lamiere del tetto, Biserca mi ha fatto vedere le foto del funerale del babbo. Poi abbiamo chiacchierato un po’ e ho fatto amicizia coi suoi figli e con altri bambini del campo.

Come si vede dalla foto, le baracche si sviluppano sotto la sopraelevata dell’asse mediano e sono così più protette da pioggia e vento. L’elettricità è ottenuta tramite dei fili che si collegano ai lampioni del viadotto, non più funzionanti. L’acqua è attinta dalle tubature dell’acquedotto che arrivano ad una scuola confinante.

Tutto intorno tanti rifiuti, che non provengono solo dai rom,  si accumulano paradossalmente proprio intorno ad un’isola ecologica con molti mezzi di trasporto dell’azienda pubblica per la nettezza urbana.

La vita di questa comunità rom sembra scorrere tranquilla, in mezzo a tanta precarietà. Eppure i problemi non mancano. I figli sono tanti e gli adulti sembrano non lavorare granché. Furti e accattonaggio costituiscono probabilmente  la fonte maggiore di introiti economici.

Qualche mese fa la casa di Biserca era andata in fumo. L’incendio è stato appiccato da esterni o da qualcuno nel campo rom?  Certamente le rivalità e i dispetti tra di loro non mancano, ma  l’odio alberga anche nel cuore dei parrocchiani: uno di loro, sapendo che saremmo andati ad aiutare nel campo ha detto: “portatevi un accendino e una buona tanica di benzina…”

Poi, vedendo il mio sgomento in faccia, si è messo a ridere: “Era solo una battuta”.

Proprio una bella battuta, buon uomo!

 

Il bosco di Scampia

 

 

 

Dove ci troviamo in questa foto? A Villa Borghese a Roma? O a Villa Ada? O sulla via Appia?

Siamo nel cuore di Scampia a Napoli. Si tratta del parco comunale, intitolato a Ciro Esposito, un tifoso del Napoli morto a Roma durante una partita allo stadio. Questo parco è una specie di Circo massimo moderno, pieno di alberi e di verde pubblico, ben curato, intorno al quale si sviluppano i complessi residenziali famosi di Scampia, come ad esempio le Vele.

Ciò che mi ha più colpito ad un primo impatto visivo è stato proprio questo parco e i ragazzi che giocavano a calcio: segno di una immaginario diverso da quello che i media hanno costruito  su Scampia; segno di una vita normale, di un possibile equilibrio umano e sociale anche in un quartiere difficile come questo.

 

 

 

 

 

 

 

Cos’è il cielo? Una metafora…(omelia sull’Ascensione di Gesù)

 

Cos è il cielo? È una metafora…il cielo di per sé non esiste, perché se andiamo nello spazio l’azzurro diventa buio e l’uomo non può sopravvivere. Il cielo vero, quello che indichiamo quando parliamo di Gesù “asceso in cielo” lo ha creato lui, Gesù stesso, con la sua resurrezione. Prima non esisteva, è il luogo creato dal suo corpo umano risorto, che domina tutta la storia nella piena comunione con Dio Padre. È da questo luogo che Gesù governa la terra e manda i suoi discepoli a testimoniarlo.

“Riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra.”  Questo invio di Gesù implica tre cose.

  1. lui ci manda, ci invia. Il nostro essere cristiani non viene da noi, non è una scelta nostra, originariamente. Ma è un dono che abbiamo ricevuto e un invio verso la missione, con tutta la nostra vita. Di fronte agli scoraggiamenti, al senso di impotenza che ci afferra, dobbiamo riaffermare che la missione non dipende da noi, non è una scelta nostra, ma è un dono che abbiamo ricevuto da Gesù risorto.
  2. Lui è il contenuto della nostra testimonianza. Pensiamo di dover dire chissà che cosa o spiegare o insegnare: niente di ciò, ma mostrare con la nostra vita e gioia la potenza della resurrezione di Gesù.
  3. Lui testimonia in noi e attraverso di noi, con quella misteriosa attrazione che viene dalla segreta gioia della lode di Dio. I discepoli stavano sempre nel tempio lodando Dio. La preghiera era il modo privilegiato per entrare in contatto con Dio, proprio dentro alle fatiche, alla difficoltà, al senso di solitudine che li afferrava perché il loro maestro non era più con loro. Quella preghiera li ha portati ad accogliere il dono dello Spirito e a partire per una missione fino ai confini del mondo. A volte qualcuno si lamenta perché si fanno meno cose, non ci sono proposte spirituali, non si prega…grazie a Dio se ci sono questi desideri personali e comunitari di pregare di più. Allora invece di lamentarsi e attendere sempre che qualcun altro, vescovo, prete o diacono che sia, debba prendere l’iniziativa, perché non iniziare davvero a pregare insieme? La Chiesa siamo tutti ed è di tutti…tutti siamo responsabili perché la preghiera e la lode di Dio possano sempre rilanciare la nostra iniziativa e il nostro entusiasmo missionario, che deve arrivare fino ai confini del mondo.

