Stefano e Filippo

Modelli per una Chiesa in uscita

 Stefano negli Atti degli Apostoli e le trasformazioni nella crisi

Il racconto del martirio di Stefano si compone di tre sezioni, la prima e l’ultima (6,8-15.7,54-8,1a) sono narrazioni dell’antefatto, del processo e della sua drammatica conclusione, mentre quella centrale riporta il lungo discorso di Stefano ai suoi accusatori. Rispetto ai due processi precedenti a carico degli Apostoli (cfr. 4,1-21; 5,17-41), qui le accuse rivolte a Stefano sono più circostanziate e riguardano il parlare contro il Tempio e contro la Legge: in questa contrapposizione si può notare una divaricazione sempre più grande delle vie tra la nascente comunità cristiana e la classe sacerdotale e scribale legata al Tempio di Gerusalemme. Inoltre viene aggravata la pena, da una fustigazione alla condanna a morte per lapidazione. Similmente anche gli effetti del martirio di Stefano saranno proporzionalmente più grandi in rapporto alla gravità della sua uccisione: da qui in poi infatti inizia una svolta per la Chiesa che la porterà a diffondersi fuori dai confini di Gerusalemme.  La parola si disperde (8,4) ma tale dispersione diviene una provvidenziale semina, fino ad arrivare in Samaria, con la predicazione del diacono Filippo. Ancor più, la partecipazione di Paolo alla lapidazione di Stefano pone la conversione stessa dell’Apostolo delle genti come uno dei frutti più importanti del martirio dei Stefano (At 7,58; 22,20).

Tutto questo passaggio è generato da una situazione di crisi, che appare molto feconda nella narrazione teologica degli Atti, ma che tale non deve essere apparsa, almeno all’inizio, ai suoi protagonisti ecclesiali. 

At 6,1-7: un passaggio nella crisi ecclesiale

Al c. 6 avviene il passaggio cruciale dalla Chiesa di Gerusalemme all’apertura paradossale al mondo, sia dal punto di vista geografico che culturale. Infatti il martirio di Stefano si colloca come evento-ponte che traghetta la Chiesa verso una feconda dispersione da Gerusalemme e dalla Giudea per tutta la Samaria, la Galilea e fino, come più avanti descriverà Luca, ad Antiochia di Siria. Dal punto di vista culturale questa dispersione riguarda prevalentemente i giudei di lingua greca, i cosiddetti ellenisti, che erano divenuti cristiani e che, per provenienza e lingua, potevano godere di una maggiore apertura al mondo greco-romano e pagano in generale. 

Tutto questo ha un antefatto, che scaturisce da un contesto di difficoltà “istituzionale” nella Chiesa. Era nato un problema che poteva potenzialmente essere deflagrante per la prima comunità cristiana, ossia una contesa culturale tra giudei provenienti da lingue e culture diverse. C’erano nella prima comunità cristiana sia i giudei di lingua aramaica e di provenienza prevalentemente galilaica (come la maggior parte degli Apostoli) o gerosolimitana, sia i giudei di lingua greca, che proveniva da vari luoghi della diaspora ebraica nel bacino del mediterraneo, come ad esempio Barnaba, che proveniva da Cipro (cf. 4,36). Il problema dell’assistenza e dell’onore dovuto alle vedove era molto sentito, in una cultura sociale in cui la vedova era privata della protezione dell’uomo e dunque aveva assoluto bisogno di una custodia e di un aiuto comunitario. Testi neotestamentari come Mc 12,41-44 che esalta la piccola offerta della vedova al Tempio lasciano trasparire l’alto onore tributato a questa categoria nella prima Chiesa, tanto da poter essere quasi compresa come una sorta di ministero all’interno di essa. La trascuratezza in cui erano tenute le vedove di lingua greca non poteva pertanto non costituire una grave sfida alla comunione interna alla Chiesa e causare una notevole tensione tra le due parti. Il problema affonda le sue radici nel gruppo stesso dei discepoli di Gesù, alcuni dei quali avevano molto probabilmente una provenienza greca: i giudei di lingua greca erano infatti molto presenti a Gerusalemme al tempo di Gesù ed erano concentrati soprattutto in alcuni quartieri della città santa. La spaccatura poteva quindi essere letale per la prima comunità cristiana. 

La questione arriva ai Dodici (v. 2) che se ne occupano con grande libertà interiore, mostrando la loro impossibilità a controllare direttamente una comunità così in crescita e così complessa come quella gerosolimitana. Essi indicano nuovi ministeri, per poter collaborare al servizio delle mense con nuove persone. I nomi dei “cosiddetti diaconi” sono tutti greci. Per servire la comunità di lingua greca erano necessaria persone in grado di comprenderne le esigenze e la cultura e la lingua. 

È quindi importante qui correggere una lettura troppo consolidate di questo passo degli Atti degli Apostoli. Quando si dice “servizio delle mense” non si intende un servizio pratico di carità, contrapposto al ministero di annuncio e di evangelizzazione, che rimarrebbe a carico dei Dodici. La mensa infatti indica, oltre che il pasto, anche il luogo della preghiera liturgica e comunitaria (cf. 2,46). Questo servizio indica la “presidenza” della comunità ecclesiale, con una chiara funzione di annuncio del Vangelo, come emergerà chiaramente dal ruolo missionario di Stefano. Quindi il servizio della Parola di cui si occupano gli apostoli è identificabile con l’annuncio kerigmatico, che rimane paradigmatico per i Dodici, come testimoni oculari di Gesù di Nazareth e della sua vita e ministero, dal battesimo di Gesù fino alla sua ascensione (cf. At 1,22). Ma anche il servizio delle mense dei nuovi ministri ha come obiettivo il nutrimento spirituale della comunità cristiana di origine giudaico ellenistica. Nella persona di Stefano tale ministero avrà la forma di un primo annuncio alle comunità giudaiche di lingua greca, presenti a Gerusalemme. 

La conclusione di questo antefatto è chiaramente dettagliata al v. 7: la parola di Dio cresceva e si accresceva anche il numero dei discepoli gerosolimitani. C’è un frutto missionario in questa rinnovata corresponsabilità nella guida della comunità e nell’annuncio della Parola. 

La figura di Stefano nasce da qui, da questa obbedienza allo Spirito da parte dei Dodici, che si rivelano abbastanza flessibili nel loro discernimento, da rinnovare profondamente anche la struttura della comunità cristiana, coinvolgendo nuove figure ministeriali, più inculturate all’interno dei mondi vitali del loro tempo. 

Quattro brevi considerazioni a margine di questa pagina degli Atti degli Apostoli:

1.  la Chiesa apostolica non teme i conflitti che si generano al suo interno, ma ascolta le esigenze e i bisogni sottostanti al conflitto interpretando la richiesta dello Spirito che da essi può emergere. Il conflitto si trasforma quindi in un’opportunità, da non evitare, da non mettere in sordina per paura, ma da cogliere per discernere i cosiddetti “segni dei tempi”. 

2. In questo discernimento i Dodici interpellano coloro che sono, per provenienza e cultura, immersi nel mondo che sono chiamati a servire. Si tratta di una saggia scelta di inculturazione. Essi non trattengono il “potere” nelle loro mani, ma sanno trasmetterlo, attraverso l’imposizione delle mani, che indica il passaggio di doni spirituali e di autorità nella fede. Questo passaggio valorizza un’autorità maggiormente carismatica, ossia più attenta a seguire il soffio dello Spirito, nella realtà concreta, in continuo mutamento, che ad una finalità “difensiva” della sua struttura. 

3. L’apertura e il coinvolgimento di nuove “culture” nell’autorità apostolica rende possibile una rinnovata potenza di diffusione dell’annuncio evangelico e la Parola di Dio si diffonde ulteriormente. Si può qui riflettere sul pieno coinvolgimento, oggi, di nuove culture e competenze che attendono di essere profondamente innervate dalla potenza feconda del vangelo e richiedono la piena partecipazione e autorità da parte di chi le sperimenta ogni giorno, ossia forme ministeriali che si riferiscono ai variegati ambiti culturali e di servizio della comunità umana. Non si tratta soltanto di creare degli organismi intraecclesiali di consultazione, ma di valorizzare pienamente la riflessione dei laici per il cammino sinodale e missionario della Chiesa. L’ambito della famiglia, della sessualità, della psicologia, della consolazione nella fragilità e nella morte, delle sfide tecnico-scientifiche, della comunicazione, dell’integrazione mente-corpo nella scienza e nella spiritualità, del dialogo con società e religioni non occidentali…non si può non partire da qui e da competenze acquisite a partire dalla vita e dalla storia di tante persone. Penso oggi in particolare al ruolo della donna nella società e alle complesse questioni legate al genere: non si può immaginare una crescita della riflessione spirituale e dottrinale in questi ambiti, da parte una teologia che rimanga troppo astratta e clericale per poter guardare dall’interno questi fenomeni umani, illuminandoli con la luce dello Spirito Santo. Penso anche alle culture giovanili e a come risultino lontane, nei loro linguaggi e modalità comunicative, dal linguaggio ecclesiale, liturgico e catechetico. Si colloca qui una sfida straordinaria per la Chiesa occidentale, che sta perdendo in modo vistoso il contatto con le nuove generazioni. 

4. Si può approfittare del percorso sinodale iniziato e delle tensioni ecclesiali che si avvertono, evitando di chiudersi nella paura, ma anzi cercando di rispondere alla crisi con un maggiore investimento di energie nella formazione e nella corresponsabilità. Le difficoltà “istituzionali” che la Chiesa oggi attraversa, con tensioni tra posizioni più progressiste e posizioni più conservatrici, non devono essere semplicemente bypassate. Si tratta invece di favorire nuove ministerialità legate all’annuncio del vangelo, che possano favorire il discernimento di tutta la Chiesa, nel rapporto con le “periferie” del mondo: da qui prenderanno forma anche le necessarie evoluzioni nelle forme della vita ecclesiale.

Mi posso chiedere come il ministero diaconale che esercito si inserisca in questo processo di Chiesa che abbiamo visto nel racconto degli Atti. Quali sfide e conflitti nella Chiesa di oggi? Quali opportunità di incontro con mondi anche lontani dai vissuti ecclesiali ordinari? Come il mio essere diacono si può esprimere dentro alle “periferie” del mondo attuale: il dolore della scomparsa dei propri cari, la fragilità della malattia, i disagi dell’adolescenza, le “partenze” dei giovani, le sfide familiari delle giovani coppie, le sfide ambientali, il tema della pace ecc.

