1. 1 LA QUESTIONE ERMENEUTICA E TEOLOGICA DEI SINOTTICI

In “de consensu evangelistarum”  Agostino compie un tentativo di risposta alle obiezioni degli avversari pagani, che criticavano i vangeli sottolineando in particolare le contraddizioni tra di essi. Egli non si sottrae al riconoscimento della diversità tra i quattro vangeli, anzi la sottolinea particolarmente, fino a portarla alle estreme conseguenze. Proprio all’inizio del suo libro (I, 6)[1] egli sottolinea la diversità tra Luca e Matteo sintetizzandola nel diverso approccio “figurale”, che essi hanno utilizzato. Infatti Matteo ha descritto Gesù come un re, invece Luca come un sacerdote, mediatore tra Dio e l’uomo. Eppure proprio questa diversità, secondo Agostino, sta dentro una superiore armonia tra i due Vangeli: sia dal punto di vista regale che da quello sacerdotale, essi hanno descritto Cristo anzitutto come uomo.  A prescindere dal contenuto della sintesi agostiniana che concentra in modo oggi non più accettabile dal punto di vista esegetico la figura regale esclusivamente in Matteo e quella sacerdotale esclusivamente in Luca, il principio ermeneutico da lui utilizzato sembra ancora valido.

Egli lo utilizza anche nel descrivere la passione, morte e resurrezione di Cristo. Non ha paura di sottolineare che qualcuno ha tralasciato cose che altri hanno detto, perché da queste scelte “redazionali”- come ci esprimeremmo noi oggi – emerge l’unica verità.[2] Infatti dietro alla differenti scelte narrative soggiace il concorde intento di comunicare l’unico evento di passione, morte e resurrezione del Signore.

Si evidenzia qui un principio fondamentale dell’ermeneutica dei vangeli sinottici, che si può riassumere con il motto del poeta latino Orazio, che riprende un antico principio filosofico greco: “quid velit et possit rerum concordia discors”.( trad. “ Quale sia la volontà e il potere della concordia discorde in tutte le cose.” [3]

La realtà si mostra attraverso una tensione sempre rinnovata tra polarità contrarie, che nella loro relazione vengono trascese verso un’armonia unitaria. Questo principio filosofico viene applicato da Agostino all’ermeneutica dei vangeli[4] per affermare che le tensioni che si manifestano tra un vangelo e l’altro costituiscono lo spunto per approfondire un’armonia di significato più radicale e profonda. Quindi, per Agostino, non bisogna temere le contraddizioni tra i testi, al contrario è importante sottolinearle, perché esse sono segni di quella particolare ottica teologica con cui ogni evangelista guarda allo stesso mistero di Cristo. L’accesso diversificato al mistero di Cristo non ne pregiudica l’unità e armonia ma la rafforza, mostrandone al contempo la ricchezza e complessità.[5]

 

Lo stesso Agostino non si mostra poi sempre al livello del principio ermeneutico di fondo che soggiace alla sua riflessione. In alcuni passaggi dello stesso trattato non evita il pericolo di un concordismo superficiale, come, ad esempio, quando pretende  di armonizzare due diverse tradizioni sulle parole del Battista, sostenendo che egli aveva dovuto pronunciarle entrambe, una prima e un poi.[6] D’altra parte non aveva in mano gli strumenti per identificare una fonte tradizionale soggiacente ai Vangeli.

In ogni caso, enunciando questo principio ermenutico fondamentale, Agostino combatte con successo contro due tentazioni sempre presenti nella Chiesa, entrambe riconducibili ad un razionalismo di fondo. La tentazione di modificare i vangeli togliendo tutto ciò che è discorde e armonizzando artificialmente tutto ciò che si può mettere insieme con un certo grado di coerenza e la tentazione di fare una scelta di parte togliendo tutto ciò che è meno affine ad una certa sensibilità. La prima tentazione è rappresentata dal Diatessaron di Taziano (160 – 175 d.C. ca.), ossi una unico racconto armonizzato dei quattro vangeli, che è stato letto nella liturgia della Chiesa di lingua siriana per secoli. La seconda tentazione è rappresentata dall’eresia di Marcione (100 – 160 ca.), che contrappone AT e NT a favore di quest’ultimo, cercando di purificare l’immagine di Dio da ogni apparenza violenta. In questo modo arriva anche a tagliare gran parte della letteratura neotestamentaria, “salvando” solo Luca e dieci lettere di San Paolo.

