dalla tensione…una superiore armonia

 

 

 

 

Capita, quando si leggono gli Atti degli Apostoli, di pensare: “se questi sono i segni della Chiesa, tanti miracoli ad opera degli apostoli e tante conversioni, allora oggi siamo davvero distanti da quella Chiesa delle origini”.

In realtà gli Atti degli Apostoli, di cui oggi abbiamo ascoltato la prima lettura, sono stati scritti proprio per ottenere l’effetto opposto, ossia per farci innamorare di quella Chiesa, farci notare le “somiglianze” con la nostra esperienza, prima che le differenze, ed incoraggiarci a seguire sempre più quel modello.

Anche la Chiesa degli Atti, infatti, aveva un modello, e quel modello era Gesù stesso. Guardiamo a Filippo, cosa fa nel suo annuncio missionario se non produrre quei medesimi segni che già Gesù aveva operato nel suo ministero pubblico? Una predicazione unita a segni di guarigioni dal male, come gli esorcismi, indica una vittoria già ottenuta contro le potenze del male che, di conseguenza,  produce grande gioia. Poi arrivano gli apostoli e per l’imposizione delle loro mani portano a questi nuovi discepoli samaritani il dono dello Spirito Santo, che inserisce la nuova Chiesa nella comunione con Dio e con la Chiesa di Gerusalemme.

Queste allora sono le caratteristiche della Chiesa: annuncio del vangelo, vittoria contro il male, gioia, dono dello Spirito, comunione tra gli uomini e con Dio. Anche noi possiamo godere di questi doni, ce lo conferma oggi il vangelo di Giovanni.  Ci viene infatti donato lo spirito Paraclito che, come dice Gesù, “rimane presso di voi ed è in voi”. Dunque è un dono permanente ed interiore. Permanente significa che non ci viene tolto, amenochè non lo rifiutiamo noi. Interiore significa che parla al nostro cuore ed è già dentro di noi, prima che noi andiamo a cercarlo chissà dove. Egli viene definito come lo spirito della verità, ossia che ci conduce alla verità. Non è solo verità oggettiva, dottrina, ma è la verità di Cristo come realtà esistenziale, che attraversa e assume ogni aspetto della nostra vita. Lo Spirito ci conduce al cuore della comunione tra Gesù e il Padre suo, in modo che se lui è nel Padre, anche noi lo siamo, appartenendo a Gesù. “Io sono nel padre mio e voi in me e io in voi”: la reciproca immanenza di Gesù in noi e di noi in Gesù indica una mutua inabitazione, un possedersi reciprocamente

 

“Io sono nel padre mio e voi in me e io in voi”. Questa unione che è frutto di comunione profonda e intima nel permanere della differenza tra noi e Dio, è il dono dello Spirito Santo: egli ci procura una misura sovrabbondante di energia d’amore, per affrontare le difficoltà non banali del tempo che stiamo vivendo. Dobbiamo riconoscerlo: la nostra società si va sfaldando e disunendo in una serie di conflitti: tra nazioni del mondo, tra stato e regioni, tra partiti e cittadini, ma ancor più tra strutture amministrative e corpo sociale, tra regolamenti e potenzialità vitali. Occorre equilibrio, che non è semplicemente compromesso, ma è la tensione dinamica tra polarità contrapposte, che possiamo chiedere come dono dall’alto. Dove la tensione degenera nel conflitto aperto si crea rabbia, discordia, fatica e disunione: è quello che stiamo vivendo! Il tutto è condito con la miscela esplosiva della paura del futuro e della prospettiva della recessione.  È qui che come Chiesa siamo chiamati a testimoniare il dono dello spirito, che opera l’unità di Dio, anzitutto dentro di noi, sconfiggendo la paura. Poi ci aiuta a trasformare il conflitto in una tensione positiva, che fa ripartire la vita invece di bloccarla e genera un superiore senso di appartenenza e di comunione.

 

Come la Chiesa apostolica, così la nostra chiesa, oggi, con l’annuncio del vangelo e il dono dello Spirito può vincere il demonio della divisione e della paura, donare una gioia duratura e contribuire a risolvere i conflitti verso una comunione più profonda.

 

 

Una Chiesa che discute

 

 

Nella prima lettura, tratta dagli Atti degli Apostoli, Luca ci racconta di un litigio, scoppiato nella Chiesa apostolica, tra discepoli di lingua greca e discepoli di lingua aramaica/ebraica. Dovete sapere infatti che nella prima Chiesa l’annuncio degli apostoli aveva fatto breccia anche su quegli ebrei che abitavano nella diaspora, cioè nelle varie comunità disperse nel mediterraneo e che venivano a Gerusalemme per celebrare la Pasqua o altre festività. Questi parlavano greco, a differenza degli abitanti della giudea e di Gerusalemme, che parlavano soprattutto aramaico. Insomma i due gruppi di persone, entrate nella comunità ecclesiale, non si capivano e c’erano delle discriminazioni nell’assistenza dei poveri e delle vedove.

Allora come oggi nella Chiesa si discute: lo vediamo tutti i giorni, in questa epidemia dove tutto è incerto vi sono discussioni e emergono sensibilità molto diverse sulle priorità da scegliere, anche per gestione dei sacramenti nella fase 2. Allora come oggi la gente protesta e allora come oggi ci sono difficoltà, anche organizzative.

Per gli Atti degli Apostoli si tratta di una situazione ideale, di un tempo opportuno per ascoltare lo Spirito e sentire come Egli soffi con novità nel cuore, verso direzioni ecclesiali ancora ampiamente inesplorate. Gli apostoli intuiscono che non riescono a fare tutto da soli e debbono allargare il cerchio della corresponsabilità. Solo così, con i carismi di tutti, la Chiesa potrà assomigliare ad un coro sinfonico.