At 6,8-15: Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo

Stefano, con il suo ministero di annuncio, si colloca esattamente qui, in questa intersezione tra la comunità cristiana e il suo ruolo di guida e la cultura che egli respira, a partire dalla sua nascita e provenienza. Egli è presentato come uomo pieno di fede e di Spirito Santo (v. 5): ha dunque le caratteristiche giuste per interpretare il soffio dello Spirito nel contesto concreto in cui è chiamato ad operare. 

A conferma di questo gli stessi Atti degli Apostoli iniziano con questa consegna fondamentale di Gesù, che è anche una promessa di intervento da parte dello Spirito: “riceverete la forza dello Spirito Santo su di voi e sarete testimoni di me a Gerusalemme, in tutta la Giudea e Samaria e fino ai confini della terra.” (At 1,18) Questo annuncio e testimonianza non si può compiere se non dentro all’azione dello Spirito Santo, che si esprime sia attraverso la forza retorica della Parola, sia attraverso segni compiuti in mezzo al popolo. Questa alternanza di segni di guarigione e di parole rivolte al popolo di Israele era già una caratteristica di Gesù nel racconto evangelico di Luca, che più volte descrive la sua parola come dotata di autorità, al livello stesso della Parola di Dio (cf. Lc 4,32.36; 5,1). Essa non è solo un’indicazione verbale, ma qualcosa che trasforma il cuore degli ascoltatori e che guarisce in profondità l’uomo. Stefano è conformato dallo Spirito Santo a questo modello cristico: egli dunque non è testimone solo perché comunica il vangelo della resurrezione, come contenuto della testimonianza, ma anche perché tale comunicazione trasforma il messaggero stesso nel suo contenuto. Egli è trasformato nel modello cristico e l’azione dello Spirito può esercitarsi allo stesso modo in cui faceva Gesù nel suo ministero storico. 

Come Gesù, anche Stefano sarà quindi destinato a suscitare opposizione e rifiuto da parte dei suoi interlocutori, ossia altri ebrei ellenisti presenti a Gerusalemme: sono qui descritti ebrei presenti a Gerusalemme e provenienti da varie parti del mediterraneo: la Cirenaica, Alessandria d’Egitto, la Cilicia e l’Asia come provincia romana. Non si capisce se si tratta di sinagoghe diverse presenti a Gerusalemme o di un’unica sinagoga, frequentata da un gruppo avente diverse provenienze, ma forse abbastanza compatto quanto a origine culturale e linguistica. Nonostante il conflitto e la resistenza suscitati dall’annuncio evangelico di Stefano, essi non riescono a resistere alla sapienza che proviene dallo Spirito. Si trattava infatti di una sapienza promessa da Gesù ai suoi discepoli, in contesto di persecuzione (cf. Lc 12,11-12; Lc 21,15). Non siamo di fronte ad una dottrina che è stata approfondita in modo teorico a partire dalle Scritture, ma di una conoscenza profonda, gustata, delle Scritture, all’interno del mistero messianico di Gesù di Nazareth, morto e risorto secondo le Scritture. San Paolo, quando ne parlerà al c. 15 della sua Lettera ai Corinzi, userà proprio una formulazione kerigmatica che fa riferimento alla morte e resurrezione secondo le Scritture, e che egli mostra di aver ricevuto e di non averla modificata sostanzialmente, ma di trasmetterla fedelmente. Nella logica narrativa degli Atti, il primo ad averla testimoniata a Paolo, con la sua vita, è proprio Stefano. 

In modo simile a quanto avvenuto a Gesù gli avversari di Stefano, non potendo opporsi a parole, lo attaccano fabbricando accuse false. Egli avrebbe parlato contro il luogo santo (il tempio) e contro la legge (v.13), mostrandosi blasfemo nei confronti di Mosè e di Dio (v. 11), in modo molto simile a come Gesù stesso era stato accusato (cf. Mc 14,58). In realtà Stefano non parla contro il tempio ma ne combatte l’assolutizzazione ideologica, secondo il modello dei profeti e dei sapienti di Israele. Il volto di Stefano, trasfigurato, irradia gloria, proprio nell’imminenza della sofferenza, così come anche in Gesù trasfigurazione e passione sono intimamente legate (v. 15).

Alcuni elementi di riflessione che si possono trarre da questo racconto della predicazione di Stefano e del suo arresto.

  1. Malgrado tutti i tentativi di trasformare il cristianesimo in una religione civile, che stabilizza e dà identità e unità alle istanze civili e sociali di una Nazione, bisogna affermare che nell’annuncio evangelico portato da Stefano c’è un’istanza di relativizzazione delle istituzioni storiche molto provocatoria. Stefano afferma in sostanza che il Tempio di Gerusalemme non è da considerarsi come un’istituzione assolutamente necessaria per mediare il rapporto con Dio, che la sapienza dei profeti ha già mostrato essere molto più libero e liberante della forma con cui si danno certe strutture (cf. At 7,48). C’è una sapienza che conduce ad un “di più”, ad una pienezza di significato indeducibile da istanze puramente sociali. L’annuncio della Parola si mostra così paradossalmente aperto alla novità e alla trasformazione storica, nella misura in cui ne relativizza il peso della tradizione. Esso infatti salda il proprio legame non con forme rigide, ma con Dio stesso, che parla all’uomo, al cuore dell’uomo e apre a Lui vie sempre nuove di annuncio e di vita.
  2. La particolare sapienza donata dalla Parola di Dio non è semplicemente una formula kerigmatica oggettiva, ma, più profondamente, un approfondimento esistenziale della Parola alla luce del mistero di Cristo. Esso comporta un gusto interiore, una luce profonda, capace di illuminare la vita personale e la storia, per indicare i sentieri che conducono alla vita (cf. At 5,20).
  3. La conseguenza di questo è che la forma della Chiesa è sempre da riformare: la struttura apostolica della Chiesa, proprio rimanendo stabile in tutte le epoche attraverso il suo ascolto dello Spirito, mostra una grande flessibilità storica concreta, che plasma figure in evoluzione. Questo processo, che non avviene senza traumi e fragilità, ha un solo punto di equilibrio, dal quale non può mai deviare: l’unità della Chiesa nella sua radice apostolica.
  4. Tale processo di annuncio non può però accadere senza generare tensioni. Di fronte a Stefano e alla sua Parola c’è Saulo fondamentalista e persecutore della Chiesa. Egli proveniva dalla Cilicia, da Tarso, e la sua appartenenza era la medesima di Stefano. Ma Saulo, chiuso nella mentalità farisaica più rigida e zelante, non poteva umanamente comprendere la novità messianica costituita da Gesù di Nazareth, che doveva apparirgli come una bestemmia blasfema. Il messaggio evangelico, dirà poi Paolo, dopo la sua “vocazione”, è scandalo per i Giudei e stoltezza per i greci. Ma in esso c’è una sapienza superiore, che si rivela come potenza di Dio per chi crede. 

Quali elementi della mia vita ecclesiale, parrocchiale e diocesana o di comunità, ritengo possano essere riorientati, alla luce della Parola di Dio? Quali sentieri di vita mi sembrano più fecondi? Come è avvenuto in questi ultimi tempi il nostro discernimento sinodale come comunità? Quali resistenze ai cambiamenti?

Conclusione: la morte martiriale di Stefano in At 7,55-60 

Al termine del suo discorso Stefano ha una visione della gloria di Dio, nella forma del figlio dell’uomo seduto alla destra di Dio (7,56). Tale visione è preceduta, nel discorso di Stefano, da una serie di riferimenti a precedenti illustri apparizioni di Dio: ossia la teofania della gloria di Dio ad Abramo (v. 2) e l’apparizione dell’angelo a Mosè nel roveto ardente al v. 30. Dunque la testimonianza di Stefano è allineata da Luca ai grandi eventi della storia della salvezza, in cui Dio si manifesta non tanto in terre o luoghi di culto, ma agli eletti, destinati a soffrire l’incomprensione, il fallimento e il rifiuto: attraverso di essi infatti la salvezza fuoriesce dai confini prestabiliti. Come già aveva fatto Gesù, anche Stefano muore affidandosi al Padre e perdonando i propri nemici (vv. 59-60). Il processo di cristificazione del discepolo è portato a compimento, come pure la sua testimonianza, in una forma destinata a produrre il frutto della dispersione e della semina, proprio dentro al parossismo del male e della persecuzione (cf. 8,4). 

In ogni vocazione autentica nella Chiesa c’è un elemento di unicità e un elemento di “martirio”. L’unicità indica quell’aspetto propriamente personale del contributo che ciascuno può fare alla Chiesa, e che come tale è unico e irripetibile. E questo ci porta inevitabilmente a considerare come la testimonianza del credente comporti una dimensione, spesso inevitabile, di incomprensione. Se è condotta dallo Spirito essa precorre e anticipa i tempi, risultando più facilmente “integrabile” alla luce della storia successiva, e del suo percorso a volte tortuoso ma sempre sorretto dall’azione dello Spirito. Così la morte martiriale di Stefano, incomprensibile per i suoi contemporanei, diviene, nel racconto degli Atti, un passaggio di straordinaria importanza per il percorso della Parola di Dio, per l’espansione del vangelo, per la forza missionaria che questa testimonianza imprimerà nella favorevole dispersione della Chiesa.  

Mi posso chiedere come nella mia vita si è mostrato progressivamente il disegno di Dio, la mia vocazione ministeriale, le difficoltà che essa ha incontrato, ma anche gli aspetti provvidenziali di maturazione che ne sono scaturiti 

At 8, 26-40. Filippo e la conversione del funzionario etiope

Un incontro impossibile

Il racconto della conversione dell’eunuco e del suo battesimo è anticipato da una rapida sintesi dell’attività missionaria di Filippo in Samaria. Dopo l’uccisione di Stefano scoppia una violenta persecuzione contro la Chiesa a Gerusalemme, in particolare contro i cristiani ellenisti e ciò produce una dispersione di questi discepoli in Giudea e in Samaria. Il verbo “disperdere” in greco significa anche “seminare” e viene utilizzato da Luca due volte: la prima per riferirsi alla fuga dei discepoli (v. 1) la seconda (v. 4) per indicare come questi dispersi di luogo in luogo andavano annunciando la Parola. 

