Per comprendere meglio cos’è il Vangelo alla sua origine e perché ha dato forma ad un genere letterario dobbiamo ricorrere a San Paolo, il primo autore neotestamentario che ha coniato questo termine, prendendolo dalla traduzione greca LXX di Isaia e adattandolo alla sua particolare visione e missione.
Il messaggio di Isaia è di grande consolazione, è un Vangelo per gli umili e i poveri di Sion. In Isaia si trova non a caso una ricorrenza significativa del verbo “evangelizzare”, che sarà poi usato da Paolo e dai Vangeli. Qual è l’esatta connotazione di questo verbo?
In Is 40, 9 il messaggio che il misterioso annunciatore deve portare a Gerusalemme è un evento già verificatosi, ossia la presenza di Dio: “Ecco il vostro Dio”. Dio, attraverso l’annunciatore, esprime un messaggio del quale egli stesso è il contenuto.
In Is 52, 7 – 10 la liberazione e la salvezza di Sion sono una realtà già presente ed accaduta e l’evangelizzatore ha solo il compito di rendere Sion consapevole che su di essa ormai regna definitivamente il suo Dio. Egli porta in se stesso, nel suo corpo di annunciatore (cfr. i piedi) la bellezza del messaggio che annuncia.
Saranno poi le folle, (Is 60, 6) le moltitudini provenienti da tutte le nazioni ad evangelizzare Gerusalemme, ossia a proclamare la lode del Signore portando tutte le ricchezze del mondo (cammelli, dromedari, oro e incenso).
In Is 61, 1 – 3 il verbo evangelizzare si trova al centro di due verbi di invio profetico (consacrare e mandare) il cui soggetto è Dio. Seguono poi una serie di altre azioni all’infinito (fasciare, gridare, consolare, allietare, dare) che sono tutte specificazioni dell’azione di “evangelizzare”.
Dunque l’azione di evangelizzare in Isaia non è solo un messaggio vocale, ma è una realtà che passa attraverso la persona dell’annunciatore (servo o moltitudini), trasformandolo con la bellezza di ciò che annuncia. Si tratta di Dio stesso e della sua presenza nel popolo, capace di regnare senza più nemici: la parola evangelizzatrice attesta e in certo modo rende presente Dio stesso a Gerusalemme. Evangelizzare comporta quindi anche la proclamazione di quella liberazione e consolazione, che il popolo possiede quando Dio regna su di lui.
Questa digressione isaiana ci aiuta ad comprendere la tematica teologica del Vangelo in Paolo.
Nel contesto della prima lettera ai Corinzi, in cui Paolo si mostra preoccupato dell’unità della Chiesa corinzia a causa delle divisioni e fazioni che vi erano nate, a causa di anime pervase da entusiasmi carismatici e da una sapienza umana che tendeva a staccarsi dal Vangelo, alla fine Paolo è costretto a chiarire il “Suo” vangelo, perché i Corinzi vi possano aderire trovando in esso il sostegno della fede e il fondamento dell’unità ecclesiale. Al c. 15 Paolo inizia solennemente introducendo la proclamazione del Vangelo con un avvertimento a mantenerlo nella forma in cui l’hanno ricevuto da lui, perché altrimenti avrebbero creduto invano. Si usano qui dei termini tecnici in greco ( annunciare, ricevere ) che mostrano che qui Paolo sta compiendo un’operazione di trasmissione di un deposito tradizionale che lui stesso ha ricevuto (cfr. 11, 23). Il vangelo che Paolo annunzia non è quindi qualcosa che lui si è inventato, altrimenti avrebbe corso invano (Gal 2, 2), ma che ha ricevuto per rivelazione di Gesù Cristo (1, 12) e confrontandosi con gli apostoli ( 1, 13 ). Ciò dunque che Paolo annuncia lo ha ricevuto per mano di Dio e della Chiesa stessa e in tal modo lo trasmette ai Corinzi perché anch’essi lo ricevano nella stessa forma. La forma è l’essenza stessa del Vangelo e per questo non deve essere mutata, per la salvezza di coloro che lo ricevono. Il riferimento alla salvezza mostra che il dinamismo del Vangelo oltrepassa la pura e semplice proclamazione orale. Il Vangelo non è semplice annuncio orale ma, come esprime il termine stesso nella sua duplice accezione – esso può indicare sia l’annuncio di vittoria che la ricompensa per tale annuncio – è anche ricompensa interiore ed esteriore (1 Cor 9, 18), ossia giustizia e potenza di Dio che opera per la salvezza (1, 16 – 17) e infine salvezza stessa, attraverso segni e prodigi (Rm 15, 19). Ritroviamo qui l’originaria accezione isaiana di questo termine: evangelizzare significa annunciare da parte di Dio un evento già accaduto, ossia la presenza di Dio e la sua salvezza.