Ancora oggi, questo passaggio ci sta davanti, anche se ne parliamo spesso, almeno dal Concilio Vaticano II. Si tratta di passare dalla logica della funzione, per cui i ministri ordinati, i preti, offrono dei servizi religiosi, come le messe, e la gente li “prende”, alla logica della corresponsabilità, dove la comunità è un corpo organico in cui ciascuno ha un suo carisma da donare a tutti, e c’è un servizio eucaristico e una mensa della carità condivisa. Questo cambia tutto, perché se il popolo di Dio impara ad assumersi delle proprie responsabilità, passerà dalla logica infantile della lamentela a quella più costruttiva del darsi da fare. Lo diciamo da tempo, ma questa logica sembra ancora non passare, perché in fondo vogliamo accentrare, come preti, tante discussioni e decisioni, per paura di perdere quote di leadership. Ma la vera leadership è quella che sa far maturare i carismi e la responsabilità intorno a sé, non quella che si esaurisce in mille rivoli.

Ecco allora che il discernimento apostolico si concentra sull’individuazione di sette, uomini, descritti da Luca come pieni di Spirito e di sapienza. Essi si concentrano sul servizio delle mense. Banalmente potremmo chiederci: ma a che serve tanta sapienza se si tratta di servire a tavola? In realtà il servizio delle mense negli Atti non indica “solo” un servizio materiale legato ai pasti, ma si riferisce molto probabilmente alla mensa stessa della celebrazione eucaristica, così come andava evolvendo nella prima comunità cristiana. Si tratta quindi di una ministerialità essenziale alla Chiesa stessa, perché riguarda il suo “raduno” come “ecclesia”, ossia come comunità raccolta attorno alla Parola degli apostoli e insieme al servizio della carità verso i più poveri.

Se gli apostoli si dedicano alla preghiera e al servizio della Parola, ossia all’annuncio del vangelo, anche i ministri, attraverso il loro servizio, che possiamo definire “diaconale”, annunciano la parola: pensiamo solamente alla grande predicazione di Stefano. Essi infatti si rivolgono, in lingua greca, a tutti i discepoli che possono comprenderli. Come a dire che, proprio grazie a questa maggiore condivisione e corresponsabilità, tutta la Chiesa potenzia il suo annuncio di Cristo.

Anche oggi ci troviamo davanti a questa sfida, con alcuni segni molto positivi e almeno un rischio.

Il primo segno positivo che colgo è la riscoperta, da parte di tanti, della preghiera e della Parola di Dio. Potenziamo ancor più questa proposta, attraverso la diffusione di Pregaudio, attraverso la distribuzione del Pane quotidiano di d. Oreste, e anche ritrovandoci nelle stanze virtuali per incontri sul vangelo domenicale! Un altro segno positivo viene dai più giovani, che qui a san Lorenzo come in altre zone si stanno prodigando a collaborare per la distribuzione degli alimenti alle famiglie bisognose. È un segno bellissimo, non lasciamolo cadere, invitiamo anche altri a seguire il buon esempio di alcuni! Ma c’è anche un rischio, quello di moltiplicare le messe in chiave funzionale, per avere meno gente ogni messa, sfornando così tante messe anonime, con molte belle statuine mute. L’unica strada per opporsi a questo rischio è rendere tutti più corresponsabili, e quindi più partecipi personalmente, alla celebrazione. A partire dai dispositivi di sicurezza personale e dalle distanze, fino ad ogni aspetto della messa, il canto, le letture, le preghiere, la custodia delle offerte, il servizio d’ordine, che dovrebbe avere una caratteristica di servizio di accoglienza…tutto dovrà essere frutto di una responsabilità condivisa nella comunione!

 

 

Finalmente si esce fuori…ma da dove?

 

 

Dal 4 maggio si riapre, potremo uscire dalle nostre chiusure, anche se in modo ancora molto limitato. In realtà, le limitazioni saranno ancora notevoli e le fatiche e le paure per il futuro prevarranno. Ostacoli di natura amministrativa e burocratica spesso impediscono alle istituzioni, come lo Stato italiano o l’Unione Europea, di tradurre in tempo opportuno i progetti e gli stanziamenti in erogazioni concrete.  Tanti piccoli commercianti devono continuare la loro chiusura. Le famiglie avranno ancora i figli sempre a casa, almeno fino a settembre e non si sa quando potranno riprendere le aggregazioni, sportive, educative, parrocchiali. Di fronte a tutto questo la rabbia e lo scoraggiamento potrebbero avere la meglio nel nostro cuore. Ascoltiamo il vangelo di oggi, per capire se ha qualcosa da dirci, in questa nostra situazione.

Oggi nel vangelo, che è tratto dal capitolo 10 di Giovanni, si parla di un pastore che entra per la porta dell’ovile, chiama le sue pecore per nome e le fa uscire dal recinto. È chiaramente una metafora per indicare Gesù, che con la sua morte e resurrezione è in grado di donarci la vita per sempre, e dunque ci chiama a godere di questa vita, uscendo dal recinto. Di che recinto si tratta? Anzitutto possiamo cogliere il parallelo con la nostra situazione di lockdown: prima ancora di uscire “dalle nostro case”, il Signore ci chiama ad uscire dai recinti delle nostre chiusure, delle nostre rabbie e risentimenti, del nostro scoraggiamento e delle nostre paure.

Da dove nascono tutti questi sentimenti e come possiamo “uscire” da essi? In fondo nascono dal timore o dalla preoccupazione di essere lasciati soli, dimenticati, abbandonati, esclusi. In una crisi come questa lo Stato fa fatica a rispondere a tutte le esigenze e il timore cresce. Certo dobbiamo chiedere alle nostre istituzioni una maggiore capacità di intervenire rapidamente, di eliminare tanti ostacoli “burocratici”. Dobbiamo però anche ammettere che né lo Stato, né la Scienza, né la Tecnica hanno la “bacchetta magica” e saranno in grado di rendere la nostra vita così “sicura” come la vorremmo. Forse ci siamo illusi che gli scienziati e i tecnici potessero avere tutte le risposte alle nostre difficoltà e crisi, economiche, sociali, sanitarie. Non è così. Anche la scienza e la tecnica sono umane, richiedono tempo e soldi, sono imperfette e, benchè possano fare tanto, non ci “assicurano” in modo perfetto. Siamo creature fragili, è tempo di riconoscerlo e accettarlo, di fare pace con noi stessi e, nello stesso tempo, di sentire che, in questa fragilità, risuona una voce più potente, più autorevole, più profonda.