Questa dispersione diviene dunque una provvidenziale semina della Parola di Dio, al di fuori dei confini di Gerusalemme e del territorio della Giudea e della Samaria  Così si introduce la missione di Filippo in Samaria, che vede un primo episodio nella conversione di un’intera città (5-8), un secondo nel battesimo di Simon Mago (9-13)  e – dopo  un quadro narrativo in cui si parla dell’arrivo di Pietro e Giovanni da Gerusalemme (14-24) –  un terzo episodio con il battesimo del funzionario della regina Candace (26-40).

Questo episodio inizia con un personaggio che quando entra in scena negli Atti degli Apostoli, incarna sempre interventi inaspettati e secondo la volontà di Dio: l’angelo del Signore (cf. 5, 19; 10, 3; 12, 7ss; 12, 23; 27, 23). Egli entra in scena per ordinare a Filippo di recarsi sulla strada da Gerusalemme a Gaza, a mezzogiorno. La distanza tra Gerusalemme e Gaza è di circa 100 km e il narratore (probabilmente è lui ad aggiungere questa specificazione) ci spiega che si tratta di un luogo deserto. L’orario del mezzogiorno (è più probabile che l’indicazione sia di carattere temporale che geografico, anche se si possono intendere entrambe le connotazioni) non è così favorevole per viaggiare, dato il caldo e il sole a picco di questi luoghi desertici.

Il racconto fa emergere dunque che ciò che sta per accadere, l’incontro tra Filippo e il funzionario etiope, è un evento “statisticamente” molto improbabile, se non addirittura impossibile. Che un uomo viaggi a quell’ora verso Gaza e che Filippo si trovi proprio lì ad incontrarlo…solo la volontà di Dio poteva “architettare” questa improbabile connessione di eventi.

Da notare inoltre che Filippo non sapeva assolutamente il motivo di quel comando stranissimo, di recarsi a quell’ora in un luogo deserto. Questo non fa che rafforzare la percezione nel lettore della pronta obbedienza di Filippo, della sua docilità alla volontà di Dio, anche quando ben poco risulta chiaro in ciò che sta accadendo. Se l’angelo comanda: “Alzati e vai a mezzogiorno sulla strada che scende da Gerusalemme a Gaza”, il narratore ci riferisce, con gli stessi verbi, che egli “si alzò e andò”, con un obbedienza senza riserve né domande.

Egli si fida e probabilmente confida nel fatto che capirà gradualmente il senso e la motivazione di quel comando. Un itinerario simile a quello di Filippo sarà compiuto da Pietro, come vedremo al capitolo 10: il punto di partenza è un’estasi piuttosto ambigua, ma poi lo Spirito guida Pietro passo passo, fino alla casa del Centurione Cornelio (cf. 10, 9-16. 19).

Anche qui più avanti il narratore riferirà la voce dello Spirito Santo, che parla a Filippo e gli indica cosa deve fare (v. 29). Alla fine dell’episodio è sempre lo Spirito Santo a muovere gli eventi da protagonista, rapendo Filippo e portandolo ad Azoto, lungo la costa mediterranea, fino a Cesarea Marittima (cf. vv. 40).  Non è dunque sufficiente l’angelo, per comprendere bene la volontà di Dio: Filippo ha bisogno anche delle indicazioni interiori dello Spirito, che lo conducono a incontrare proprio quella persona che era in viaggio. Egli è dipinto da Luca secondo il modello dei profeti Eliseo ed Elia, che erano avvolti dallo Spirito e venivano condotti in modo improvviso e imprevedibile (cf. 1Re 18,12; 2Re 2,11-12; Ez 3,14).  Essi obbediscono a Dio e sono docili alla sua Parola. Allo stesso modo Filippo esegue puntualmente le parole dell’angelo, che potevano sembrare assai strane. 

A questo punto il narratore si sofferma a presentarci il personaggio del funzionario regale. Egli è il “tesoriere” della Regina di Etiopia, che ha il titolo di Candace ed è eunuco.  Da notare che il termine tesoro in greco (gaze) suona come la città di Gaza. Con un gioco fonetico il narratore vuol forse alludere al fatto che in questo viaggio al funzionario sarà dato da amministrare ben altro tesoro… Che la tonalità “esotica” di questa presentazione, un po’ altisonante, sia voluta da Luca per attirare l’attenzione del lettore, non stupisce. L’Etiopia era meta di viaggi nel I secolo, alla scoperta delle sorgenti del Nilo. Ma ciò che importa suggerire a Luca è che la Parola per mezzo di questo incontro inaspettato e improvviso, è destinata a giungere fino ai confini del mondo (cf. At 1,8), fino al lontano regno di Etiopia. Si compiono così le parole del profeta Isaia che aveva profetizzato l’arrivo a Gerusalemme degli Etiopi, con le loro ricchezze (Is 45,14), per supplicare il Signore e convertirsi al Dio d’Israele. Non a caso questo funzionario regale è presentato da Luca come un timorato di Dio, che si reca a Gerusalemme per adorare, ossia per partecipare in certo modo al culto, secondo le modalità previste per i timorati non ebrei. Egli viene denominato come eunuco, qualifica che non necessariamente implica una castrazione, perché nella LXX e anche altrove indica spesso alti funzionari politici e militari, anche se era molto frequente che gli alti funzionari delle regine fossero anche evirati. Il dettaglio, al di là della materialità, è molto importante perché, secondo Dt 23,2 l’eunuco non può entrare nella comunità del Signore, cioè essere circonciso. Il profeta Isaia aveva però annunciato un tempo in cui stranieri e eunuchi possono essere a tutti gli effetti considerati parte del popolo dell’alleanza ed entrare nella casa, ossia nel tempio (cf. Is 56,3-8; cf. anche Sap 3,14).

È proprio il profeta Isaia che il funzionario sta leggendo ad alta voce nel suo viaggio di ritorno. Invitato dallo Spirito, Filippo gli si accosta e gli domanda, senza preamboli né presentazioni: “capisci quel che leggi?”. Il greco di Luca ci offre una bella paronomasia[1]: “ginoskeis a anaginoskeis?” I due verbi sono lo stesso verbo, ma con una preposizione in più che fa la differenza. Leggere è un conto, ma comprendere il senso profondo della Scrittura è un altro. Qui Lc si rifà alla sua teologia delle Scritture, la cui chiave di interpretazione globale può essere solo Cristo risorto (cf. Lc 24, 27. 45-49). 

La domanda dell’uomo è dunque pertinente: di chi sta parlando il profeta, di se stesso o di qualcun altro? Egli cita un passo del quarto canto del servo di JHWH, che Luca sceglie a proposito. Si tratta di due versetti (Is 53, 7-8) in cui si parla della morte violenta e umiliante del servo, che non ha opposto resistenza. L’ingiustizia di questa uccisione di un uomo innocente e indifeso è simbolicamente rappresentata dal sacrificio di un agnello. La sua morte è rappresentata come una recisione (testo ebraico) o un’elevazione (testo greco della LXX, citato da Luca) della sua vita dalla terra. La traduzione greca della LXX citata da Luca ha trasformato il compianto per la perdita della discendenza, in una domanda retorica di segno opposto: la sua posterità chi potrà contarla? Sembra un ribaltamento radicale: dall’umiliazione si passa ad un’improvvisa esaltazione. Non a caso, la frase che recita: la sua vita è stata recisa dalla terra, può essere letta in greco anche “innalzata da terra”. È una probabile allusione all’ascensione di Gesù. Qui Luca sta presentando un testo greco che già nella tradizione della prima Chiesa veniva letto in senso cristologico, attraverso un ribaltamento di prospettiva. Dalla morte umiliante  all’esaltazione e dalla perdita della vita al dono di una posterità senza fine. Qui si sta parlando di Cristo, del suo mistero di morte e resurrezione. 

Sembra chiaro anche il motivo per cui Luca insiste proprio su questo passo per l’eunuco etiope: la sua vita è stata recisa dalla terra, ma la sua posterità è innumerevole. L’eunuco vi legge la sua condizione umiliante che gli impedisce di generare e di far giungere il suo nome fino alla fine del mondo, secondo la speranza biblica più originaria.  E insieme vi legge una possibilità di riscatto… forse che dentro a questa umiliazione non ci sia nascosto un bene più grande, un’improvvisa ed inaspettata fecondità? Le Scritture tracciano una via di comprensione di se, davanti al testo…

Ma finchè il funzionario non ha accesso al senso cristologico, non può entrare pienamente nel senso esistenziale, che è la comprensione piena del testo. Per questo è necessario qualcuno che faccia “da guida”, che apra questa strada per l’interpretazione, che conduca l’uomo progressivamente verso il mistero, attraverso l’annuncio. È il ruolo di Filippo che annuncia Gesù all’eunuco, cominciando proprio da quel passo (v. 35) e diffondendosi sulle Scritture, sul modello che il lettore già conosce (cf. At 2). 

A questo punto la narrazione procede veloce verso il suo compimento: l’eunuco stesso chiede di essere battezzato e il rito viene amministrato da Filippo in un corso d’acqua corrente. Ma subito dopo, appena risalito dall’acqua, lo Spirito rapisce Filippo per un’altra missione e l’eunuco continua pieno di gioia la sua strada. 

La gioia dell’uomo è il frutto spirituale immediato dell’evangelizzazione (cf. 8, 8). Questa consolazione spirituale infonde coraggio e forza a quest’uomo per continuare la sua strada verso l’Etiopia. Non sente la mancanza di Filippo, non identifica il Vangelo con l’evangelizzatore…il vero annuncio non crea dipendenza ma libera l’affettività dell’uomo orientandola verso il compimento della sua personalità, verso la pienezza della propria vocazione, verso la riuscita fecondità della propria vita. Colui la cui vita era stata recisa dalla terra, perché era un eunuco, è pieno di gioia perché inizia a compiersi in lui la promessa evangelica: egli avrà una discendenza numerosa in terra d’Etiopia, la discendenza spirituale di una Chiesa che sta per nascere attraverso la sua testimonianza e predicazione. Naturalmente questo il narratore non lo riferisce esplicitamente, ma lo lascia intendere per mezzo dell’espediente letterario con cui libera improvvisamente l’etiope dalla presenza di Filippo. Quest’ultimo è uno strumento per mezzo del quale nasce una nuova discendenza spirituale. 

Come rileggo la mia esperienza quotidiana di vita? Quali “chiamate” del Signore accolgo negli incontri, anche apparentemente casuali, che ogni giorno mi accadono? Come leggo la mia vita dentro alla Parola di Dio? 