Il problema ermeneutico ed esegetico affrontato da Agostino si ripresenta nella modernità quando gli autori illuministi contestano la veridicità storica dei Vangeli anche sulla base delle discordanze tra i racconti. Inoltre si è incominciato a porre delle domande sulla dipendenza letteraria dei testi tra loro, sulle loro fonti (es. fonte Q) e sulla data della loro composizione, offrendo soluzioni diverse, ma tutte spinte dal comune tentativo di “spiegare” i vangeli a partire dalla descrizione accurata della loro genesi storico – letteraria. Il grande merito di questi tentativi è stato di aver ampiamente aperto lo studio dei Vangeli all’importanza e alla complessità della storia. Essi, come prodotti letterari di una certa epoca storico-culturale, vanno letti alla luce dei loro condizionamenti culturali e religiosi e ricostruendo le fonti, orali o letterarie, a cui hanno attinto.

Come vedremo meglio in seguito la ricerca sull’origine storico – letteraria dei Vangeli si è caratterizzata per un susseguirsi di teorie, alcune più generalmente accettate (teoria delle due fonti) rispetto ad altre, ma tutte fondate su una base altamente congetturale, ipotetica. Oggi siamo più consapevoli che non si può  “risolvere” il problema ermeneutico ed esegetico dei sinottici ricorrendo esclusivamente alla critica storica e ad una ricostruzione esatta delle reciproche dipendenze letterarie e nemmeno ricorrendo semplicemente al contesto storico – culturale del I secolo d.C e ai suoi generi letterari.

In tempi più recenti la “critica della redazione”, concedendo una maggiore importanza all’autore del vangeli, colui che materialmente ha cucito insieme le fonti e ha conferito la sua impronta teologica alla narrazione, ha potuto riequilibrare l’analisi esegetica attorno al principio ermeneutico tradizionale. Ricostruire la storia di un testo e le dipendenze letterarie è solo il primo passo per l’interpretazione, che deve poi analizzare il diverso utilizzo che gli evangelisti fanno delle stesse fonti e i loro interventi redazionali, per chiarire la loro particolare ottica letteraria e teologica. Tutte queste considerazioni saranno ampiamente riprese nel momento in cui si affronterà più nel dettaglio la storia dei metodi esegetici. Per ora basti sottolineare che il problema ermeneutico e teologico sollevato dai sinottici è tuttora attualissimo, reso ancor più urgente dalla coscienza letteraria e storica contemporanea e dalle sue domande.


[1] “Cum ergo Matthaeus circa regis, Lucas circasacerdotis personam gereret intentionem, utrique humanitatem Christi maxime commendarunt. Secundum hominem quippe Christus et rex et sacerdos effectus est, cui dedit Deus sedem David, patris sui, ut regni eius non esset finis 12 et esset ad interpellandum pro nobis mediator Dei et hominum homo Christus Iesus “ Trad. “Se dunque Matteo aveva condotto l’intenzione a riguardo della figura regale e Luca a riguardo della figura sacerdotale, l’uno e e l’altro hanno dato valore soprattutto all’ umanità di Cristo. Come uomo infatti Cristo è stato fatto re  e sacerdote; a lui Dio diede il trono di Davide suo padre, perchè del suo regno non vi fosse fine e l’uomo Gesù Cristo stesse ad intercedere per noi come mediatore tra Dio e l’uomo.” De Consensu Evangelistarum I, 6.