È la voce del “buon pastore”, che chiama ciascuna delle sue pecorelle per nome. Il nome dice l’identità profonda, unica, insostitubile della persona. C’è qualcuno che ci conosce meglio di chiunque altro, e la sua voce risuona nel profondo del nostro cuore, per rassicurarci, consolarci, donarci quel coraggio di cui abbiamo bisogno in questa situazione. Se ascoltiamo la sua voce, se lo seguiamo, lui ci condurrà fuori dal recinto, ossia fuori dalla paura, dall’ansia, dallo scoraggiamento, dalla rabbia, per donarci quella vita in abbondanza, che ci rassicura interiormente. È vero che in questo periodo non possiamo godere del sacramento dell’eucarestia domenicale, ma possiamo nutrirci della parola del Vangelo ogni giorno: lì risuona sempre la Sua voce di buon pastore, lì la Sua Parola incontra le esigenze più vere e profonde del nostro cuore e illumina ciò che è oscuro, infondendo serenità e speranza. Alimentiamo il desiderio dell’eucarestia con la preghiera quotidiana del Vangelo. Se la messa è stata finora un’occasione per ritagliarci un po’ di tempo personale di incontro con Dio, riserviamoci comunque quel tempo quotidiano o settimanale per il Signore, scegliendo un posto, sia esso la Chiesa o un angolo ben preparato del nostro appartamento o del nostro giardino. In quell’angolo, per quanto piccolo, il Signore Gesù, da buon pastore, ci farà uscire verso prati e pascoli abbondanti e nutrirà il nostro cuore di tutto ciò di cui ha bisogno.

Per tutto il resto, come cristiani, siamo chiamati a offrire al mondo una testimonianza di “buona coscienza”. Oggi in Italia si discute e litiga, perché la legge, preoccupata di dare indicazioni chiare, cerca di entrare nei dettagli della nostra vita quotidiana. Purtroppo ciò rischia di alimentare la confusione, perché è impossibile prevedere tutte le situazioni e quindi sorgono continuamente problemi di interpretazione.  In questa situazione complessa, se ascoltiamo la voce del buon pastore e usciamo dal recinto delle nostre ansie, saremo più in grado di guardare allo “spirito” della legge, e potremo fare appello ad una “retta e informata coscienza”, che ci aiuterà a discernere i comportamenti concreti da adottare di volta e in volta.

Lasciamo guidare dalla voce del buon pastore, e la nostra coscienza potrà orientarci in ogni cosa, nella prudenza e nella carità!

Aprire gli occhi!

 

Aprire gli occhi. C’è molta gente che oggi va dicendo: “aprite gli occhi!” e poi rifila la “sua” verità sulle cose e sugli eventi che stiamo vivendo, spesso con poco fondamento e molta ricostruzione “complottista”. Così si finisce per discutere, anche animatamente, tra persone, ma anche tra stati e tra popoli. Di chi è la colpa? Dove sta il complotto? Chi ha la verità?

Così anche i due discepoli, quelli che da Gerusalemme vanno a Emmaus, commentano i fatti appena accaduti della condanna del loro maestro e della sua morte in croce e discutono, anche animatamente, tra di loro. Si allontanano, tristi, da Gerusalemme,  e sono d’accordo solo sul fatto che le loro speranze sono ormai tramontate, litigando sull’interpretazione degli eventi. Ciascuno pretende di imporre la sua verità, la sua tesi “complottista”, la sua identificazione del colpevole. Allontanandosi dagli altri discepoli, da Gerusalemme, in realtà si allontanano anche l’uno dall’altro.

Ciò che ancora li tiene uniti, senza che ne siano davvero consapevoli, è Gesù risorto che, nei panni di un pellegrino, apparentemente inconsapevole degli eventi accaduti, si accosta a loro con molta discrezione e li fa parlare. Li aiuta a tirare fuori non soltanto i fatti, ma soprattutto i loro sentimenti, facendo emergere quella tristezza, quel lutto, quella fatica, che li sta divorando. Proprio da questa elaborazione del lutto, dovrà ripartire la loro speranza. Non si tratta semplicemente di elencare i dati, ma di offrirne una lettura più profonda, più vera, più aperta, una lettura del “cuore”.  I dati sono lì, disponibili alle diverse interpretazioni: Gesù è stato consegnato dai sommi sacerdoti, è stato condannato a morte, le donne sono andate al sepolcro e non hanno trovato il corpo dicendo di avere avuto una visione di angeli e anche alcuni discepoli sono andati a verificare e non hanno trovato il corpo ma lui non l’hanno visto.  Se questi sono i dati disponibili, è evidente che da essi può emergere una possibilità, certamente inaudita, ma anticipata da Gesù stesso prima di morire: il figlio dell’uomo dopo essere rigettato dai capi e ucciso, sarebbe risorto il terzo giorno. C’è una speranza concreta che emerge da quei fatti raccontati, ma i loro occhi non sono in grado di riconoscerla, perché il cuore è chiuso, duro, concentrato sul trovare le responsabilità e maledire il destino.