Al v. 3 si ripetono i termini tecnici della trasmissione dopo i quali inizia il contenuto stesso del Vangelo, quello che Paolo ha cura che rimanga nella stessa forma in cui lui stesso l’ha ricevuto. Esso si sviluppa in quattro stichi, con un parallelismo aba’b’. Questo mostra che si tratta proprio di una formula tramandata oralmente, per facilitare la memorizzazione nella comunità cristiana.
A Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture
B e fu sepolto
A’ è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture
B’ e fu manifestato a Cefa e ai dodici.
Si può vedere il parallelismo nel riferimento alla Scritture, nell’opposizione semantica morì / fu risuscitato e nei verbi al passivo fu sepolto / fu manifestato.
Il cuore del Vangelo sta nel mistero Pasquale di Cristo, morto e risorto. Non a caso i racconti della passione e della resurrezione di Cristo sono certamente il nucleo più antico del Vangelo come genere letterario. Tutto si sviluppa attorno a questo nucleo generativo, che è il mistero della passione di Gesù Cristo, della sua morte in croce e della sua resurrezione avvenuta il terzo giorno. Un elemento importante è il riferimento alle Scritture. Gesù è morto e risorto il terzo giorno secondo le Scritture di Israele. In questo evento di morte e resurrezione del messia la prima comunità cristiana ha visto il compimento delle Scritture di Israele, che in questo contesto vengono viste complessivamente alla luce della direttrice profetica, che annunciava il messia trafitto (Zc 12, 10 – 12) e il servo di jhwh sui cui si è abbattuto il castigo che ci da salvezza ( Is 53 ). Anche l’espressione “terzo giorno” è un luogo teologico classico delle scritture di Israele per indicare la salvezza operata misteriosamente da Dio.
Quindi il Vangelo ha certamente un contenuto, che è la rivelazione di Dio in Gesù Cristo, nella sua morte e resurrezione. Esso è dunque Vangelo di Dio, nel senso che procede da Dio e che ha Dio per oggetto (Rm 1, 1; 15, 16) , e similmente vangelo del Figlio (Rm 1, 9).
L’evento della resurrezione richiede poi dei testimoni, persone dalle quali fu visto Gesù e quindi apparve: Esse sono anzitutto Cefa e i dodici. Viene confermata la priorità di Pietro all’interno del collegio dei dodici. Attraverso una serie di connessioni con la particella temporale “poi” (epeita) si chiariscono anche gli altri testimoni, più di 500 e poi giacomo e tutti gli apostoli.
Da ultimo, come staccato dal precedente consesso degli apostoli, ma al contempo sempre parte della lista, si colloca Paolo stesso, il quale si rappresenta come un aborto davanti alla manifestazione di Gesù risorto. L’aborto è immagine profetica e sapienziale (Gb 3, 16) per indicare una promessa di vita e di vocazione che è mancata, ma la grazia di Dio è stata più forte e non è stata vana (1 Cor 15, 10).
Il processo con cui la rivelazione di Dio è entrata nella vita di Paolo e l’ha trasformata è descritto da Paolo stesso con un’immagine legata alla generazione anche nella lettera ai Galati (cfr. 1, 15 – 16). Infatti la sua vocazione è stata una chiamata fin dal grembo della madre, come è avvenuto al profeta Geremia, consacrato, ossia messo a parte da Dio per la sua missione prima che uscisse alla luce della vita (Ger 1, 5; cfr. anche Is 49, 1b). Come per Geremia ( cfr. Ger 15, 10 ) anche per Paolo tale vocazione sembra smentita dai fatti, ma poi per grazia di Dio ritrova la propria fecondità.
Questo processo rigenerativo che si è attuato nella sua persona non è estraneo al Vangelo,anzi proprio il Vangelo è il percorso attraverso cui si compie tale rigenerazione che rende padri, figli e fratelli e che crea la famiglia della comunità cristiana. Scrivendo ai Corinti Paolo stesso ammette di essere lui ad averli generati tramite l’annuncio del Vangelo (1 Cor 4, 15; cfr. anche Gal 4, 18 – 19), ristabilendo la sua priorità rispetto a tutti i maestri e pedagoghi che facevano mostra di sapienza presso la comunità corinzia.
Quindi il Vangelo, oltre a essere di Dio e di Cristo, in senso soggettivo e oggettivo, come abbiamo visto sopra, è anche di Paolo (cfr. Rm 2, 16) sia nel senso che lui è l’annunciatore, sia in un senso lato, che lui stesso è in qualche modo oggetto di tale rivelazione, perché la porta nella sua carne. Come già si era visto in Isaia, l’annunciatore porta nel suo corpo la bellezza trasformante del messaggio che annuncia. Paolo è infatti colui che ri – presenta nella sua carne, attraverso le sofferenze legate all’annuncio, Gesù cristo crocifisso (Gal 3, 1), fino al punto di poter affermare che non è più lui a vivere (Gal 2, 20) ma è Cristo a vivere in lui e a produrre nella sua carne i segni della sua presenza (cfr. Gal 6, 17).