 


Pregare con il vangelo della Domenica

Cristo, re dell’universo

Lc 23,33-43 (XXXIV TO C)

Il messaggio nel contesto

 A differenza di Marco (cf. Mc 15,22-26), l’evangelista Luca descrive fin da subito e in primo piano la crocifissione di Gesù in mezzo ai due ladroni (cf. Lc 23,33-34) e aggiunge una parola di Gesù sulla croce, rivolta a suo Padre: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34a).  L’effetto è di mettere in risalto la missione di Gesù che, come pastore divino, è venuto a cercare, trovare e salvare ciò che era perduto, i malfattori, proprio condividendo la loro condizione di uomini senza legge (cf. Is 53,12 e Lc 19,10). La croce porta al culmine tutto il ministero di Gesù, teso a offrire la salvezza e il perdono dei peccati a tutti gli uomini, manifestando l’amore gratuito del Padre (cf. Lc 7,47). Il perdono che Gesù chiede al Padre sulla croce è motivato dall’ignoranza dell’uomo a riguardo del suo peccato e apre la possibilità di una futura conversione (cf. At 3,14-20; 4,12).   Denudato delle sue vesti, Gesù condivide la tremenda situazione dell’uomo incappato nei briganti, del giusto sofferente e vicino alla morte, sui cui panni si getta la sorte (cf. Lc 10,30; Sal 22,19), mentre tutti intorno lo guardano (v. 35; cf. Sal 22,18-19) e lo deridono (v. 35.36.39; cf. Sal 22,8-9), mettendo in ridicolo la salvezza da parte del Signore.  Tre personaggi in serie (capi v. 35; soldati v. 36-37; il malfattore crocifisso con lui v. 39), dall’alto al basso della scala sociale, ridicolizzano l’attribuzione regale e messianica del crocifisso. Essi tentano Gesù ad interpretare come autosalvezza la sua elezione da parte del Padre (cf. Lc 4,9-12): sarebbero disponibili a credere solo ad uno che è in grado di salvare sé stesso, pur avendo mostrato di poter salvare gli altri (v. 35.39).  Ma Gesù, il vero re dei Giudei (v. 38) resiste a questa tentazione e proprio la sua fedeltà porta a compimento il disegno del Padre, la salvezza di tutti gli uomini. Improvvisamente infatti attorno alla croce la situazione si ribalta. Prende la parola l’altro malfattore, che dopo aver riconosciuto i suoi peccati davanti alla sofferenza innocente di Gesù, si rivolge direttamente a lui e lo supplica facendo appello alla sua qualità di messia, venuto a portare il Regno di Dio (vv. 40-42). Proprio la morte impotente e innocente di Gesù rivela che egli è il Cristo, l’eletto, il Re di un Regno radicalmente nuovo, che sta per essere instaurato. Gesù, con la sua risposta, mostra che questo Regno è già iniziato “oggi”, con la fede dell’uomo peccatore, che si pente e supplica colui che è vittima innocente dei nostri peccati (cf. v. 47-48). Il Paradiso consiste nello stare con Lui (v. 43), avendo riconosciuto la propria fragilità e debolezza.   

 

  • Il contesto spazio-temporale del racconto. Ci troviamo sul Golgota, dove Gesù viene crocifisso, in mezzo ai due ladroni. La posizione di Gesù indica una condivisione con l’umanità peccatrice e condannata alla morte. Provo a sentire la vicinanza di Gesù con tutti i sofferenti, umili e peccatori del mondo.
  • Chi sono i personaggi del racconto e cosa fanno. Il popolo sta in piedi e guarda: identifico quali sentimenti provo nel contemplare la scena: Paura, ribrezzo, distacco, commozione, dolore, consolazione…I capi lo prendono in giro, i soldati lo deridono e gli porgono aceto. La violenza morale è più forte di quella fisica: cosa penso a riguardo di un messia che non si difende.
  • Cosa dicono i personaggi.  I capi, i soldati e il cattivo ladrone provocano Gesù dicendo la stessa cosa, ossia invitandolo a salvarsi e quindi a manifestare la sua identità messianica. Mi metto a considerare come la salvezza sia un dono e non il frutto della mia capacità. Il buon ladrone invita Gesù a ricordarsi di lui. Chiedo al Signore di ricordare, ossia di rendere attuale la sua salvezza per me. Gesù dice oggi sarai con me in paradiso: qual è il mio oggi e come me ne rendo conto.
  • Quale rivelazione. Il Dio rivelato da Gesù perdona e salva. Egli infatti chiede il perdono da parte del padre perché gli uomini non sanno quello che fanno. Sono consapevole del mio peccato? Come vivo la misericordia di Dio?
  • Per la preghiera personale
  • Invoco lo Spirito Santo (con un canto o con la Sequenza o con un’invocazione più libera) Ad esempio: Vieni Santo Spirito, entra in me, con la tua luce, con il soffio della tua vita, aiutami a sentire il Tuo Amore, la Tua Pace e ad aprire il mio cuore a quella Parola che oggi custodisci per me, in modo che ogni mio pensiero e ogni mia azione abbiano da te il loro inizio e in te e per te il loro compimento.
  • Leggo il brano del Vangelo, almeno due volte, con attenzione.
  • Entro nel contesto del racconto, nel suo spazio e tempo particolari: il Tempio di Gerusalemme, visto come costruzione splendida e maestosa.
  • Chiedo una graziaciò che desidero da questo momento di preghiera, ad esempio di fare un’esperienza profonda e intima di Gesù, del Padre e del loro amore per me.
  • Cerco di comprendere maggiormente il significato del testo in sé stesso, con l’aiuto del breve commento precedente.
  • Cerco di comprendere cosa dice il testo a me, alla mia vita oggi.
  • Cerco di raccogliere tutto ciò che ho meditato sin qui, a partire da ciò che provo in me: come mi ha toccato quello che comprendo? Quale sentimento mi suscita?
  • Dialogo con Gesù e con il Padre, lasciandomi trasportare, nel chiedere, nel ringraziare, nel lodare, nel contemplare, a seconda di ciò che sento.
  • Concludo la preghiera con un Padre Nostro e saluto il Signore con un gesto di riverenza.

Guarire dall’ansia, esercizi di Vangelo

Nel 1947 degli scienziati, tra cui Albert Einstein e Robert Oppenheimer costruirono il cosiddetto Doomsday Clock: l’orologio dell’apocalisse, che cercava di calcolare, sulla base di valutazioni di natura tecnica e sociale, in termini di tempo rimanente, quanto l’umanità fosse vicina all’olocausto nucleare, all’autodistruzione per mezzo delle bombe atomiche. 

Ancora oggi l’associazione degli scienziati continua ad esprimersi e, secondo le loro valutazioni, ora mancherebbero cento secondi: non saremmo mai stati tanto vicini a questa possibilità. 

Molto prima che apparisse di fronte all’umanità questa possibilità, già ai tempi dell’impero romano, i vangeli riportano le parole di Gesù su terremoti, guerre, rivoluzioni, carestie (=leggi inquinamento ambientale), pestilenze (=leggi epidemie di covid) sono tutti segni…ma, dice ancora, non vi spaventate, perché non sarà la fine…

Il vangelo ci fa fare un percorso in mezzo a tutte le cose più brutte che possono accadere nella storia, che ci possono mettere tensione, ansia, angoscia. È un climax che giunge ad un punto culminante, oltrepassa la cima della curva dell’ansia e oltre cosa c’è? Non c’è nulla…ci rendiamo conto di rimanere noi e il Signore che ci sostiene con la sua presenza. Il vangelo ci educa così a vincere l’angoscia, anche in tempi difficili.

In psicologia questa strategia è stata scoperta per la prima volta da un grande psicologo del novecento, Viktor Frankl: lui la chiamava intenzione paradossa. Per guarire dall’ansia bisogna fare ogni giorno questo piccolo esercizio: andare fino in fondo nell’angoscia, pensando alle cose più brutte, per oltrepassare il climax e vedere che oltre non c’è nulla, è tutto irreale. È come un palloncino che si gonfia, si gonfia, si gonfia e poi, una volta bucato, cosa rimane? Niente. E noi siamo ancora qui.

Scompare quindi la preoccupazione e rimane la vita che viene da Dio e per la quale Gesù ci dice che nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Si, spesso, di fronte alla sfide di oggi, il riscaldamento climatico, la guerra, il pericolo nucleare ci sentiamo impotenti. E non posso dire che questi non siano pericoli reali, ci mancherebbe. Ma il nostro problema è vincere proprio quell’angoscia e quella sensazione di impotenza che ci paralizza e ci impedisce di agire. 

Il Signore, senza edulcorare la pillola, anzi semmai calcando un po’ la mano su queste immagini apocalittiche, ci fa passare attraverso il parossismo del male, per darci la certezza totale che lui non ci abbandonerà mai, che la vita che viene da lui è più forte della morte, che l’amore si esprime concretamente nella storia, portandoci sempre e comunque al suo abbraccio. Non solo: il Signore ci promette anche che, come cristiani, noi abbiamo il dono della Parola e della Sapienza. Che cos’è questo dono? Ci da la comprensione profonda della realtà, con i suoi rischi e pericoli, ma anche con i suoi doni e le sue opportunità, ci infonde un coraggio da leoni per fare tutto quello che ci viene chiesto e portare a compimento la nostra missione.  

Più ci abbandoniamo con fiducia a Lui, mettendo tutto nelle sue mani, più possiamo poi agire nella vita da protagonisti, liberandoci dalle angosce che non servono a nulla e costruendo la pace nelle relazioni tra noi, nella politica e nella società. 

Ciò che gli scienziati non sono in grado di calcolare, perché è una variabile invisibile, è questa misteriosa rete che lo Spirito Santo crea tra i cuori e che emerge nella storia soprattutto nei momenti di difficoltà, con la possibilità di rinnovare, ad ogni svolta, le energie per costruire la pace e il bene comune di tutti i popoli. 

No, il mondo non finirà, ma ciò che accade intorno a noi, anche di drammatico, è un appello che il Signore ci rivolge per convertirci, per unirci a Lui e mettere in Lui ogni nostra speranza e sicurezza, facendo prevalere gli sforzi per il bene e per un mondo che sia abitabile ancora per i nostri figli e per i figli dei nostri figli.  