Solo la presenza di Gesù, che parla al loro cuore, permette loro di sciogliere le durezze e le chiusure e aprire gli occhi su un disegno più grande, più profondo, più vero, che moltiplica la gloria a misura della sofferenza: “non bisognava che il Cristo patisse per entrare nella sua gloria?”. Non che la sofferenza fosse “necessaria” di per sé stessa, ma di fronte al male del mondo essa diventa un passaggio che trasforma tutto il male in un bene più grande, lo avvolge e lo assume dentro alla gloria di Dio. I discepoli non sono ancora in grado di riconoscere l’autore di questa nuova interpretazione, che comincia a scaldare il loro cuore, finché non lo riconosceranno nello spezzare il pane, nell’intimità della cena serale.

Anche per noi accade così. Dopo la tristezza, il nostro cuore riprende a scaldarsi, dentro ci sono forze di bene e di amore, che ci rianimano, c’è Lui, che ci parla, ma ancora non ne siamo consapevoli. Come lo riconosciamo? Nello spezzare del pane. È certamente il pane dell’eucarestia celebrata, ma, ancor più, il pane dell’eucarestia vissuta, che viene spezzato per noi tutte le volte che un gesto di condivisione, incoraggiamento, attenzione, premura mette radici nel nostro cuore e lo riscalda. Questi gesti si moltiplicano, quando non solo i pani si spezzano per donarsi, ma anche i corpi, come accade nel sacrificio che tanti oggi stanno compiendo, come medici, infermieri e lavoratori. E la speranza si riaccende, perché in questi pani e corpi pieni di vita che si spezzano donandosi, noi riconosciamo Lui, e siamo finalmente in grado di cogliere un disegno più grande, più profondo, una prospettiva di futuro e vita più vera dentro alle difficoltà che stiamo vivendo. Ciascuno di noi, nella sua situazione, può offrire agli altri questo segno di speranza, può spezzare il pane della propria vita, facendosi dono per gli altri anche nelle piccole cose.

Spezziamo i pani della vita, e saremo gli uni per gli altri un segno capace di aprire gli occhi a riconoscere Colui che ci parla e apre il nostro cuore alla Speranza.

Gesù sta in mezzo

 

 

Quando chiudi tutte le porte, pensi di essere al sicuro, perché nessuno può più passare ed entrare in casa tua. Meglio anche se hai una serratura professionale. Così hanno fatto i discepoli, dopo la morte del loro maestro: si sono asserragliati in casa, per paura di fare loro stessi la fine del maestro, venendo accusati dai capi giudei di averlo seguito.

È in questo contesto così poco gratificante per un gruppo di uomini che aveva sognato di seguire il proprio maestro fino a dare la vita per lui, che Gesù si presenta “stando in mezzo” come dice il Vangelo di Giovanni. L’espressione “stare” si riferisce ad una postura in piedi, da persona vivente, risorta. L’espressione “in mezzo” dice il fatto che Gesù, senza passare per le porte, senza entrare nella sala, senza rompere l’unità del cerchio di persone, probabilmente sedute, si presenta come colui che è in mezzo. Lui c’era già da prima, anche se loro non potevano vederlo: semplicemente ora si manifesta, offrendo un segno chiaro e un dono preciso che permette loro di fare esperienza della sua resurrezione.

Il modo con cui Gesù si presenta, stando in mezzo, dice qualcosa della stessa realtà di risorto: egli è ormai salito al Padre e dunque può godere della sua presenza escatologica, cioè in grado di oltrepassare il nostro normale modo di vivere lo spazio e il tempo. Egli è presente sempre e in ogni luogo e può manifestarsi ai suoi discepoli, in mezzo a loro, con la massima libertà immaginabile.

Questo significa che la sua umanità di risorto è anche in grado di presentarsi all’improvviso, senza nostra collaborazione, anche in mezzo al nostro cuore. Gesù è in mezzo alle nostre paure e ai nostri pensieri. Mentre noi ci chiudiamo in noi stessi, per via delle paure, delle ferite, delle ansie, lui solo può entrare e uscire dal nostro cuore con la massima libertà, come creatore e signore, per donarci quella consolazione, quella pace, che ci spingono finalmente ad aprirci alla vita.

Gesù sta in mezzo anche alle nostre relazioni, familiari, amicali, affettive, che in questo momento sono messe alla prova, o perché siamo troppo distanti o perché siamo troppo vicini. Siamo troppo distanti dai nostri amici, dalle persone care, da chi vorremmo oggi abbracciare o anche solo rivedere, condividendo una passeggiata, prendendo un caffè. Ciononostante possiamo sperimentare una vicinanza diversa, più interiore, più spirituale, più vera, perché Gesù è in mezzo a noi.  Siamo invece troppo vicini in famiglia, con chi amiamo ma spesso facciamo fatica a sopportare, nei suoi limiti e nelle sue esigenze. Quanto spesso perdiamo la pazienza, il controllo, e capita di dire cose di cui poi ci si pente, coi figli, coi genitori, tra coniugi! In mezzo a tutto questo poi domina la paura: quando finirà tutto questo? Ce la faremo? Come ne usciremo? Proprio mentre siamo presi da queste fatiche, da queste domande e da queste paure, Gesù viene e sta in mezzo a noi, per dirci: “pace a voi”! Lui solo può davvero darci la pace: apriamogli il cuore senza paura, preghiamolo come mai abbiamo fatto finora, per sentire la potenza della sua consolazione pasquale, che è il dono della resurrezione, nel modo in cui essa si manifesta nella nostra vita.

Gesù sta in mezzo alle piaghe che ci fanno soffrire e ci mostra le sue piaghe. Egli infatti mostra ai suoi discepoli i segni sulle mani e sul costato, che da ferite di chiodi e di lancia son diventate feritoie d’amore. I discepoli lo riconoscono e sono pieni di gioia. Così anche le nostre piaghe e fragilità si trasformano nelle sue e lasciano uscire il profumo della pace, della consolazione, il dono della vita. Insieme a questo lui ci dona un altro sguardo, più alto, più vero, più completo, sulla nostra vita. Uno sguardo rappacificato, con noi stessi e con gli altri.