[2] “Per istos dies sanctae Paschae, sicut novit Caritas vestra, fratres, resurrectio Domini secundum omnes Evangelistas sollemniter recitatur. Sic enim narrationes suas conscripserunt, ut aliqua pariter dicerent, aliqua vero alius praetermitteret, nemo tamen a veritatis concordia dissonaret. Omnes dixerunt Dominum crucifixum, sepultum, die tertia resurrexisse; quomodo autem apparuerit discipulis, quia multis modis apparuit, alii alia dixerunt, quae alii praetermiserunt; omnes tamen veritatem conscripserunt.” Trad. “Durante questi giorni della Santa Pasqua, come la carità Vostra ha avuto modo di conoscere, fratelli, viene proclamata solennemente la resurrezione del Signore secondo tutti gli Evangelisti. Essi infatti scrissero le loro narrazioni in modo tale che alcune cose le dicevano in modo simile, altre invece qualcuno le tralasciava; nessuno tuttavia ha stonato la concordia della verità. Tutti hanno raccontato il Signore crocifisso, sepolto e risorto il terzo giorno; in che modo tuttavia egli apparve ai discepoli, poiché apparve in molti modi, alcuni dissero alcune cose, che altri tralasciarono. Tuttavia tutti hanno scritto la verità” Sermo 236/A “De Secunda Feriae Paschae”.

[3] concordia discors ‹konkòrdia…› locuz. lat. (propr. «concordia discordante»). – Si tratta di un’espressione del poeta latino Orazio in (Epistole I, 12, 19); il verso intero è: quid velit et possit rerum concordia discors («quale sia il significato e il potere dell’armonia discorde delle cose»), e attraverso un riferimento alla filosofia di Empedocle, è usata  per indicare come da una discordanza di elementi possa risultare un’armonia superiore.

[4] Non è certamente Agostino né l’unico né il primo dei padri della Chiesa ad applicare questo principio. Cfr, qualche secolo prima Ireneo di Lione cfr. Adv Haer. 3, 11, 7 – 9.

[5] Mi sembra questo il significato profondo che si può ancora attribuire alla tradizionale iconografia cristiana sui vangeli, tratta dall’Apocalisse, e ripresa da Agostino nei passaggi seguenti del “De Consensu”.  Riporto di seguito la traduzione a titolo di curiosità: “6. 9. Mi sembra dunque che fra quei ricercatori che hanno interpretato i quattro esseri viventi dell’Apocalisse 27 significando con essi i quattro evangelisti meritino – probabilmente – maggiore attendibilità coloro che hanno identificato il leone con Matteo, l’uomo con Marco, il vitello con Luca, l’aquila con Giovanni, che non gli altri che hanno attribuito l’uomo a Matteo, l’aquila a Marco, il leone a Giovanni. Per sostenere questa loro congettura essi si basarono piuttosto sull’inizio del libro che non sul piano globale inteso dagli evangelisti, cosa che invece bisognava di preferenza investigare. Era pertanto molto più logico che con il leone si vedesse raffigurato colui che sottolineò assai vigorosamente la persona regale di Cristo. Difatti anche nell’Apocalisse il leone è ricordato insieme con la tribù regale, là dove si dice: Ha vinto il leone della tribù di Giuda 28. Secondo Matteo si narra anche che i Magi vennero dall’Oriente per cercare e adorare il Re che mediante la stella era loro apparso come già nato; e dello stesso re Erode è detto che ebbe timore di quel Re bambino e per ucciderlo fece trucidare molti piccoli29. Che col vitello si indichi Luca non ci sono dubbi fra le due categorie di studiosi, e il motivo è da ricercarsi nella vittima più grande che soleva immolare il sacerdote. In effetti l’autore del terzo Vangelo comincia la sua narrazione con il sacerdote Zaccaria e ricorda la parentela fra Maria ed Elisabetta 30; da lui si raccontano adempiuti in Cristo bambino i segni misteriosi del sacerdozio veterotestamentario 31 e tante altre cose, che possono ricavarsi da una ricerca diligente, attraverso la quale appare che Luca intese descrivere la persona di Cristo sacerdote. Quanto a Marco, egli non volle narrare né la stirpe regale né la parentela o la consacrazione sacerdotale, e tuttavia appare occuparsi delle cose compiute da Cristo come uomo. Ora fra quei quattro esseri viventi egli appare raffigurato dal simbolo del semplice uomo. Quanto poi a questi tre esseri viventi: il leone, l’uomo e il vitello, si deve dire che essi si muovono sulla terra, cosa che si addice ai primi tre evangelisti, i quali si occupano prevalentemente delle cose che Cristo operò nella carne e dei precetti che diede agli uomini rivestiti di carne insegnando loro come debbano trascorrere la presente vita mortale. Viceversa Giovanni come aquila vola sopra le nebbie della fragilità umana e vede con l’occhio acutissimo e sicurissimo del cuore la luce della verità immutabile.”

