il “bar mitzvah” del Figlio di Dio (Omelia per la Sacra Famiglia Anno C)

Ancora oggi il popolo di Israele osserva la tradizionale festa del bar mitzwah, che tradotto significa figlio del precetto. In questa festa i ragazzini dell’età di 12 anni vengono introdotti dai loro padri alla recita della preghiera, denominata shemà Israel, “Ascolta Israele”, e da quel momento in poi iniziano ad osservare l’intera Torà o Legge.

Anche Gesù, da buon ebreo, è stato condotto al tempio di Gerusalemme per essere iniziato alla Legge da suo padre Giuseppe. Possiamo immaginare Giuseppe che insegna a Gesù a legare i filatteri, in modo che questi astucci che contengono i piccoli rotoli, simbolo di tutta la legge, siano allacciati alle mani e a contatto con la fronte e fissati nel braccio sinistro per essere rivolti verso il cuore. Infatti, come recita lo shemà “ i precetti che oggi ti do ti stiano fissi nel cuore. Li ripeterai ai tuoi figli… te li legherai alla mano come un segno, e ti saranno come un pendaglio in fronte tra gli occhi”.

Gesù ascolta e obbedisce a Giuseppe e impara a conoscere da questo babbo saggio e religioso  quel legame d’amore che il Dio di Israele aveva stabilito con il suo popolo. Gesù è stato iniziato alla preghiera da un padre umano; lui il Figlio di Dio, ha avuto bisogno di un volto adulto, ad un tempo buono e severo, per entrare – come uomo – in rapporto con il Padre suo. Eppure come Dio la sua preghiera di uomo rimane  un mistero grande. Il mistero di un bambino in cui la parola dello shema risuona al punto da sprofondare negli abissi della persona del Figlio, fino a coinvolgere tutta la natura umana in un abbandono radicale e perfetto.

Questo mistero traspare per un attimo nella preghiera di Gesù, ma poi tutto torna alla consueta routine delle feste. Si mangia, si ritorna alle carovane e si riparte tutti per Nazareth. Senonchè, ecco che Gesù non si trova più. Tra i cugini non c’è, le famiglie amiche e vicine non l’hanno visto… che sia rimasto a Gerusalemme? Possiamo immaginare il panico di Giuseppe e Maria e l’angosciata ricerca in città, in mezzo alla confusione dei pellegrini. Solo dopo tre giorni, lo ritrovano al tempio. “Perché ci hai fatto questo? Tuo padre ed io, angosciati, ti cercavamo.” Sono le parole di una mamma giustamente arrabbiata. “Perché mi cercavate, non sapevate che io devo occuparmi delle cose del padre mio?”

La risposta suona ruvida come uno schiaffo, non soltanto alla mamma angosciata, ma soprattutto al babbo. Gesù contrappone nettamente il Padre suo a Giuseppe, segno di una obbedienza radicalmente più alta di quella dovuta al padre di famiglia. Cosa deve aver pensato Giuseppe? Luca registra semplicemente che i genitori li per li non capirono, ma che Gesù rimase sottomesso a loro. Si è trattato di un momento rivelativo  che richiedeva la massima pazienza e attenzione da parte dei genitori, che dovevano abbandonare la pretesa, se mai l’avessero avanzata, di aver già capito tutto di lui.  Avvolto dal mistero di Dio, questo bambino aveva già rivelato in un momento il suo destino: occuparsi della volontà del Padre suo, di Dio, che lo porterà a essere perduto a Gerusalemme a causa della morte e poi ritrovato dai suoi dopo tre giorni grazie alla resurrezione.

In Gesù ragazzino il mistero della sua vocazione di Figlio di Dio è già in atto, perché Egli, nel suo essere uomo, è radicalmente il Figlio.  Per analogia in ciascuno di noi il mistero della nostra vocazione è già da sempre, dal momento del concepimento, in atto nella nostra vita. Se in Gesù ragazzino si mostrano i segni del suo essere Dio, attraverso alcune situazioni che chiedono di essere meditate come fa Maria, anche in ogni bambino e ragazzo Dio pone dei segni particolari che indicano la volontà di Dio fin da piccoli.

In ogni bambino è potenzialmente contenuta la sua vocazione da uomo e questo richiede ai genitori un’apertura particolare a Dio e degli occhi abituati a contemplare le cose con le lenti della fede e a meditarle con pazienza. Soprattutto è necessaria la disponibilità a comprendere che ogni figlio è un dono e mai un possesso dei genitori. Dare loro il meglio di ciò che si ha, in termini di beni, cultura e valori, è necessario; aiutarli a fare le esperienze più ricche e formative è importante; sperare per loro una vita bella, lunga, piena di affetti e di responsabilità portate fino in fondo è naturale.  Però a volte i figli sembrano deludere le  attese o sembrano imboccare percorsi che, anche se non vi è in essi nulla di male, vanno al di la delle aspettative. Altre volte i conflitti in famiglia e la rabbia dei ragazzi celano un’insoddisfazione, un bisogno di autenticità e di amore che sono l’indicazione di una progressiva rottura del cordone ombelicale. La sfida di un genitore si gioca non nelle piccole obbedienze che riesce a strappare, o nelle imposizioni mal sopportate da parte di un’autorità non più riconosciuta come tale, ma nella pazienza di meditare sui comportamenti dei figli per aiutarli a leggere e purificare i loro desideri, educando la loro libertà. L’autorevolezza di un genitore sta tutta qui, nella capacità di liberarsi dall’ansia che deriva dall’identificarsi nelle vittorie e nelle sconfitte dei propri figli, per guardare con fede e semplicità a ciò che Dio va costruendo in loro e divenire suoi collaboratori. I figli non potranno che obbedire a dei genitori che crescono insieme con loro nella libera adesione al progetto di Dio. Come Maria che meditava tutte queste cose nel suo cuore… e Gesù le rimaneva sottomesso.

 

Pubblicato da bibbiainrete

prete cattolico particolarmente impegnato nello studio e divulgazione della bibbia e nell'animazione biblica della pastorale

Lascia un commento