Così anche noi, come i discepoli, vedendo le sue piaghe e riconoscendo come guarisce le nostre, siamo in grado di riconoscerlo. Come Tommaso, anche noi non abbiamo più bisogno di toccare, perché siamo stati toccati dalla potenza dello Spirito, nel più profondo del nostro cuore. Ci sentiamo troppo lontani dagli altri, sentiamo la mancanza del tocco, della vicinanza fisica? Avviciniamoci al centro della nostra vita, lasciandoci toccare da lui. Come i punti del cerchio che, se si avvicinano al centro, si avvicinano tra loro, così anche noi non ci sentiremo più soli.

 

 

La Parola senza contatto (ancora)

 

In questo tempo di quarantena abbiamo dovuto modificare profondamente la nostra cultura e il nostro modo abituale di vivere. Siamo una delle popolazioni al mondo in cui la cultura familiare è più radicata. In particolare le festività sono il momento per ritrovarsi tutti insieme, coi propri nonni e nonne, cugini, zii, per stare fisicamente insieme, salutarsi con un bacio affettuoso o un bell’abbraccio. Questa mancanza oggi ci rende un po’ più tristi. Però abbiamo la possibilità di scoprire la potenza della parola, che invece abbiamo sottovalutato, lasciando che le nostre conversazioni fossero troppo spesso un po’ esteriori e forse superficiali, incapaci di toccare profondamente il nostro cuore.

Anche il vangelo della resurrezione di oggi non presenta alcun contatto fisico con Gesù, ancora, ma è tutto pervaso dalla potenza della Parola. Sono almeno quattro le modalità in cui la Parola coinvolge e trasforma la vita dei discepoli, ed anche la nostra. Vediamole nel dettaglio.

La prima parola che fa muovere il racconto del vangelo di Giovanni è quella della testimone, Maria Maddalena. Non è ancora una parola di fede, perché lei ipotizza che abbiano trafugato il corpo di Gesù. È tuttavia una parola che esprime affetto, vicinanza, preoccupazione, empatia, che si tramettono subito alle persone vicine, care. Sono i discepoli, Pietro e l’altro discepolo senza nome, quello amato, prediletto da Gesù, a darsi da fare, a correre verso il sepolcro. Quindi la parola umana, se è sincera, profonda, accorata, è in grado di far muovere il cuore e i passi delle persone verso il bene e l’amore. Sono proprio questi passi ad incamminare i discepoli verso il mistero della resurrezione di Gesù.

La seconda parola importante in questo racconto è quella di Gesù stesso, quella che orienta il discepolo alla fede. Arrivati al sepolcro, Pietro e il discepolo amato osservano cosa c’è dentro: le bende piegate e il sudario avvolto e riposto in un luogo a parte. Se Pietro si limita con il suo sguardo ad analizzare la scena, invece il discepolo amato vede e crede. Il suo sguardo è in grado di passare dall’analisi dei dati, il sepolcro vuoto, le bene piegate – se fosse stato un ladro non si sarebbe preso la briga di piegarle – alla fede. Egli ricapitola tutto quanto ha udito da Gesù, che aveva parlato ai discepoli del suo innalzamento, del suo ritorno al Padre, e ricompone tutti gli elementi in un unico atto del cuore: la fede. È un dono che egli riceve dalla parola di Gesù, che lui ascoltava in profonda intimità, cuore a cuore, con il suo maestro. Quel cuore squarciato sulla croce, da cui erano sgorgati sangue ed acqua, gli parla ora con la potenza di una vita che ha squarciato la morte.

La terza parola la troviamo negli atti degli apostoli, nella prima lettura. È la parola dell’annuncio della resurrezione: Dio l’ha resuscitato il terzo giorno. Certo loro, i discepoli, hanno avuto bisogno di fare esperienza diretta del risorto, per vincere il trauma della sua morte. Ma da quel momento in poi ogni uomo riceve la potenza di vita della resurrezione attraverso la parola del Vangelo. Non a caso essa viene definita negli Atti Parola di vita. Essa non è soltanto fiato, voce umana, ma parola di Dio, che opera in noi che crediamo, che ci tocca in profondità e ci trasforma radicalmente.

La quarta parola, che è contenuta già nell’annuncio del Vangelo, è la parola della Scrittura, sono i profeti che, come Pietro afferma, danno testimonianza che chi crede in lui riceve il perdono dei peccati per mezzo del Suo nome. La Scrittura attesta che la Parola per eccellenza, Gesù, il Cristo, è risorto e la sua potenza di vita è in grado di guarirci, andando in profondità nel nostro cuore.

Se oggi ci auguriamo “buona Pasqua”, con i nostri cari, facciamolo pensando che nelle nostre parole si renderà presente la Sua Parola di vita. Facciamolo ascoltandoci reciprocamente, in profondità, e augurando di cuore quella pace, quella consolazione, quella vita, che Gesù risorto vuole donare a ciascuno di noi personalmente, lui che solo è in grado di parlare all’intimità del nostro cuore e abbracciarlo con la potenza del suo amore.

 

 

 

Gesù e il pensiero della fine

 

 

Omelia Giovedì Santo

In questi giorni il conto dei defunti per il coronavirus ci sta portando al pensiero della fine, a volte con angoscia e paura, altre volte semplicemente come una possibilità da contemplare. In una cultura in cui la morte è tabù, non è detto che ciò non possa diventare un’opportunità di maturazione e di maggiore saggezza. Anche Gesù è attraversato dal pensiero della fine. Lo vediamo nel vangelo di Giovanni, che si esprime con questi termini: “avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine”. Amare fino alla fine non significa per Gesù solo l’imminenza della sua morte fisica. Significa invece, molto di più, quello che si potrebbe intendere in italiano se traducessimo così: “fino al fine”. Gesù intende amare fino al fine, alla finalità verso cui è orientata tutta la sua vita, che è il Padre da cui proviene e il suo amore sovrabbondante. Questo fine è allora anche compimento, pienezza, totalità, gloria che, fin d’ora, ha vinto la morte.