Pregare con il vangelo della domenica Lc 21,5-19 (XXXIII TO C)

La fine del mondo

Il messaggio nel contesto

Gesù si trova nel tempio di Gerusalemme e qui insegna al popolo di Israele come autentico profeta (v. 5). Egli annuncia quel che Geremia aveva già profetizzato per i suoi tempi, ossia la distruzione del tempio (cfr. Ger 26,1-6). Come aveva predetto in 19,44 riguardo a Gerusalemme, anche qui con una simile formulazione (non resterà pietra su pietra) avverte di non confidare su una bellezza esteriore, segno di una religiosità che indurisce il cuore piuttosto che disporlo ad incontrare Dio (vv. 5-6). Il popolo, stimolato dalla curiosità per un annuncio che evoca scenari apocalittici, chiede al maestro di esplicitare i segni che indicheranno questo avvenimento di distruzione (v. 7). Ma Gesù non risponde direttamente, limitandosi a prevenire quell’agitazione e quel turbamento che colgono gli uomini di fronte agli annunci di sventura. Le guerre, le rivolte non sono segni della fine del mondo e chi lo afferma finisce per fare il mestiere del falso profeta, che identifica il messia con sé stesso (8-9). Certo alla fine dei tempi ci saranno anche terremoti, carestie e pestilenze e segni grandi nel cielo (vv. 10-11), ma solo dopo che sarà trascorso il tempo della storia, caratterizzato dall’umile presenza dei profeti (v. 12).  A partire dal v. 12 infatti Gesù si rivolge più chiaramente ai suoi discepoli, descritti come profeti. Finché ci sono loro a testimoniare Gesù con una sapienza ispirata (v. 15)  di fronte ai persecutori (vv. 12-13), la storia continuerà a svolgere il suo percorso nell’attesa del ritorno del messia. Sono loro che tengono in piedi il cosmo, finché il vangelo non sia arrivato fin ai confini del mondo con la loro testimonianza perseverante (v. 19 cf. At 1,8). Gesù stesso, signore della storia, donerà ai suoi lo Spirito Santo (v. 15) per renderli testimoni credibili della sua resurrezione (cf. At 2, 1-4). Questo significa che il discepolo deve privarsi di mezzi umani che possano ostacolare l’opera di Dio attraverso lo Spirito Santo (v. 14) e fortificarsi contro le divisioni e i contrasti che possono sollevarsi, anche all’interno delle famiglie (vv. 16-17).  Il discepolo avrà la forza della perseveranza, della costanza in mezzo alle avversità e proprio attraverso tale costanza egli porterà un frutto che rimane per sempre.

  • Qual è il contesto spazio-temporale del raccontoSiamo nel tempio di Gerusalemme, luogo simbolo del culto e della storia di Israele. L’intero discorso di Gesù ruota intorno a questo simbolo e alla sua comprensione. La domanda sulla quale il Signore ci invita a soffermarci è se il tempio di mattoni in cui confida Israele verrà distrutto, quale sarà il tempio del Signore, la sua presenza permanente nella storia.  
  • Chi sono i personaggi del racconto e cosa dicono. Gesù sta parlando alla folla, radunata davanti al tempio. Si tratta del popolo di Israele, simbolicamente rappresentato da questa folla. Tuttavia nel discorso di Gesù risuona già la preoccupazione per la comunità cristiana, nel tempo della storia, caratterizzato dalle rivolte e dalle persecuzioni. A partire dal v. 12 gli interlocutori sono chiaramente i suoi discepoli, che testimoniano la Sua presenza nella storia.  Di quello che vedete, non resterà pietra su pietra. Quali strutture, sociali e pastorali, sono il nostro tempio? In che cosa io personalmente confido, senza accorgermi che si tratta di apparenza? 
  • Quale rivelazione I discepoli di Gesù vivranno le persecuzioni ai loro danni come occasione per rendere testimonianza a Gesù. Egli è il Signore della storia e donerà loro parola e sapienza (la potenza dello Spirito Santo cfr. At 1, 8) per rendere ragione della speranza che è in loro (cfr. 1 Pt 3, 15). Tutto questo accadrà prima dei segni che caratterizzano la fine dei tempi (v. 11-12), dunque nel tempo della storia. È la comunità cristiana, testimonianza profetica nella storia, il vero tempio. Non preparate prima la vostra difesa. Forse ci sono ansie eccessive che io ho, nelle ostilità e fatiche, e che mi portano ad appoggiarmi su forme, strategie, persone. Io vi darò parola e Sapienza: mi chiedo se la Parola di Dio è realmente ciò su cui posso confidare fino in fondo nel mio cammino. Sarete traditi: come vivo l’incomprensione e il tradimento? Riesco a trasformarlo in un’occasione di testimonianza? Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita:  dove mi è chiesta pazienza e perseveranza nel bene?

Per la preghiera personale

  • Invoco lo Spirito Santo (con un canto o con la Sequenza o con un’invocazione più libera) Ad esempio: Vieni Santo Spirito, entra in me, con la tua luce, con il soffio della tua vita, aiutami a sentire il Tuo Amore, la Tua Pace e ad aprire il mio cuore a quella Parola che oggi custodisci per me, in modo che ogni mio pensiero e ogni mia azione abbiano da te il loro inizio e in te e per te il loro compimento.
  • Leggo il brano del Vangelo, almeno due volte, con attenzione.
  • Entro nel contesto del racconto, nel suo spazio e tempo particolari: il Tempio di Gerusalemme, visto come costruzione splendida e maestosa.
  • Chiedo una graziaciò che desidero da questo momento di preghiera, ad esempio di fare un’esperienza profonda e intima di Gesù, del Padre e del loro amore per me.
  • Cerco di comprendere maggiormente il significato del testo in sé stesso, con l’aiuto del breve commento precedente.
  • Cerco di comprendere cosa dice il testo a me, alla mia vita oggi.
  • Cerco di raccogliere tutto ciò che ho meditato sin qui, a partire da ciò che provo in me: come mi ha toccato quello che comprendo? Quale sentimento mi suscita?
  • Dialogo con Gesù e con il Padre, lasciandomi trasportare, nel chiedere, nel ringraziare, nel lodare, nel contemplare, a seconda di ciò che sento.
  • Concludo la preghiera con un Padre Nostro e saluto il Signore con un gesto di riverenza.

Pregare con il vangelo della domenica. La resurrezione dai morti (Lc 20,27-38 XXXII TO C)

La resurrezione

Il messaggio nel contesto

I sadducei, che sono famiglie di sacerdoti che amministrano il Tempio di Gerusalemme, interrogano Gesù, probabilmente per metterlo alla prova, su una questione dibattuta tra gli ebrei dell’epoca di Gesù: la resurrezione. Secondo i sadducei, che interpretano la legge di Mosè alla lettera, non c’è resurrezione dai morti, invece secondo i farisei e i loro scribi le Scritture attestano la resurrezione finale. Questi sadducei prendono spunto dalla legge del levirato (cfr. Dt 5,5-10 e Gn 38,8; Rt 3,9; 4,12), che obbliga un uomo a sposare la moglie di suo fratello morto senza figli, in modo da dargli una discendenza, portando all’estremo conseguenze il caso, per mettere in dubbio una vita nell’aldilà. Infatti se tutti i mariti muoiono senza aver dato figli, a chi apparterrà la loro moglie nell’aldilà? La risposta di Gesù mette in crisi la visione materialistica che questi sadducei hanno dell’aldilà. Egli arriva ad affermare che chi avrà parte alla resurrezione non ha più bisogno di sposarsi, perché non vi sarà più attività sessuale (v. 35-36). Se la legge del levirato mostra il desiderio di eternità insito nell’uomo attraverso la generazione carnale, Gesù ne indica il compimento nella resurrezione dei morti. Non sarà più necessario avere figli, perché saremo tutti figli di Dio, in comunione con il Figlio per eccellenza, Gesù Cristo, morto e risorto secondo le Scritture (cfr. 1 Cor 15,3-4).  Gesù trova anche una conferma di questa riflessione nella Scrittura del Pentateuco, considerata ispirata anche dai Sadducei. Egli si rifà a Es 3,6, in cui Dio si autoproclama come il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Se Dio ha fatto Alleanza con degli uomini fino al punto che egli si autodefinisce in rapporto a loro, allora questa Alleanza non può che essere eterna, insieme con i suoi beneficiari.  Chi è il Dio che si rivela nella Bibbia? È il Dio-con-noi, l’Emmanuele (cf. Is 7,14), colui che vive per noi e con noi, così che anche noi possiamo vivere per lui (v. 38). Cosa significa vivere per lui? Significa vivere grazie a lui e al dono della vita che gli appartiene per definizione, significa vivere per amare Lui, donandogli a nostra volta tutto ciò che siamo.

La conferma delle parole di Gesù da parte degli scribi lascia intuire che proprio Lui, la sua persona e il mistero della Sua resurrezione sono il criterio interpretativo più adeguato per comprendere le Scritture dell’Antico Testamento (cf. v. 39; cf. 24,27).    

  • Qual è il contesto spazio-temporale del racconto

Gesù è entrato a Gerusalemme e si trova nel tempio a istruire il popolo ed annunciare il Vangelo (cf. 20,1). Qui scribi e capi dei sacerdoti discutono con lui. Nel dibattito che sta per accadere gli interlocutori sono i sadducei, una corrente di ebrei da cui vengono normalmente nominati i sommi sacerdoti, fortemente collusa col potere romano. Sono coloro che determineranno la condanna a morte di Gesù. La loro chiusura alla potenza delle Scritture di Israele, al messaggio della resurrezione, è una chiusura mortifera. 

  • Chi sono i personaggi del racconto proposto dai sadducei e cosa fanno

una donna che ha per mariti sette fratelli e uno dopo l’altro essi la lasciano senza figli.  Alla resurrezione di chi sarà moglie? Immagino le mie relazioni affettive e familiari di oggi e come le vivo, con quale libertà interiore. 

  • Come risponde Gesù

Coloro che sono giudicati degni del tempo futuro e della resurrezione non prendono moglie né marito e sono figli di Dio . Mi posso chiedere come vivo le relazioni affettive e familiari in rapporto a Dio. Dio non è il Dio dei morti ma dei viventi: posso interrogarmi sulla mia immagine di Dio e se lo considero un Dio della vita o non piuttosto un Dio padrone di cui avere timore. Se tutti vivono per lui, ciò significa che per lui avere la vita in se stesso significa donarla. 

  • Quale rivelazione? 

Gesù morto e risorto rivela la destinazione e l’identità ultima dell’uomo, diventare figlio di Dio e vivere per sempre in Dio. A fronte delle chiusure razionalistiche di tanta cultura di oggi, come aprire il mio cuore ad un messaggio non scontato e ancora oggi, dopo 2000 anni di cristianesimo, rivoluzionario. 