Fino ai confini del mondo? Cosa significa? Non è solo relativa alla geografia…ci sono confini temporali, confini spirituali e confini relazionali che noi ogni giorno attraversiamo. La nostra missione deve giungere in ogni angolo della nostra giornata, del nostro tempo, deve attraversare la consapevolezza di ogni più piccolo gesto del quotidiano, dal fare la spesa, al badare i nipotini, al programmare le vacanze. In ogni cosa entra Dio, con il suo amore, la sua presenza, e ogni cosa fatta con questo Spirito diviene testimonianza.  Poi ci sono i confini spirituali, quelli delle nostre zone d’ombra, oscure: dei nostri sensi di colpa, delle nostre angosce e ansie, delle nostre tristezze e malinconie. Anche lì deve arrivare la sua testimonianza, per afferrarci dal più profondo del nostro cuore e portare la luce e la gioia della resurrezione. Infine ci sono i confini relazionali: relazioni che si sono lacerate e che possono essere rinnovate e ricucite, se non altro con la disponibilità del proprio cuore ad aprirsi e a pregare per le persone verso le quali si ha qualche difficoltà nel rapporto. Anche e soprattutto la pazienza e la mitezza nel ricucire artigianalmente ogni giorno le relazioni e l’amore, e nel portare la pace e la serenità sono una testimonianza di Lui, che arriva fino ai confini di ogni cuore.

Maria aiutaci tu, con la tua preghiera, a dominare tutte le potenze di divisione che ci sono in noi e tra noi, e ad arrivare fino ai confini del cuore, di ogni cuore!

Lettura popolare Pentecoste Anno C

 

Lettura popolare Pentecoste Anno C

Gv 14,15-16.23-26

Il dono del Paraclito

 

Il messaggio nel contesto

 

IMPORTANTE: questa breve contestualizzazione e spiegazione del brano evangelico serve da preparazione remota per l’accompagnatore, prima dell’incontro. Si tratta di mettersi in preghiera personalmente, leggere il brano evangelico e poi approfondirlo con attenzione. Le considerazioni svolte sotto non sono da “ripetere”   ai partecipanti, ma da tenere presente durante l’incontro.

 

Questa pericope liturgica ritaglia due passi del c. 14 del Vangelo di Giovanni, che riguardano entrambi l’invio dello Spirito Santo.

In questo passo l’evangelista collega l’amore dei discepoli a Gesù con l’osservanza dei suoi comandamenti (cf. v.15.21.23.24). Come il popolo di Israele è chiamato ad amare ed osservare i comandamenti di Dio per rimanere nella sua Alleanza (cf. Dt 7,9), così che Dio possa costituire la sua dimora in mezzo al popolo (cf. Es 25,8; Ez 37,27), allo stesso modo il discepolo dovrà osservare i comandamenti di Gesù, ossia la sua parola (v.15.23), perché Gesù e il Padre possano prendere dimora nel discepolo, abitando nel suo cuore.

Qui non si tratta di alcuni comandamenti in particolare, anche se si potrebbero citare alcune esortazioni di Gesù particolarmente care a Giovanni, come l’amore fraterno (cf. 15,12) o il lavarsi i piedi gli uni gli altri (cf. 13,34). Più globalmente i comandamenti di Gesù sono “la sua parola”, quella che egli ha ascoltato dal Padre, ossia l’intera opera che il Padre gli ha dato da compiere, il dare la vita nella morte per poi riprenderla nella resurrezione (cf. 12,49). Ascoltare questa “parola” pronunciata da Gesù, ossia il mistero della sua vita, come abbassamento nell’ incarnazione e ritorno al Padre nell’innalzamento della morte, è per Giovanni avere fede nella persona di Gesù, inviata dal Padre (cf. 6,28).