Il segno della lavanda dei piedi va quindi compreso all’interno di questo “pensiero del fine”, che motiva un duplice gesto. Il primo è quello di “deporre le vesti”, ossia dare la vita, consegnare sé stesso e l’amore del Padre, lo Spirito, per ricevere tutto da Lui. Il secondo è il gesto rivoluzionario di un’autorità, un potere d’amore, che si piega all’umile servizio del lavare i piedi, che nel mondo antico spetta allo schiavo. Si tratta di un amore che non può rimanere chiuso in un rapporto gratificante con il Padre, ma che è da sempre aperto alla creazione, alla partecipazione, e che è in grado di racchiudersi nelle cose e nei gesti più semplici, umili, quotidiani. Lasciamoci smascherare da questo gesto di Gesù, perché esso porti con sé un triplice, salutare cambiamento!

  1. Accettare di essere fragili e bisognosi, contro ogni vanagloria, orgoglio. Se le nostre insicurezze e fragilità ci portano ad essere aggressivi con gli altri, specie con chi ci è più vicino, abbiamo l’opportunità, se lasciamo che Gesù ci lavi i piedi, di accettare il fatto che i nostri piedi sono sporchi. È il primo passo!
  2. Accettare poi di consegnargli i nostri piedi sporchi, ossia di lasciare che Lui, la persona che più stimiamo e amiamo e davanti alla quale vorremmo mostrarci perfetti, prenda nelle sue mani questi piedi e tutto ciò che nel nostro cammino ci ha infangato, sporcato, appesantito. Di fronte a Lui possiamo mettere da parte ogni paura e atteggiamento di difesa e possiamo accettare che lui si pieghi su di noi e ci pulisca e alleggerisca.
  3. Il terzo passo è vivere, così liberati, la logica del servizio e dell’amore fino al fine. Si tratta di chinarsi sulle fragilità dell’altro, facendo i conti con le mie e le sue fragilità, proteggendoci a vicenda e curando con segni di tenerezza. Sono per lo più segni piccoli e quotidiani: un servizio, una telefonata, un sorriso, un chiedere “come và?”, un manifestare interesse e partecipazione per la condizione dell’altro, un abbandonare le pretese di giustizia, i conflitti, riposizionandosi con realismo ma anche con fiducia davanti all’altro. Anche la preghiera, gli uni per gli altri, che scaturisce dalla Parola di ogni giorno, è una fonte inesauribile di consolazione e di forza. La stiamo riscoprendo in questi giorni, anche pregando per don Alessio e per tutti i nostri cari ammalati. Continuiamo con perseveranza!

Se arriviamo a questo punto, possiamo dire che stiamo celebrando l’eucarestia. Non quella sacramentale, ma quella vissuta, ossia quella liturgia della vita, quel culto vivente, che è precisamente ciò che oggi Gesù ha istituito con il gesto della lavanda dei piedi. Così diventeremo piccole comunità familiari, domestiche, nelle quali si impara a vivere l’amore e si mette il Signore al centro della propria tavola, come nell’ultima cena, lasciandosi lavare i piedi da lui e imparando a farlo gli uni per gli altri. Certamente verrà il momento in cui queste piccole comunità si ritroveranno nella grande comunità eucaristica, dove la liturgia della Parola e della vita si compie nella celebrazione eucaristica domenicale. Allora la riscopriremo non come un precetto, ma come una necessità interna al nostro modo di vivere, al nostro essere, un alimento verso cui cresce ogni giorno il nostro desiderio e che ci riempie di consolazione e forza per vivere fino al fine, che è il Suo amore.

Viviamo fino al fine e anche la nostra fine sarà semplicemente un nuovo inizio!

 

Il regno del controllo e il regno del servizio

 

 

Gesù entra nella città di Gerusalemme. Ci sarà entrato tante volte, almeno una volta all’anno per celebrare la Pasqua. Come mai questa volta è così diverso? Perché tanta solennità?

Anzitutto dobbiamo sapere che questa volta Gesù entra a Gerusalemme venendo dalla parte del monte degli Ulivi. Il profeta Zaccaria qualche secolo prima, aveva profetizzato che il messia sarebbe entrato a Gerusalemme dal monte degli Ulivi e avrebbe preso possesso del tempio di Gerusalemme, instaurando la regalità universale di Dio su tutta la terra.

 

Ecco allora perché questo ingresso è così solenne: Gesù sta per instaurare il Regno di Dio! E non a caso, appena entrato a Gerusalemme, ci dice il vangelo di Matteo, Gesù entra nel tempio e comincia ad insegnare. Ma rimaniamo su questo momento così bello, festoso: la processione di ingresso doveva essere stata un fenomeno di popolo, improvviso e festeggiante.  Con i mantelli e i rami stesi sotto, nel luogo del passaggio di Gesù e tutta la gente che grida: Osanna al figlio di Davide. Osanna signifca: Salvaci Signore. È un grido liturgico che troviamo particolarmente nel Sal 118, in una processione che avveniva probabilmente durante la festa delle Capanne. Una festa in cui il popolo celebra il suo cammino nel deserto, ogni famiglia chiusa nella sua capanna, un po’ come oggi in tempi di coronavirus, ma con la tenda del convegno, quella in cui abita il Signore, al centro. Allora entrando Gesù a Gerusalemme è un po’ come se il popolo dicesse: il Signore viene ad abitare in mezzo a noi, nella tenda che si trova al centro dell’accampamento, nel tempio che è al cuore di Gerusalemme. Il Signore viene a salvarci: Osanna!!