Per la preghiera personale

  • Invoco lo Spirito Santo (con un canto o con la Sequenza o con un’invocazione più libera) Ad esempio: Vieni Santo Spirito, entra in me, con la tua luce, con il soffio della tua vita, aiutami a sentire il Tuo Amore, la Tua Pace e ad aprire il mio cuore a quella Parola che oggi custodisci per me, in modo che ogni mio pensiero e ogni mia azione abbiano da te il loro inizio e in te e per te il loro compimento.
  • Leggo il brano del Vangelo, almeno due volte, con attenzione.
  • Entro nel contesto del racconto, nel suo spazio e tempo particolari: il Tempio.
  • Chiedo una graziaciò che desidero da questo momento di preghiera, ad esempio di fare un’esperienza profonda e intima di Gesù, del Padre e del loro amore per me.
  • Cerco di comprendere maggiormente il significato del testo in sé stesso, con l’aiuto del breve commento precedente.
  • Cerco di comprendere cosa dice il testo a me, alla mia vita oggi.
  • Cerco di raccogliere tutto ciò che ho meditato sin qui, a partire da ciò che provo in me: come mi ha toccato quello che comprendo? Quale sentimento mi suscita?
  • Dialogo con Gesù e con il Padre, lasciandomi trasportare, nel chiedere, nel ringraziare, nel lodare, nel contemplare, a seconda di ciò che sento.
  • Concludo la preghiera con un Padre Nostro e saluto il Signore con un gesto di riverenza.

Per la preghiera personale

  • Invoco lo Spirito Santo (con un canto o con la Sequenza o con un’invocazione più libera) Ad esempio: Vieni Santo Spirito, entra in me, con la tua luce, con il soffio della tua vita, aiutami a sentire il Tuo Amore, la Tua Pace e ad aprire il mio cuore a quella Parola che oggi custodisci per me, in modo che ogni mio pensiero e ogni mia azione abbiano da te il loro inizio e in te e per te il loro compimento.
  • Leggo il brano del Vangelo, almeno due volte, con attenzione.
  • Entro nel contesto del racconto, nel suo spazio e tempo particolari: il Tempio.
  • Chiedo una graziaciò che desidero da questo momento di preghiera, ad esempio di fare un’esperienza profonda e intima di Gesù, del Padre e del loro amore per me.
  • Cerco di comprendere maggiormente il significato del testo in sé stesso, con l’aiuto del breve commento precedente.
  • Cerco di comprendere cosa dice il testo a me, alla mia vita oggi.
  • Cerco di raccogliere tutto ciò che ho meditato sin qui, a partire da ciò che provo in me: come mi ha toccato quello che comprendo? Quale sentimento mi suscita?
  • Dialogo con Gesù e con il Padre, lasciandomi trasportare, nel chiedere, nel ringraziare, nel lodare, nel contemplare, a seconda di ciò che sento.
  • Concludo la preghiera con un Padre Nostro e saluto il Signore con un gesto di riverenza.

Pregare con il Vangelo della domenica Lc 19,1-10 (XXXI TO C)

Il peccatore si converte

Il messaggio nel contesto

Prima di entrare in Gerico Gesù, mentre si avvicinava alla città (18,35), aveva guarito un cieco, che poi aveva incominciato a seguirlo diventando suo discepolo (18,43). Ora, nel suo movimento verso Gerusalemme, Gesù ha fatto tappa a Gerico entrando nella città e la sta attraversando (19,1).  Ecco si presenta un uomo di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, la cui cecità non è fisica ma morale e spirituale (19,3), ed è mosso dalla curiosità di vedere chi fosse Gesù. Come per il cieco (cf. 18,39) anche per Zaccheo la folla è un ostacolo, perché egli è piccolo di statura. Senza temere di mettersi in ridicolo davanti a tutti egli corre in avanti e sale su un sicomoro perché sa che Gesù sarebbe passato di la (v. 4).  Al momento culminante quando Gesù passa, non è Zaccheo a prendere l’iniziativa, ma Gesù stesso, che lo chiama per nome: “Zaccheo, scendi subito perché oggi è necessario che io rimanga a casa tua” (v. 5). Come Gesù poteva aver già conosciuto Zaccheo? Non è dato saperlo. Zaccheo e noi lettori ci rendiamo conto che mentre quest’uomo cercava Gesù per curiosità, era in realtà Gesù che stava entrando in città per cercarlo. Tutta la passeggiata di Gesù a Gerico non aveva altro scopo che andare a trovare quest’uomo ricco e ladro – nonostante la simpatia che il narratore ci comunica per Zaccheo egli era un capo dei pubblicani, che facevano una buona cresta alle tasse richieste dall’impero – ed entrare in casa sua.  Ci sarà sicuramente stata gente migliore di Zaccheo in Gerico, eppure Gesù vi è entrato solo per lui.  Zaccheo scende subito con gioia. La sua fretta rivela che l’oggi della salvezza (v. 5 cf. 2,11; 4,21) è arrivato anche per lui ed egli ne approfitta con gioia (cf. 1,14; 2,10).  Contestualmente è la folla a costituire un nuovo ostacolo nella comprensione di ciò che accade: essi mormorano contro Gesù, andato ad alloggiare da un peccatore (v. 7). Come quando era andato a mangiare dagli amici di Levi (cf. 5,30) anche qui la folla si scandalizza.  Zaccheo mostra che l’incontro con Gesù lo ha cambiato intimamente e le opere che promette di fare sono il segno di un’autentica conversione, che apre il suo sguardo ai poveri e ripara ai peccati passati (v. 8). Con la sua risposta Zaccheo è finalmente entrato nella salvezza e si sono compiute per lui le promesse fatte ad Abramo (cf. Lc 13,16): egli appartiene al popolo dei figli di Abramo (cf. Gal 3,7), di coloro che si sono salvati per la fede nel Signore (v. 8) come Abramo, che aveva accolto con sollecitudine il Signore nella sua casa (cf. Gn 18,3).  Gesù stesso sintetizza tutta la sua missione come un ricercare colui che era perduto, con l’amore del pastore che va in cerca della pecora perduta, lasciando le 99 nell’ovile (cf. Lc 15,4-7; Ez 34,16).

Il contesto spazio-temporale del racconto

Gesù è entrato in Gerico e l’attraversa. Questo attraversamento segna l’incontro con Zaccheo. Posso chiedermi in che modo  Gesù attraversi anche lo spazio della mia esistenza e delle mie relazioni.

Chi sono i personaggi della parabola e cosa fanno

Zaccheo cercava di vedere Gesù. Egli si è messo in ricerca, per curiosità e la sua fretta, la sua corsa e la sua comica salita sull’albero attirano la mia simpatia. Posso anch’io chiedermi che cosa sto cercando in questo tempo e dove mi muove la curiosità. Zaccheo incontra un ostacolo importante: egli non poteva vedere Gesù a causa della folla. Anch’io incontro ostacoli nella mia ricerca e posso chiedermi quali siano quelli prevalenti.  Di fronte a questa ricerca di Zaccheo, Gesù proclama il suo stile e la sua missione, caratterizzate da una ricerca che precede quella di Zaccheo: il figlio dell’uomo è venuto a cercare chi era perduto. Mi chiedo in che misura mi sono sentito cercato da lui. Gesù alzato lo sguardo prende la parola per primo rivolgendosi a Zaccheo. Gesù per primo vede Zaccheo e lo riconosce: cerco di percepire con quale sguardo anch’io mi sento guardato da Lui. Zaccheo scende in fretta e accoglie Gesù con gioia. Quali gioia e quale “fretta” caratterizzano il mio incontro con il Signore.

Cosa dicono i personaggi

Gesù è il primo a parlare, chiamandolo per nome: “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo entrare a casa tua”. Faccio memoria del mio “oggi”, in tutti le occasioni in cui si è concretizzato nella mia vita, per l’incontro con Lui.Zaccheo dice: “Signore”. In questa parola e nelle azioni conseguenti c’è tutta la conversione di Zaccheo. Chi è per me il Signore? Cosa faccio per Lui?

 Quale rivelazione?

Anche Zaccheo è un figlio di Abramo e la salvezza è giunta anche per lui, attraverso Gesù. Posso confrontare i miei criteri di giustizia  con quelli di Gesù e comprendere se sono in sintonia con Lui.

Per la preghiera personale

  • Invoco lo Spirito Santo (con un canto o con la Sequenza o con un’invocazione più libera) Ad esempio: Vieni Santo Spirito, entra in me, con la tua luce, con il soffio della tua vita, aiutami a sentire il Tuo Amore, la Tua Pace e ad aprire il mio cuore a quella Parola che oggi custodisci per me, in modo che ogni mio pensiero e ogni mia azione abbiano da te il loro inizio e in te e per te il loro compimento.
  • Leggo il brano del Vangelo, almeno due volte, con attenzione: Lc 18,9-14
  • Entro nel contesto del racconto, nel suo spazio e tempo particolari: il Tempio.
  • Chiedo una graziaciò che desidero da questo momento di preghiera, ad esempio di fare un’esperienza profonda e intima di Gesù, del Padre e del loro amore per me.
  • Cerco di comprendere maggiormente il significato del testo in sé stesso, con l’aiuto del breve commento precedente.
  • Cerco di comprendere cosa dice il testo a me, alla mia vita oggi.
  • Cerco di raccogliere tutto ciò che ho meditato sin qui, a partire da ciò che provo in me: come mi ha toccato quello che comprendo? Quale sentimento mi suscita?
  • Dialogo con Gesù e con il Padre, lasciandomi trasportare, nel chiedere, nel ringraziare, nel lodare, nel contemplare, a seconda di ciò che sento.
  • Concludo la preghiera con un Padre Nostro e saluto il Signore con un gesto di riverenza.