[6] Cfr.II, 12, 29 “ Orbene, nei brani evangelici che ho proposto confrontandoli l’uno con l’altro cosa riterremo essere incompossibile? Forse l’aver un evangelista detto: A lui io non son degno di portare i calzari 149, mentre un altro: Di sciogliere il laccio dei calzari 150? In effetti, portare i calzari e sciogliere il laccio dei calzari a prima vista sembrano espressioni che si diversificano non solo per i termini o per l’ordine delle parole o per la forma del dire ma anche per il contenuto. Al riguardo si può certo indagare cosa in realtà abbia detto Giovanni e di che cosa si ritenesse indegno: se di portare i calzari o di sciogliere il laccio dei calzari. Se infatti egli pronunciò una di queste frasi, si dovrà concludere – così almeno sembra – che abbia detto il vero colui che fu in grado di riferire ciò che egli effettivamente disse; quanto invece all’altro, si potrà ritenere che, se ha riferito una cosa per un’altra, ciò facendo non ha mentito ma, ovviamente, è incorso in una dimenticanza. È tuttavia conveniente escludere nei racconti evangelici ogni sorta di falsità: non solo quindi quella che si commette mentendo ma anche quella che consiste nel dimenticare una cosa. E allora, se rientra davvero nella sostanza delle cose intendere in un senso le parole portare i calzari e sciogliere il laccio dei calzari in un altro, cosa pensi si dovrà concludere, per essere nella verità? Credo non resti altro che dire aver Giovanni usato l’una e l’altra espressione o in tempi diversi o una dopo l’altra. Ad esempio, egli poté dire così: A lui io non son degno di sciogliere il laccio dei calzari e nemmeno di portare i suoi calzari. In questa ipotesi un evangelista prese una parte dell’affermazione mentre gli altri ne presero un’altra, ma tutti narrarono la verità. Ma Giovanni parlando dei calzari del Signore, poté intendere questo soltanto: inculcarci la dignità eminente di Gesù e il suo abbassamento. In tal caso, qualunque cosa abbia egli detto, tanto cioè sciogliere il laccio dei calzari quanto portare i calzari, ha colto il vero senso della sua espressione – in questa ipotesi, identica – chiunque nel riferimento ai calzari riportato con parole proprie ha saputo vedere inculcata la nota dell’umiltà, significata appunto dai calzari. In tal modo nessuno dei narratori ha deviato da ciò che Giovanni intendeva asserire. Quando dunque si parla dell’accordo fra gli evangelisti occorre tener presente questo procedimento, che è utile e occorre imparare a memoria: non esiste menzogna quando uno narra una cosa in termini alquanto diversi da quelli con cui si espresse colui del quale son riportate le parole, purché il narratore sia fedele nell’esporre le stesse cose che intendeva tramandarci colui che pronunciò le parole riportate. In questo modo ci si fa conoscere, a nostra salvezza, che non è da ricercarsi altro all’infuori di quello che intende dire colui che parla.”

Pubblicato da bibbiainrete

prete cattolico particolarmente impegnato nello studio e divulgazione della bibbia e nell'animazione biblica della pastorale

3 pensieri riguardo “1. 1 LA QUESTIONE ERMENEUTICA E TEOLOGICA DEI SINOTTICI

  1. Invece sarebbero più utili, per me almeno, avere pubblicate da parte dell’istituto le dispense come fatto già per l’Introduzione alla Sacra Scrittura di volta in volta, per cominciare ad orientarmi in parte nella nuovo corso. Se è possibile.
    Grazie, anche per la serenità con cui insegni.
    Donatella

    1. Si Donatella, sar fatto subito attraverso il sito dell’istituto, Questo solo un canale per permettere le domande, visto che siamo in molti e non riesco ad avere un orario di ricevimento. Saluti.

      Il giorno 11 gennaio 2013 17:18, dondavidarca

  2. Mi entusiasma sempre sapere che nella diversità, anche se apparentemente contraddittoria, dei Vangeli la verità tramandata e vissuta sia sempre in continuità con l’unica vera legge dell’Amore di Dio che non ci allontana ma, attraverso lo Spirito Santo, ci porta gradualmente alla sua conoscenza.
    Grazie don Davide

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