Nella fede del discepolo, che accoglie in sé la dimora del Padre e del Figlio, accade quindi un ulteriore dono, lo Spirito Santo, che corrisponde al desiderio di Gesù e alla sua richiesta al Padre. Il Paraclito, colui che “è chiamato a stare presso” i discepoli ha un primo e fondamentale compito, “di stare con noi per sempre” (v.16). Dopo la partenza di Gesù, che fino a quel momento è stato con i suoi discepoli (cf. 14,9), sarà lo Spirito a rendere presente Gesù nel cuore di colui che lo ama e osserva la sua parola (v. 23), prolungando in tutta la sua vita quell’amore gratuito e originario che riceve da Dio. Questi è il vero discepolo di Gesù, è colui nel cui cuore si stabilisce il tempio spirituale, la dimora eterna del Padre (cf. Ez 37,26-27; Zc 2,14).

Anche nel secondo brano dunque (vv.23-26) si parla del dono dello Spirito Santo. Come può il lettore del Vangelo di Giovanni, invitato a divenire discepolo di Gesù, osservare la Sua parola se Egli non è più presente fisicamente con lui (v. 25)? Solo grazie all’invio dello Spirito paraclito che ricorderà tutte le parole di Gesù fino al termine della sua vita pubblica (12,36). Egli infatti è «colui che è chiamato a stare presso» i suoi discepoli per insegnare e far ricordare. Si tratta di due verbi di cui il secondo (far ricordare) serve a chiarire il precedente (insegnare). L’insegnamento del paraclito implica il riferimento alla parola di Gesù, intesa non solo come annuncio orale, ma come l’intera rivelazione che è costituita della sua vita, morte e resurrezione. Il mistero pasquale è precisamente quella verità tutta intera in cui lo Spirito ha il compito di introdurre il discepolo (cf. 16,13), così da renderlo in grado di interpretare in modo nuovo le parole di Gesù (2,21-22).

Lo Spirito non può che condurre a Gesù, dal momento che è stato inviato da quello stesso Padre che ha inviato suo Figlio (v. 26; cf. 24), più grande di lui unicamente nel senso che è lui ad inviarlo (v. 28 cf. 13,16).

 

 

 

 

 

Come realizzare concretamente l’incontro?

 

  1. Ricordiamo la vita.  (15 minuti)

 

  1. Leggere con attenzione il brano del Vangelo (almeno due volte) e soffermarsi su una parola che colpisce: Gv 14,16-17.23-26 (10 minuti)

 

 

  1. Iniziare un dialogo un pò più approfondito a partire dalla lettura (30 min)

Partendo dalla condivisione della parola si può invitare qualcuno, che sembra un pò più estroverso e a suo agio nel gruppo, ad esplicitare il “perchè” ha scelto quella parola. A questo punto si aiutano anche gli altri, ponendo delle domande, a condividere le loro impressioni e valutazioni.

 

  •  Qual è il contesto geografico e temporale del racconto evangelico?

Siamo nel lungo discorso che Gesù rivolge ai suoi discepoli prima di partire. La sua partenza è infatti imminente (cf. v. 25.28) ed egli intende rassicurarli, cacciare il loro turbamento e dare loro la sicurezza che ci sarò sempre qualcuno accanto a loro, lo Spirito Santo. Sento questa compagnia nella mia vita?

 

Chi sono i personaggi, cosa dicono/fanno?

I personaggi sono Gesù, i discepoli, il Padre e il Paraclito.

-Amare significa osservare i comandamenti di Gesù e la sua parola». Si tratta di un ascolto attivo, di un essere discepoli, avendo fede in lui. Ho fede in Gesù? Aderisco con tutta la mia volontà, memoria e intelligenza alla Sua Parola? La medito quotidianamente?

-Il Padre è colui che ama e insieme al Figlio prende dimora nel credente. Come preparo il mio cuore e la mia interiorità ad essere luogo accogliente per ospitare la presenza di Dio?

-Il Paraclito è colui che sta con noi per sempre. Ho consapevolezza di non essere mai abbandonato da Dio?