Pregare con il Vangelo di Luca, Lc 18,9-14 (XXX TO C)

Il messaggio nel contesto

Questa parabola di Gesù è introdotta da un’indicazione riguardante gli uditori a cui Gesù si rivolge: essi sono coloro che confidano in sé stessi e nella loro giustizia e disprezzano gli altri (v. 9). Con questo riferimento iniziale l’evangelista chiarisce molto bene che l’accusa non è rivolta soltanto ai farisei, rappresentati nella parabola, ma soprattutto ai suoi lettori, cristiani sempre tentati da una religiosità falsa, in fondo idolatrica. Vengono presentati due personaggi, il fariseo e il pubblicano, che sono emblemi rispettivamente dell’uomo “pio israelita” e del “disonesto, impuro, amico dei romani”.  Salgono entrambi al tempio a pregare ma il loro atteggiamento e le loro parole sono contrapposte. Da un lato il fariseo sta in piedi e prega tra sé con molte parole che descrivono il suo atteggiamento e il giudizio nei confronti degli altri (vv. 11-12). Dall’altro il pubblicano prega più con i gesti che con le parole, perché stando lontano non osa alzare gli occhi, si percuote il petto e dice semplicemente: “Abbi pietà di me peccatore” (v.13).  Se gli atteggiamenti del pubblicano evidenziano la sua consapevolezza di trovarsi in relazione con una presenza a lui esterna, invece il fariseo sembra chiuso in sé stesso e nella contemplazione di sé.  Le parole di quest’ultimo ne rivelano l’animo: egli si pone a paragone con tutti gli altri uomini, compreso il pubblicano, disprezzandoli intimamente per le loro mancanze nei confronti della legge. Ben diversa è l’invocazione del Salmista che, conoscendo la sua debolezza, supplica il Signore di non abbandonarlo alla comunione con i peccatori  (cf. Sal 26,9-11). Egli infatti non confida in sé stesso, ma solo nel Signore. Ancora il fariseo elenca le sue azioni secondo la legge (v. 12): egli digiuna due volte la settimana e paga la decima: sono azioni che vanno perfino oltre gli obblighi della legge mosaica, che prevedeva la decima solo su frumento, olio e vino e sul primogenito del bestiame (cf. Dt 12,17;14,22-29) o il digiuno solo in alcuni periodi dell’anno (cfr. Lv 16,29.31). Eppure tutta questa perfezione gli serve solo per lodare sé stesso. Il ringraziamento iniziale di Dio (v.11) è solo formale, perché egli attribuisce a sé stesso il merito di una giustizia che Dio è chiamato soltanto a ratificare. Questo atteggiamento nei confronti di Dio si traduce di conseguenza nel disprezzo del prossimo. Infatti lo stretto legame tra i due comandamenti centrali della legge, amore di Dio e amore del prossimo (cf. Lc 10,25-28), chiarisce in modo definitivo che tale disprezzo del prossimo discende da una mancanza di amore per Dio. Il fariseo ha fatto della legge un idolo, che invece di avvicinarlo a Dio lo allontana da Lui e dal suo amore (cf. 11,42). Il pubblicano invece, che sa di essere interamente peccatore e che avrebbe dovuto lasciare il suo mestiere e restituire il 120 per cento di tutto ciò che aveva acquisito, e che quindi, dal punto di vista umano, non ha alcuna possibilità di salvezza per la Legge, può solo confidare nella misericordia gratuita di Dio: “Abbi pietà di me peccatore” (cf. Sal 51,3-4). Egli comprende che l’amore di Dio non dipende dai suoi meriti e per questo viene giustificato da Dio, a differenza del fariseo (v.14). Con un’ultima frase Gesù conclude la parabola per enuclearne il significato (v.14): farsi umile non significa disprezzare sé stessi, ma comprendere che tutto, anche i nostri meriti, sono dono di Dio e del Suo amore. Il primo a darci l’esempio è Cristo, che pur essendo Dio non considerò un possesso geloso la sua uguaglianza con Dio…, ma umiliò se stesso fino alla morte e alla morte di croce. (Fil 2,6)

  • Il contesto della parabola

Il contesto è caratterizzato dall’interlocutore di Gesù, ossia coloro che ritengono di essere giusti con le loro azioni e di conseguenza disprezzano gli altri. Non si tratta solo del personaggio già codificato dei farisei, ma potenzialmente di ciascuno di noi, come lettori del vangelo. Mi lascio coinvolgere ed interrogare da questa provocazione.

  • I personaggi della parabola: cosa fanno e cosa dicono

 Il fariseo prega al tempio, stando in piedi e ragionando tra sé medesimo. La modalità fisica del fariseo esprime autosufficienza: mi chiedo se anche nelle mie modalità di preghiera, fisiche e spirituali non compaia talvolta uno spirito di chiusura ed autogiustificazione. Il pubblicano invece sta lontano, non alza lo sguardo, si percuote il petto. Mi chiedo con quali gesti interiori ed esteriori esprimo la consapevolezza della mia ferita e del mio peccato.

Inoltre il fariseo fa un elenco delle sue buone azioni davanti a Dio: “digiuno, pago la decima”. Poi ringrazia Dio per essere diverso da tutti gli altri, migliore di loro. Mi chiedo se il mio modo di giudicare la realtà e le persone non sia spesso un tentativo difensivo di apparire migliore, di salvarmi la faccia davanti a Dio. Il pubblicano fa una preghiera molto più breve: “espia i peccati di me, che sono un peccatore”. Egli chiede che il perdono sia un’espiazione, una cancellazione del peccato. Mi lascio ispirare da questa preghiera e mi pongo al cuore dello sguardo misericordioso di Dio.

  • La rivelazione  

La giustificazione avviene come dono di Dio verso un cuore contrito, un cuore che accoglie la Sua grazia e il Suo amore, imitando Cristo che non ha considerato un possesso privato la sua uguaglianza con Dio, ma si è spogliato nell’umiltà della croce.Ripenso anche alle mie umiliazioni, alle mie notti oscure come occasioni per guarire dalla mia ferita narcisistica, per entrare in un amore che mi purifica e trasforma.

Per la preghiera personale

  • Invoco lo Spirito Santo (con un canto o con la Sequenza o con un’invocazione più libera) Ad esempio: Vieni Santo Spirito, entra in me, con la tua luce, con il soffio della tua vita, aiutami a sentire il Tuo Amore, la Tua Pace e ad aprire il mio cuore a quella Parola che oggi custodisci per me, in modo che ogni mio pensiero e ogni mia azione abbiano da te il loro inizio e in te e per te il loro compimento.
  • Leggo il brano del Vangelo, almeno due volte, con attenzione: Lc 18,9-14
  • Entro nel contesto del racconto, nel suo spazio e tempo particolari: il Tempio.
  • Chiedo una grazia, ciò che desidero da questo momento di preghiera, ad esempio di fare un’esperienza profonda e intima di Gesù, del Padre e del loro amore per me.
  • Cerco di comprendere maggiormente il significato del testo in sé stesso, con l’aiuto del breve commento precedente.
  • Cerco di comprendere cosa dice il testo a me, alla mia vita oggi.
  • Cerco di raccogliere tutto ciò che ho meditato sin qui, a partire da ciò che provo in me: come mi ha toccato quello che comprendo? Quale sentimento mi suscita?
  • Dialogo con Gesù e con il Padre, lasciandomi trasportare, nel chiedere, nel ringraziare, nel lodare, nel contemplare, a seconda di ciò che sento.
  • Concludo la preghiera con un Padre Nostro e saluto il Signore con un gesto di riverenza.

Nessuno si salva da solo, il dovere civico di andare a votare

Apparentemente è lui il “benedetto”, l’uomo ricco, per il successo e la ricchezza che ha saputo guadagnare in vita. Lazzaro, invece, il maledetto, perché la povertà potrebbe essere considerata come frutto delle sue azioni o di una condanna morale da parte di Dio, tanto più che i cani, animali impuri, vanno a leccare le sue ferite. In una concezione di Dio come “giudice giusto e imparziale”, che retribuisce i beni a chi fa il bene e i mali a chi fa il male, questa logica della benedizione e maledizione sembrerebbe necessaria ed evidente. È ciò che accade anche a noi, quando invidiamo uomini che hanno successo e sono coronati da segni di realizzazione e vittoria nella loro vita: in quel momento noi vorremmo essere come loro, perché ci sembra che tutto nella loro vita sia segnato da una fortunata serie di risultati positivi.

Il vangelo ci invita ad andare più in profondità nella percezione della realtà. C’è una dimensione nascosta agli occhi degli uomini e tuttavia più densa e più vera nella vita di ciascuno di noi, che potrebbe ribaltare le prime impressioni. Anzitutto il vangelo fornisce alcuni indizi per comprendere questo imminente ribaltamento: l’unico che ha un nome è proprio il povero, Lazzaro, mentre il ricco non ha nome, come se la sua identità fosse meno chiara, più in pericolo. Cosa significa il nome Lazzaro? Significa Dio ti aiuta…ossia Dio aiuta il ricco, perché Lazzaro è l’unica possibilità per entrare nell’amore per colui che si ritiene autosufficiente grazie alle sue ricchezze. Tutto ciò che ha non gli servirà a nulla nel momento in cui l’unica chiave per aprire la porta del paradiso è proprio l’amore, la relazione con il fratello. Alla fin fine la realtà si mostra esattamente opposta a come appariva inizialmente. Il ricco si trova all’inferno, privo di una reale benedizione divina: il fuoco dell’amore diviene per lui una fiamma che anziché dissetare, alimenta senza fine la sua sete e il suo bisogno insoddisfatto. Il suo cuore infatti non vuole l’amore, pur desiderandolo. Lazzaro invece è benedetto, perché ha il posto d’onore nel seno di Abramo, ossia nella sua discendenza come figlio. Egli ha scoperto, nella sua povertà di esse figlio. In fondo è proprio Lazzaro ad avere le chiavi per far entrare anche l’uomo ricco nella “benedizione di Abramo”, finché egli si trova alla porta della sua casa: aprire le porte a Lazzaro significa scorpire il fratello e di conseguenza la propria identità di figlio. Ma il ricco non apre quella porta. Mai, fino alla fine.

Il suo inferno è già presente in vita, come chiusura all’amore, alla relazione, al fratello e la morte non fa che cristallizzare un atteggiamento immutabile. Egli anche dopo la morte pensa sempre a Lazzaro come uno schiavetto da utilizzare per sé, per dissetare la sua gola riarsa e l’unico suo pensiero è per i propri parenti, per i membri del proprio clan, perché possano essere adeguatamente avvisati da Lazzaro circa le conseguenze di quel tipo di logica. Non c’è un’evoluzione, un cambiamento, una trasformazione del cuore: egli è rimasto così com’era, nell’inferno della sua identità chiusa all’amore, fatta solo di onore e vuota appartenenza. In questo contesto di cuore indurito neanche l’annuncio della resurrezione può fare breccia: un annuncio contenuto nella Legge (Mosè) e nei Profeti e che si declina nella legge dell’amore non può essere gustato da chi non accoglie l’amore in sé stesso. Il ricco quindi non ha nome perché ha perso la sua identità e perché in lui può immedesimarsi chiunque sperimenti l’inferno qui ed ora, in questa vita, chiunque pensi di vivere della propria autosufficienza e ritenga di bastare a sé stesso. Chiunque si crogioli nella propria ricchezza e non sappia o non voglia vedere di essere povero, bisognoso, ferito. L’uomo che rifiuta la propria ferita cercando di medicarla come può, compensandola con le proprie ricchezze o capacità o attività, è un uomo che non vive, perchè non sa di essere figlio.