 

Anche se quest’anno non partecipiamo alla processione di ingresso, con i ramoscelli d’ulivo, possiamo però immaginare che al centro del nostro accampamento, delle nostre città, che sono come tante tende in cui ogni famiglia è sistemata, ci sia la tenda del Signore, che non ci abbandona, che cammina con noi in questo deserto della pandemia. E noi da casa possiamo gridare Osanna, il Signore viene, viene a liberarci, anzitutto dalle nostre paure e chiusure. Con lui non abbiamo più paura.

Certo se lui sta venendo, gli equilibri nella città si spostano. Quando Gesù è entrato a Gerusalemme, la città -e in particolare i capi- si sono chiesti: “ma chi è costui?”, “cosa vuole?”. Il profeta Gesù, da Nazareth di Galilea, dicevano altri…questa curiosità, queste interpretazioni non erano senza malizia. La pretesa di questi capi era di controllare tutto, di governare senza permettere alle sorprese di Dio di portare nuova vita! Ma Gesù non entra a cavallo o con un carro, non entra da re di guerra, non dovrebbe fare paura. Lui entra da re di pace, cavalcando un’asina e un puledro, segno del compiersi della profezia di Zaccaria, che descriveva il messia come un re mite. Eppure si sa, chi vuole controllare tutto, non si lascia sorprendere, nemmeno dall’amore…

 

In questo momento di pandemia abbiamo bisogno di lasciare gli abiti di chi vuole controllare tutto. Non ce la faremo mai a controllare tutta l’aria che respiriamo…sento dire di persone che controllano i vicini o li denunciano…sento dire di persone che passano il tempo a controllare le statistiche e a fare previsioni…. Un consiglio: lasciamo perdere i numeri e le statistiche, che sono molto complessi e bisogna saperli interpretare! Facciamo piuttosto una telefonata in più ad una persona amica, o un piccolo servizio a chi potrebbe avere bisogno. Sempre con prudenza, certamente, e osservando le norme di comportamento indicate, possiamo reagire alla paura e all’eccesso di controllo solo con l’amore, la tenerezza, l’ascolto degli altri, l’umile servizio. Solo in questo modo saremo in grado di vedere come, al centro del nostro accampamento c’è la tenda di Dio…e noi siamo con lui! E la paura passa…

 

Sostituiamo quindi alla logica del controllo ansioso quella dell’amore tenero e del servizio, quella che Gesù è venuto a portare, instaurando il Suo regno, e che oggi celebriamo nella domenica delle Palme!

Il crocifisso di San Marcello (Omelia V Domenica di Quaresima)

 

Venerdì sera alle 18 durante la preghiera di adorazione eucaristica in San Pietro, abbiamo visto il crocifisso di San Marcello, che, secondo la tradizione, ha miracolosamente liberato il popolo romano dalla piaga della pestilenza nel XVI secolo. Era stato spostato per volere di papa Francesco e posto in San Pietro, perché anche nel nostro XXI secolo potessimo pregare attraverso questa immagine, così eloquente, nella sua sofferenza.

Qual è il senso di questa intercessione? Chiediamo miracoli ad una statua lignea, dal momento che ci riscopriamo anche oggi impotenti, con tutta la nostra scienza e tecnica? In altri momenti, in altri contesti, qualcuno non avrebbe esitato a parlare di superstizione. Qual è la differenza tra la superstizione e la fede e perché questo gesto di preghiera davanti al crocefisso non è affatto una superstizione ma un gesto autentico di fede?

Cominciano anzitutto con l’affermare che questo crocifisso non ha alcuna forza, in quanto oggetto di legno, ma nella misura in cui richiama in modo potente la fede di ciascuno di noi. La stessa cosa vale per Gesù: non è un supereroe che interviene all’ultimo momento per far volgere miracolosamente le vicende di ciascuno verso l’happy end.  È questa anche la difficoltà di Marta e Maria che si rivolgono a Gesù dicendo: “se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto”. Questa frase esprime una grande fiducia in lui, ma contiene anche una specie di remoto rimprovero, che suona così: tu puoi tutto, tu avresti potuto farlo, perché non lo hai fatto? Perché non lo hai voluto fare? È anche la domanda angosciosa che ciascuno di noi fa, di fronte all’esperienza del lutto di persone conosciute, vicine, parenti. A questa domanda Gesù non risponde a parole, ma con tutta la sua persona, sentimenti e azioni: si turba profondamente, scoppia in pianto. Poi va al sepolcro.

È una risposta paradossale, che mette in questione proprio l’immagine di Gesù come supereroe, che inconsciamente ci costruiamo. Anche i giudei, amici di famiglia, prima si meravigliano dell’amore di Gesù verso Lazzaro e verso tutta la sua famiglia, poi pensano così: “In fondo è un uomo come tutti noi, un uomo il cui amore per gli altri lo porta ad essere debole, esposto. I miracoli che aveva fatto in precedenza, la guarigione del cieco, sono stati sovrastimati, lui non può far nulla, se non piangere con noi.”

Eppure quella che sembra una risposta mancante ci rivela la vera arma di cui è dotato Gesù, molto più letale nei confronti della morte di qualsiasi intervento in extremis. Gesù nella sua umanità così bella, così vera, così capace di assorbire e assumere il dolore, la fatica, la paura, la disperazione ci mostra il mistero del percorso che il Padre suo ha scelto per darci la vita. Gesù prende su di sé il male e la morte, la assume nella sua umanità, ripiena di Spirito Santo, cioè di vita divina, e in tal modo è in grado di distruggerla, da dentro.  Ciò che inizia a mostrarsi qui, nei confronti di Lazzaro, si compirà pienamente sulla croce: l’ultimo soffio vitale del Cristo è dono dello Spirito, dono d’amore, che trasforma da dentro tutta la storia del mondo, condannata alla morte, e la apre alla potenza della resurrezione. “Io sono la resurrezione e la vita”, dice Gesù a Marta, rispondendo all’affermazione di fede di questa donna, sulla resurrezione futura, nell’ultimo giorno.  “Lo credi tu?”: la fede è precisamente la nostra interiore e totale adesione, frutto anch’essa del dono dello Spirito, alla croce come fonte di vita, come canale che Dio stesso ha scelto per darci la vita, non perché due legni possano dare la vita, ma perché lui stesso è la resurrezione e la vita.