-Vi insegnerà e ricorderà tutto ciò che vi ho detto. Cerco e invoco lo Spirito Santo? Come ne seguo gli impulsi e le consolazioni interiori?

 

  • Quale rivelazione è contenuta qui?

Nello Spirito siamo chiamati ad entrare nell’amore tra il Padre e il Figlio. La consolazione dello Spirito è una realtà permanente, che mi accompagna con il dono della serenità e di un equilibrio di fondo e mi aiuta nel discernimento concreto della vita.

 

  1. Condivisione della vita nella preghiera (5/10 min). Lettura popolare Pentecoste Anno C

Lettura popolare Ascensione di Gesù

 

 

Lettura popolare Ascensione Anno C

 

At 1,1-11; Lc 24,45-53

Gesù risorto ascende al Padre

 

Il messaggio nel contesto

 

IMPORTANTE: questa breve contestualizzazione e spiegazione del brano evangelico serve da preparazione remota per l’accompagnatore, prima dell’incontro. Si tratta di mettersi in preghiera personalmente, leggere il brano evangelico e poi approfondirlo con attenzione. Le considerazioni svolte sotto non sono da “ripetere”   ai partecipanti, ma da tenere presente durante l’incontro.

 

N.B.: è possibile scegliere anche solo At 1,1-11 per la preghiera. Sarà tuttavia bene tenere presente anche l’altro racconto, pur senza leggerlo nel dettaglio.

 

Lc 24,45-53 è parallelo a At 1,1-11. Si deve compiere la promessa del padre (At 1,4; Lc 24,49) sui discepoli, che saranno così rivestiti di potenza dall’alto (At 1,8; Lc 24,49), per divenire testimoni di Gesù risorto (At 1,8; Lc 24,48) in Gerusalemme e in tutti i popoli fino ai confini della terra (At 1,8; Lc 24,47). Inoltre viene descritta l’ascensione in cielo di Gesù sia in Lc 24,50-51 sia in At 1,9-11. In questo modo Luca aggancia direttamente l’inizio del libro degli Atti con la fine del suo Vangelo (cf. At 1,1-2) mostrando l’intenzione di comporre una sola grande opera in due volumi. Tale narrazione risponde ad un disegno teologico globale, che vede nell’ascensione di Gesù al cielo uno snodo fondamentale, attraverso il quale culmina la storia precedente, quella riguardante le azioni e l’insegnamento di Gesù (cfr. At 1,1) e prende avvio una nuova fase, quella della Chiesa. Se Gesù sale al Padre, ora Egli può condividere coi discepoli la Sua sovranità sulla storia e divenire il primo agente della missione della Chiesa. Da questo momento in poi i discepoli saranno suoi testimoni, inviati da lui ad annunciarlo – grazie alla potenza dello Spirito Santo che riceveranno il giorno di Pentecoste – da Gerusalemme fino agli estremi confini della terra.  Ecco riassunto, in poche parole, tutto l’itinerario degli Atti degli Apostoli, che termineranno con l’annuncio del Vangelo portato da Paolo in catene fino a Roma (cf. At 28).

Nei v. 9-11 Luca descrive in modo piuttosto dettagliato, secondo il gusto dell’epoca, l’evento dell’ascensione di Gesù. Egli traduce in una forma narrativa la fede della comunità cristiana, che esprime attraverso brevi formule l’esaltazione del Risorto (cfr. 1 Tm 3,16; 1 Pt 3,19.22; Ef 4,8-10). La nube che sottrae Gesù allo sguardo dei discepoli assume una duplice funzione, narrativa e simbolica. Dal punto di vista narrativo essa indica un passaggio fondamentale che si verifica da qui in poi, e cioè che Gesù non sarà più visibile fisicamente dai suoi discepoli, per tutta la storia della Chiesa (cf. 1,11). Simbolicamente la nube rappresenta la vicinanza di JHWH, che è presente ma di cui tuttavia non si può vedere il volto rimanendo in vita (cfr. Es 13,21; 24,16.18; 33,18-23.34,5-9). Anche Gesù quindi assunto definitivamente nella sfera del Padre, non si può più vedere fisicamente, ma rimane sempre accanto ai suoi discepoli. Ma la nube è un elemento transitorio, che non ricomparirà più. In quale modalità dunque Gesù si farà presente? La successiva scena degli angeli può chiarircelo meglio.