Inferno e paradiso sono due caratteristiche della vita presente…Sono la nostra libera risposta alla struttura d’amore che caratterizza la nostra vita e che si rivela dentro alle nostre ferite, e dentro alle porte aperte, capaci di farci comunicare con il prossimo. Li entra Dio, con la sua grazia e il suo Spirito.  

A livello sociale questo si manifesta nell’egoismo diffuso: guardo al mio particolare, il resto può anche andare in rovina. L’interdipendenza in cui ci troviamo oggi, come persone e Stati, ci fa capire tutta l’irragionevolezza di questa opzione…. Solo abbattendo quella porta, solo creando ponti e non muri costruiamo il paradiso intorno a noi.

Oggi, che è giorno di elezioni, scegliere di andare a votare è un dovere civico perché esprime la nostra coscienza di un cammino comune, in cui nessuno si salva da solo.

Il punto di vista “politico” di Dio (XXV TO Anno C)

L’amministratore ha il suo punto di vista egoistico, farsi nuovi amici attraverso le ricchezze del padrone, per poi essere accolto da loro, quando non potrà più occuparsi dei beni del suo attuale padrone.

Il padrone ha un suo punto di vista particolare, mandare via questo amministratore per la sua disonestà nell’amministrare il suo patrimonio. Ma, e qui sta il paradosso, alla fine lo loda per aver praticato degli sconti enormi nei confronti dei suoi debitori. La scaltrezza dell’amministratore, che dal suo punto di vista è semplicemente egoistica, in realtà dal punto di vista del padrone diviene interessante, dice qualcosa in più di questo padrone, che non è evidentemente interessato all’accumulo.

In ogni parabola c’è sempre un elemento paradossale, anormale, che costituisce il fulcro del messaggio evangelico, che è poi il punto di vista di Gesù, e che qui si concentra in uno spostamento di immagine riguardante il padrone. Sembrava che fosse uno interessato ai propri beni materiali, al fatto che non venissero sperperati, e invece ora si mostra come uno a cui non interessa una perdita così considerevole, a patto che l’azione dell’amministratore sia in grado di generare nuove amicizie. L’amministratore è stato in grado di comprendere qualcosa in più, che non era evidente, nella natura di questo padrone, e di sfruttarlo a suo proprio vantaggio: il desiderio di relazione, amicizia, che nasce da uno scambio di beni. Non gli interessano i beni in sé, probabilmente ne ha così tanti che non ha alcuna preoccupazione di mantenerli o accumularli, ma gli interessano nella misura in cui possono “generare” nuove relazioni umane.

Ecco il punto di vista di Gesù nella parabola. È qualcosa di così lontano da un certo moralismo “economico” da lasciarci quasi stupefatti: noi che non vogliamo avere a che fare con soldi di dubbia provenienza, per non rimanere implicati in qualcosa che nuoccia alla nostra reputazione, comprendiamo invece che la giusta immagine del padrone, ossia di Dio, è quella di uno che non ha paura di sporcarsi le mani e di implicarsi per “trasformare” il significato dei beni e delle ricchezze, non importa da dove provengano.

Possediamo noi delle ricchezze e non altri? Siamo cresciuti in un mondo ricco che ce le ha donate a discapito di altri che non le hanno? Siamo parte di un sistema economico ingiusto di cui alla fine abbiamo goduto anche noi? Si, sembrerebbe rispondere la parabola, ma questo non ci deve bloccare in una autoaccusa moralistica e paralizzante: si tratta invece di “trafficare” quei beni, in modo che generino reciprocità, che ritornino nei loro effetti positivi anche a chi non li ha potuti godere. Non è solo una restituzione, è proprio la dinamica della vocazione, a cui ciascuno di noi è chiamato: nulla è dovuto, di ciò che abbiamo, beni, doni, talenti ma tutto è donato non perché sia un possesso geloso, ma perché sia fonte di dono anche per gli altri. Così ha interpretato la sua vita anche Gesù, che non ha fatto del suo tesoro prezioso, il suo “essere figlio” una proprietà privata, ma lo ha donato e condiviso con ciascun uomo, fino alla morte di croce, una morte in grado di riscattare per sempre le ingiustizie del mond, e ribaltarle in una novità di relazioni e di amicizie per il Regno di Dio.

E qui il senso della parabola diventa vertiginoso. Diventa un modo radicalmente nuovo di comprendere Dio, nella sua giusta immagine: se non è più un padrone geloso, che ci impone la sua volontà, ma è uno che desidera costruire relazioni ed amicizie, ciò comporta un radicale “decentramento” di noi stessi, con una forte valenza “politica”. Non importa più conquistare spazi di potere ed influenza, per se stessi, ma ogni spazio da amministrare dovrebbe essere in funzione di generare nuove possibilità e sviluppare tutte le potenzialità degli altri, in particolare dei più deboli, di quelli che ancora non ci sono e non possono far sentire la loro voce, e in particolare delle generazioni future. Ogni ricchezza delle generazioni presenti è rivolta a generare l’amicizia di quelle future…questo è ciò che la parabola oggi potrebbe dirci. La prossima settimana andremo a votare: potrebbe essere interessante interrogarsi sullo sguardo verso i giovani che si legge nei programmi elettorali. Si tratta di uno sguardo in fondo paternalistico o aperto al “dono” nei loro confronti? Quanto in fondo siamo disposti a “perdere” per loro?

Il pentimento di Dio

Siamo sempre stupiti da certe espressioni attribuite a Dio nell’Antico Testamento: Dio si pente!

Se Dio è Dio, come può pentirsi, per l’intercessione di Mosè, di un semplice uomo? Come può cambiare idea? Il pentimento e perdono di Dio è una metafora che questo racconto utilizza, per indicare un cambiamento che Dio opera in noi e che noi invece avvertiamo come un cambiamento suo. Infatti cambia la nostra immagine di lui e di noi stessi ed è come se si modificasse il suo atteggiamento verso di noi.

Vorrei offrirvi un esempio concreto. Nei campeggi degli adolescenti si osserva una cosa che è sempre accaduta e che forse oggi si esprime in modo un po’ più eclatante, per le condizioni familiari e sociali di oggi. I ragazzi oltrepassano il limite molto facilmente ed esprimono, in modo a volte difficile da prevedere e comprendere, una rabbia improvvisa verso le cose. Essi sfidano l’adulto, anche distruggendo il luogo che li ospita, per sperimentare la loro libertà e mettere a nudo l’impotenza dell’adulto. In un certo senso, questo è quello che accade anche nel rapporto con Dio: di fronte alla libertà che l’uomo vuole esprimere è come se Dio si rendesse impotente, perché l’uomo sperimenti fino in fondo le conseguenze del male e del bene. È come se Dio abbandonasse l’uomo a sé stesso, in balia della sua mancanza di senso del limite, perché sperimentandone le conseguenze, possa poi rientrare in sé. Questo è il momento della cosiddetta “ira” e “punizione” di Dio.

Certo in un campeggio – per tornare al nostro esempio – è necessario sgridare, far avvertire il pericolo, le conseguenze del male e favorire il senso del limite e del male contenuto in certe azioni, ma ciò solo un momento propedeutico, che precede qualcosa che accade nel cuore di un giovane e che non è causato “direttamente” dalla sgridata dell’adulto. C’è una improvvisa presa di coscienza che solo Dio è in grado di produrre e che accade quando si tocca il fondo. C’è allora un senso interiore di pentimento, una sofferenza buona, che può orientare un giovane al meglio, per costruire in lui il senso dei valori in gioco, per aiutarlo a pesare limiti e la realtà delle cose. Questo è il cambiamento che avvertiamo come “pentimento” o “cambiamento” di Dio, e che in realtà è una trasformazione del nostro cuore, che finalmente comprende chi è veramente Dio. Questa “presa di coscienza” accade in momenti diversi per ciascuna persona e necessita di un accompagnamento personale, perché corrisponde ad una scoperta profonda di sé, del proprio io, della propria personalità, è come se Dio improvvisamente ci rendesse come nuovi. È quel che affermiamo quando recitiamo il salmo 51: “crea in me o Dio un cuore puro”. Si tratta di un cuore nuovo, di una nuova personalità, che egli costruisce in noi, cambiandoci, ma che corrisponde alla nostra natura più vera ed originaria: quella di essere figli.

Mi si perdoni la banalità dell’esempio, ma è come accade quando abbiamo una macchina ammaccata per aver urtato o strisciato più volte la carrozzeria: quando la andiamo a riprendere dal carrozziere, ci sembra di averla meglio di com’era prima dell’incidente, sembra nuova, come quando l’abbiamo comperata la prima volta. Ecco il perdono: è una nuova creazione che accade in noi, un rinascere come figli, che ci fa percepire il vero cuore di Dio, la sua “tenerezza” e “gratuità” di Padre.

Avere sperimentato questa tenerezza da ragazzi, da giovani, da parte di adulti ed educatori, può essere un seme evangelico che germoglia da più grandi.

Dio infatti, come dicono le parabole della misericordia, che Gesù ci racconta, è colui che sta sempre in attesa e non si stanca mai di cercare, come un pastore la sua pecora smarrita, e con la cura meticolosa di una donna che spazza il pavimento, finchè non ritrova la sua moneta.

Egli occupa tutto il proprio tempo disponibile, che è tanto, e non si scoraggia mai nella sua ricerca, non termina il suo lavoro, fino al momento in cui ci ritrova. È un momento diverso per ciascuno, può accadere da ragazzi in un campeggio, può accadere da adulti in alcune circostanze della vita, può accadere da anziani quando improvvisamente si riscopre con gioia il volto di Dio, che le vicissitudini e fatiche della vita sembrano aver annebbiato. È il volto di colui che arriva fino alla fine e dona tutto sé stesso senza tenere nulla per sé. È il cuore del Figlio che ci ama fino a dare la vita per noi. È un amore è che raggiunge il dove siamo, e sa attendere il momento giusto per ciascuno di noi.