Così la resurrezione di Lazzaro, o, meglio, il suo ritorno alla vita, altro non è che un segno, l’ultimo, il più impressionante, di qualcosa di molto più grande e definitivo. Ogni nostra guarigione, fisica, psicologica, morale, è sempre un dono, un segno, di un dono molto più grande, che il Signore fa a tutti coloro che anche in queste ore, come in ogni istante della storia del mondo, stanno facendo con lui il passaggio.

La croce è via di resurrezione e nelle piaghe del crocifisso di San Marcello noi contempliamo l’onnipotenza dell’amore di Dio, il vero e definitivo “miracolo”, che rende efficace anche la nostra supplica.

Gesù rivoluzionario! (Omelia IV Quaresima Anno A)

 

Gesù è un rivoluzionario, non in senso politico o militare, ma nel senso più radicale del termine, perché sovverte le ideologie, ossia l’utilizzo dei saperi, scientifici, sociologici, teologici ecc. per mantenere il potere e apre una possibilità di conoscenza e di libertà anche a chi non necessariamente sia detentore di particolari poteri.

Nel racconto evangelico di oggi c’è infatti un itinerario che ribalta completamente le aspettative umane: l’uomo cieco, che per la sua condizione umana è una persona socialmente marginale, alla fine ci vede non solo fisicamente ma spiritualmente cioè diventa un uomo libero di camminare nella luce; invece coloro che credono di vedere, ossia i farisei che gestiscono il potere della scienza esegetica, alla fine diventano ciechi, schiavi delle tenebre, intrappolati nella loro ideologia, funzionale al potere.

Questo itinerario è caratterizzato da un riconoscimento progressivo che l’uomo cieco attua e che, se vogliamo, è lo stesso nostro itinerario della Quaresima, che ci conduce a riconoscere la luce della Pasqua, della resurrezione. In fondo è anche l’itinerario della vita. Esso ha un punto di partenza inequivocabile, senza il quale il processo non potrebbe innescarsi: si tratta del primo incontro con Gesù e del dono assolutamente non richiesto che lui gli fa: la guarigione fisica.

Questo ci porta a considerare come anche il nostro itinerario parte da qualche dono immeritato, perlopiù non richiesto, tantomeno dovuto. Ci vuole un po’ di umiltà per riconoscerlo e comprenderne la provenienza: ad esempio il dono della vita o il dono della guarigione fisica dopo una malattia, mai come oggi sappiamo che si tratta di un dono, di cui essere grati. Non solo, ma anche la nostra intelligenza è un dono suo, con tutti le conoscenze scientifiche e gli apporti della tecnica: pensiamo anche a tutti i progressi della medicina e a quanti passi in avanti sta facendo oggi, durante questa epidemia. Da qui, dalla consapevolezza di questi doni parte l’itinerario, che tuttavia rischia di essere bloccato dalla mentalità dei farisei, contro i quali si deve scontrare l’uomo, oramai ex cieco, che ha riconosciuto il dono ricevuto.

I farisei, accusando di Gesù di guarire in giorno di sabato, hanno cercato di utilizzare la loro scienza esegetica, in modo assoluto, ideologico, sganciato dalla realtà, funzionale al loro potere e per questo sono diventati ciechi, cioè incapaci di riconoscere il dono della guarigione in quest’uomo e anche nelle loro vite…alla fine diventano incapaci di riconoscere la realtà!

Questo accade anche nella nostra società, quando si utilizzano la scienza e la tecnica per il potere, chiedendo ad esse una sicurezza che non possono dare. È di qualche giorno fa la notizia che un capo di stato ha cercato di acquistare le linee di ricerca vaccinica di un laboratorio tedesco, a suon di miliardi, quando non si sa nemmeno se quel vaccino davvero funzionerà. Gli scienziati fanno delle ipotesi, che sono fondate su dati in evoluzione, dei quali non hanno la padronanza assoluta.  Si tratta di un sapere umile, e proprio per questo vero, perché è esigente e procede per ipotesi, esperimenti, verifiche, giungendo a giudizi sempre più corretti, ma mai assoluti.

Allora siamo chiamati, come l’ex cieco, a formulare un giudizio più profondo, che parte da tanti elementi della realtà intorno a noi e in noi. Se io sono stato guarito, dice l’ex cieco dalla nascita, questo è un dato di fatto che non può che provenire da Dio. Se dentro di noi troviamo una serenità, una forza, una pace che ci permette di affrontare le difficoltà, anche quelle di per sé insuperabili, come l’angoscia per la salute dei nostri cari, allora un giudizio più profondo, più complessivo, ci porta a dire: solo Dio può fare questo, può darci forza e consolazione! C’è una forza segreta, misteriosa che ci porta ad andare avanti, ad aprirci alla realtà intorno a noi e in noi, a non avere paura, a onorare la nostra libertà, e questa forza scaturisce dal punto più profondo e più vero di noi, che chiamiamo cuore, quello che è sempre inquieto finché non riposa in lui, nel figlio dell’uomo, colui che da la vita per noi!

Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce diceva un grande scienziato e filosofo, Pascal.  Ecco l’itinerario del cieco che, avendo attraversato diverse prove poi giunge una seconda volta, ormai più consapevole, da Gesù, è l’itinerario del cuore. Nella prima occasione di incontro aveva semplicemente ricevuto il dono, ora il suo cuore ne riconosce l’autore, prostrandosi ai suoi piedi e dicendo semplicemente: “Credo”.

Al contrario chi pensa di vederci già, per rimanere attaccato alle sue sicurezze, al suo potere illusorio, diventa cieco. Questa è la rivoluzione di Gesù!