I discepoli si fermano a vedere Gesù asceso al cielo (v.10), forse allo stesso modo in cui il profeta Eliseo era rimasto a guardare il cielo mentre Elia vi saliva sospinto da un carro, per poter ricevere i due terzi del suo spirito profetico (cfr. 2 Re 2,9-10.12). Qui tuttavia i discepoli non hanno più bisogno di guardare per ricevere lo Spirito di Gesù (v.11), perché sarà lui stesso ad inviarlo su di loro. Gesù, invisibile ai loro sguardi, sarà così sempre presente per mezzo dello Spirito e li invierà e guiderà a testimoniarLo fino ai confini della terra.

 

 

 

 

 

Come realizzare concretamente l’incontro?

 

  1. Ricordiamo la vita.  (15 minuti)

 

  1. Leggere con attenzione il brano del Vangelo (almeno due volte) e soffermarsi su una parola che colpisce: At 1,1-11

 

  1. Iniziare un dialogo un pò più approfondito a partire dalla lettura (30 min)

Partendo dalla condivisione della parola si può invitare qualcuno, che sembra un pò più estroverso e a suo agio nel gruppo, ad esplicitare il “perchè” ha scelto quella parola. A questo punto si aiutano anche gli altri, ponendo delle domande, a condividere le loro impressioni e valutazioni.

 

  •  Qual è il contesto temporale del racconto evangelico?

Gesù si mostra vivo agli apostoli dopo la sua passione, con molte prove. L’esperienza della resurrezione, sebbene misteriosa, è tuttavia reale e viene definitivamente sancita dal dono dello Spirito, come compimento della promessa del Padre (v. 4). Come mi pongo davanti a questo mistero?

  • Chi sono i personaggi, cosa fanno?

Gesù e gli apostoli.

-Gesù fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Gesù da ora in poi appartiene definitivamente alla sfera del Padre ed è in ogni luogo e in ogni tempo della storia. Ho gli occhi della fede per vederlo?

-Gli apostoli fissano il cielo. Pensano di vedere ancora Gesù nella forma in cui lo vedevano e conoscevano prima. Anch’io a volte mi fisso su certe “forme” della fede (una preghiera fatta in un certo modo, una certa liturgia…) pensando di incontrare Gesù solo in quella “forma”. Sono aperto a incontrare Gesù in ogni esperienza della vita?

  • Cosa dicono i personaggi?

-Gli apostoli chiedono conferma a Gesù sul tempo in cui ricostruirà del Regno di Israele. La nostra impazienza di vedere segni realizzati è grande. Mi fido del disegno nascosto del Padre?

-Gesù afferma che i discepoli riceveranno la forza dello Spirito Santo. Come percepisco l’opera dello Spirito Santo nella mia vita?

-“Di me sarete testimoni”: testimoni inviati da Lui, che parlano di Lui e del mistero della Sua resurrezione con la loro vita. Come testimonio Gesù risorto?

Fino ai confini della terra: il carattere universale di questa testimonianza indica la globalità della testimonianza della resurrezione in tutta la mia vita. Ne sono consapevole?

  • Quale rivelazione è contenuta qui?

Gesù asceso al Padre è ora Signore della storia e conduce gli apostoli e la Chiesa in un percorso di testimonianza senza confini, con la forza dello Spirito Santo. Quale immagine di Chiesa ho, a confronto con questa Chiesa degli Apostoli narrata da Luca?

 

  1. Condivisione della vita nella preghiera (5/10 min).

Una comunità nella gioia dello Spirito

 

I discepoli sono tristi perché Gesù sta per andarsene da questo mondo. Il loro turbamento è quello di chi rimane al livello umano e non comprende il disegno di Dio, più grande, più vero, più bello, un disegno in cui Dio non ci priva di qualcosa o qualcuno di importante, se non per un bene maggiore, misterioso ma reale nella nostra vita. Qual è questo bene maggiore, misterioso ma reale, che viene donato ai suoi discepoli? Lo Spirito Santo. Egli è mandato dal padre, ma nel nome di Gesù e ha il compito di insegnare e ricordare tutte le parole di Gesù, cioè tutta la sua vita, la sua missione, fino alla pienezza nel mistero della sua morte e resurrezione.

Se lo Spirito è nel cuore di ciascun discepolo ed è colui che insegna, ciò significa che il “senso della fede” è presente in ciascuno dentro alla Chiesa, anche nella persona apparentemente più umile e meno istruita. Il senso della fede è un fatto che riguarda il popolo di Dio. Ciò significa anche che, prima di noi e delle nostre attività pastorali, lo Spirito è già presente nel cuore delle persone e insegna, in modo misterioso ma reale, ad essere in comunione con Gesù risorto e vivo.

Da queste due osservazioni emerge una certa immagine della Chiesa, che il racconto degli Atti degli Apostoli che abbiamo ascoltato nella prima lettura ci mostra molto bene. Dice Pietro e la comunità di Gerusalemme alla Chiesa di Antiochia, nel contesto delle divisioni che erano nate a proposito della necessità o meno di circoncidere i battezzati che provenivano dal paganesimo:  “È parso bene, infatti, allo Spirito Santo e a noi, di non imporvi altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie”… la Chiesa qui si mostra come contesto in cui il dialogo permette di affrontare le divisioni e scegliere la strada che lo Spirito indica per arrivare al cuore delle persone, dove Lui stesso già si trova. Si tratta di lasciare qualcosa che appartiene alla tradizione ma non è essenziale, rispetto all’annuncio del Vangelo, rispetto al seguire lo Spirito laddove esso ci conduce, al cuore delle persone.

Quante cose non sono essenziali, ma si fanno solo perché si è sempre fatto così e si deve continuare a farlo e se non si fa più ci sentiamo tristi e inutili. Ciò accade perché non abbiamo ben chiaro qual è il fine e il senso della nostra missione: non è fare cose, fare eventi, fare incontri, tantomeno guadagnare soldi, ristrutturare case. Non è neanche celebrare i sacramenti. Prima infatti anche dei sacramenti c’è l’annuncio del Vangelo che genera la fede e porta a entrare nei sacramenti o riscoprire i sacramenti già ricevuti.

Allora se come cristiani, come persone anche impegnate nella pastorale, ci sentiamo a volte tristi, c’è da chiedersi se questa tristezza non venga anche dal confondere i mezzi con i fini, dal far consistere la nostra soddisfazione in alcuni mezzi, in alcune tradizioni, in alcune attività, che vengono così assolutizzati, perdendo di vista il fine, che è l’annuncio del Vangelo.

La pastorale è fatta di opportunità, finestre, occasioni che vanno accolte perché nella relazione con le persone avvenga l’annuncio del Vangelo e la fede nel cuore delle persone possa crescere e maturare. E allora tutto torna utile e importante, tutti gli eventi, gli incontri, le feste, le case da ristrutturare o i risparmi da investire, ammesso che ci siano: sono tutti strumenti per raggiungere quel fine, tutte occasioni perché lo Spirito possa attivarsi nel cuore delle persone e farle crescere nella loro vita e nell’incontro con il Signore risorto. E allora anche la comunità diventa più allegra e gioiosa: meno presa dalle lamentele, “perché non c’è più nessuno che si impegni”; meno concentrata sul passato, sui ricordi di una volta, “quando si faceva questo e quello”; più impegnata a cogliere il bene che il Signore fa nel cuore delle persone; più protesa ad incontrare fare festa e testimoniare la gioia del Vangelo, a vivere l’amore per il Signore.  “Se mi amaste”, dice Gesù, “vi rallegrereste che io vado al Padre!”.

Una Chiesa che invia e festeggia

 

Cosa significa che Gesù è stato glorificato proprio mentre viene tradito da Giuda? Significa che si sta compiendo quel disegno per il quale Gesù verrà innalzato da terra, ossia crocifisso, e attraverso questo innalzamento potrà attirare tutti quanti a sé. È la gloria della missione che viene compiuta, ossia di una attrazione universale che Gesù risorto realizza, con l’onnipotenza del suo amore. Un’ universalità estensiva, perché rivolta a tutti gli uomini, ma anche intensiva, perché agisce dentro l’esperienza del tradimento di Giuda. Gesù gli dà un boccone e accompagna questo gesto di intimità con le parole: “quello che vuoi fare, fallo subito”. In questo modo Gesù sta dicendo che non è più Giuda a tradirlo ma lui a consegnarsi a Giuda nel suo tradimento. Non evita il tradimento, il rinnegamento, l’abbandono, la fragilità dell’uomo, ma li include nella sua consegna d’amore, in modo da trasformarli dal di dentro, farli diventare luoghi di possibile incontro con il suo amore.  L’universalità dell’amore di Gesù, estensiva ed intensiva, genera una certa immagine di Chiesa, in cui si vive la potenza di questo amore e ci si sente sospinti da esso: fino ai confini del mondo, perché il suo amore è universale nell’estensione e senza limiti e restrizioni interiori, perché il suo perdono e la sua grazia sono sempre costantemente attivi in noi.

Mi piace guardare attraverso questa lente dell’amore estensivo e intensivo di Gesù il racconto degli atti degli Apostoli che abbiamo appena letto nella prima lettura. Vi si dice che Paolo e Barnaba tornarono ad Antiochia, là dove erano stati affidati alla grazia di Dio per tutto quello che avevano compiuto e che raccontarono come il Signore avesse aperto ai pagani la porta della fede. I due discepoli si sentono inviati da una comunità e tornano ad essa raccontando ciò che il Signore ha fatto. Cioè sentono l’amore di Dio nella comunità che li ha inviati e nei frutti che hanno raccolto e che necessitano di essere raccontati.  Ci capita spesso di considerare le cose che facciamo, anche per gli altri anche nella comunità cristiana, in una dimensione esclusivamente individuale: finché mi piace, finché mi gratifica, finché ho tempo, lo faccio. Oppure, viceversa, ci sentiamo prestatori d’opera, eseguiamo quella funzione perché c’è bisogno, perché siamo utili, e poi tutto finisce li. Facciamo fatica ad inserire il nostro contributo, piccolo o grande, nel quadro di un disegno d’amore di Dio per noi e per la comunità stessa. Subentrano stanchezze, frustrazioni, incomprensioni e tutta la motivazione e la gioia di impegnarsi possono vacillare. Ma se l’amore di Gesù è universalmente intensivo, ciò significa che noi abbiamo la possibilità di vincere tutto ciò che ci porta a scoraggiarci e, con la sua forza, perseverare nel servizio. Anche Paolo e Barnaba hanno avuto enormi difficoltà in quel viaggio, ma la grazia di Dio è sempre stata in grado di prevalere, in modi spesso imprevedibili e improvvisi, perché il senso di quella missione andava oltre le loro persone.

Inoltre questa comunità di Antiochia non ha avuto paura di dare i suoi uomini migliori per una missione che doveva oltrepassare i confini territoriali e giungere con Paolo fino ai confini del mondo. I missionari partono, fondano nuove comunità e mettono responsabili in ogni comunità dove sono passati.  La comunità di Antiochia ha potuto affidare Paolo e Barnaba alla grazia di Dio, perché ha una fiducia profonda nell’amore universale che Gesù ha messo nella storia e che opera con la potenza dello Spirito Santo. Quanto siamo lontani da questa mentalità: noi le persone, specialmente se sono bravine, ce le teniamo strette, perché abbiamo una cronica carenza di risorse e non pensiamo quasi mai a ciò che c’è al di là dei confini un po’ ristretti delle nostre attività pastorali. Dovremmo invece inviare i nostri nel mondo, che chiede uomini e donne qualificate, che sappiano fare bene e con onestà il loro lavoro e, se richiesti, siano in grado di testimoniare con semplicità e rispetto la propria fede. Dovremmo inviare le persone chiamate al servizio dei più poveri e dei giovani, perché non abbiano paura di aiutare, educare, accompagnare nella fede.  Dovremmo inviare le persone nella politica che aspetta testimoni coerenti, competenti, prudenti, liberi, guidati non dall’ambizione personale, ma dalla passione per l’umano, specialmente il più debole e sfortunato.

Infine Paolo e Barnaba riferirono alla Chiesa tutto quello che Dio aveva fatto per mezzo loro e la comunità è in grado di fare festa con il racconto e la testimonianza dei missionari. Questo è il vero senso della nostra festa, celebrare i nostri percorsi, difficili e impegnativi ma sempre accompagnati dalla grazia, e raccontarceli reciprocamente, perché possiamo lodare e ringraziare Dio di tutte le cose belle che fa nella nostra vita e nella nostra comunità.