Modelli per una Chiesa in uscita

Stefano negli Atti degli Apostoli e le trasformazioni nella crisi
Il racconto del martirio di Stefano si compone di tre sezioni, la prima e l’ultima (6,8-15.7,54-8,1a) sono narrazioni dell’antefatto, del processo e della sua drammatica conclusione, mentre quella centrale riporta il lungo discorso di Stefano ai suoi accusatori. Rispetto ai due processi precedenti a carico degli Apostoli (cfr. 4,1-21; 5,17-41), qui le accuse rivolte a Stefano sono più circostanziate e riguardano il parlare contro il Tempio e contro la Legge: in questa contrapposizione si può notare una divaricazione sempre più grande delle vie tra la nascente comunità cristiana e la classe sacerdotale e scribale legata al Tempio di Gerusalemme. Inoltre viene aggravata la pena, da una fustigazione alla condanna a morte per lapidazione. Similmente anche gli effetti del martirio di Stefano saranno proporzionalmente più grandi in rapporto alla gravità della sua uccisione: da qui in poi infatti inizia una svolta per la Chiesa che la porterà a diffondersi fuori dai confini di Gerusalemme. La parola si disperde (8,4) ma tale dispersione diviene una provvidenziale semina, fino ad arrivare in Samaria, con la predicazione del diacono Filippo. Ancor più, la partecipazione di Paolo alla lapidazione di Stefano pone la conversione stessa dell’Apostolo delle genti come uno dei frutti più importanti del martirio dei Stefano (At 7,58; 22,20).
Tutto questo passaggio è generato da una situazione di crisi, che appare molto feconda nella narrazione teologica degli Atti, ma che tale non deve essere apparsa, almeno all’inizio, ai suoi protagonisti ecclesiali.
At 6,1-7: un passaggio nella crisi ecclesiale
Al c. 6 avviene il passaggio cruciale dalla Chiesa di Gerusalemme all’apertura paradossale al mondo, sia dal punto di vista geografico che culturale. Infatti il martirio di Stefano si colloca come evento-ponte che traghetta la Chiesa verso una feconda dispersione da Gerusalemme e dalla Giudea per tutta la Samaria, la Galilea e fino, come più avanti descriverà Luca, ad Antiochia di Siria. Dal punto di vista culturale questa dispersione riguarda prevalentemente i giudei di lingua greca, i cosiddetti ellenisti, che erano divenuti cristiani e che, per provenienza e lingua, potevano godere di una maggiore apertura al mondo greco-romano e pagano in generale.
Tutto questo ha un antefatto, che scaturisce da un contesto di difficoltà “istituzionale” nella Chiesa. Era nato un problema che poteva potenzialmente essere deflagrante per la prima comunità cristiana, ossia una contesa culturale tra giudei provenienti da lingue e culture diverse. C’erano nella prima comunità cristiana sia i giudei di lingua aramaica e di provenienza prevalentemente galilaica (come la maggior parte degli Apostoli) o gerosolimitana, sia i giudei di lingua greca, che proveniva da vari luoghi della diaspora ebraica nel bacino del mediterraneo, come ad esempio Barnaba, che proveniva da Cipro (cf. 4,36). Il problema dell’assistenza e dell’onore dovuto alle vedove era molto sentito, in una cultura sociale in cui la vedova era privata della protezione dell’uomo e dunque aveva assoluto bisogno di una custodia e di un aiuto comunitario. Testi neotestamentari come Mc 12,41-44 che esalta la piccola offerta della vedova al Tempio lasciano trasparire l’alto onore tributato a questa categoria nella prima Chiesa, tanto da poter essere quasi compresa come una sorta di ministero all’interno di essa. La trascuratezza in cui erano tenute le vedove di lingua greca non poteva pertanto non costituire una grave sfida alla comunione interna alla Chiesa e causare una notevole tensione tra le due parti. Il problema affonda le sue radici nel gruppo stesso dei discepoli di Gesù, alcuni dei quali avevano molto probabilmente una provenienza greca: i giudei di lingua greca erano infatti molto presenti a Gerusalemme al tempo di Gesù ed erano concentrati soprattutto in alcuni quartieri della città santa. La spaccatura poteva quindi essere letale per la prima comunità cristiana.
La questione arriva ai Dodici (v. 2) che se ne occupano con grande libertà interiore, mostrando la loro impossibilità a controllare direttamente una comunità così in crescita e così complessa come quella gerosolimitana. Essi indicano nuovi ministeri, per poter collaborare al servizio delle mense con nuove persone. I nomi dei “cosiddetti diaconi” sono tutti greci. Per servire la comunità di lingua greca erano necessaria persone in grado di comprenderne le esigenze e la cultura e la lingua.
È quindi importante qui correggere una lettura troppo consolidate di questo passo degli Atti degli Apostoli. Quando si dice “servizio delle mense” non si intende un servizio pratico di carità, contrapposto al ministero di annuncio e di evangelizzazione, che rimarrebbe a carico dei Dodici. La mensa infatti indica, oltre che il pasto, anche il luogo della preghiera liturgica e comunitaria (cf. 2,46). Questo servizio indica la “presidenza” della comunità ecclesiale, con una chiara funzione di annuncio del Vangelo, come emergerà chiaramente dal ruolo missionario di Stefano. Quindi il servizio della Parola di cui si occupano gli apostoli è identificabile con l’annuncio kerigmatico, che rimane paradigmatico per i Dodici, come testimoni oculari di Gesù di Nazareth e della sua vita e ministero, dal battesimo di Gesù fino alla sua ascensione (cf. At 1,22). Ma anche il servizio delle mense dei nuovi ministri ha come obiettivo il nutrimento spirituale della comunità cristiana di origine giudaico ellenistica. Nella persona di Stefano tale ministero avrà la forma di un primo annuncio alle comunità giudaiche di lingua greca, presenti a Gerusalemme.
La conclusione di questo antefatto è chiaramente dettagliata al v. 7: la parola di Dio cresceva e si accresceva anche il numero dei discepoli gerosolimitani. C’è un frutto missionario in questa rinnovata corresponsabilità nella guida della comunità e nell’annuncio della Parola.
La figura di Stefano nasce da qui, da questa obbedienza allo Spirito da parte dei Dodici, che si rivelano abbastanza flessibili nel loro discernimento, da rinnovare profondamente anche la struttura della comunità cristiana, coinvolgendo nuove figure ministeriali, più inculturate all’interno dei mondi vitali del loro tempo.
Quattro brevi considerazioni a margine di questa pagina degli Atti degli Apostoli:
1. la Chiesa apostolica non teme i conflitti che si generano al suo interno, ma ascolta le esigenze e i bisogni sottostanti al conflitto interpretando la richiesta dello Spirito che da essi può emergere. Il conflitto si trasforma quindi in un’opportunità, da non evitare, da non mettere in sordina per paura, ma da cogliere per discernere i cosiddetti “segni dei tempi”.
2. In questo discernimento i Dodici interpellano coloro che sono, per provenienza e cultura, immersi nel mondo che sono chiamati a servire. Si tratta di una saggia scelta di inculturazione. Essi non trattengono il “potere” nelle loro mani, ma sanno trasmetterlo, attraverso l’imposizione delle mani, che indica il passaggio di doni spirituali e di autorità nella fede. Questo passaggio valorizza un’autorità maggiormente carismatica, ossia più attenta a seguire il soffio dello Spirito, nella realtà concreta, in continuo mutamento, che ad una finalità “difensiva” della sua struttura.
3. L’apertura e il coinvolgimento di nuove “culture” nell’autorità apostolica rende possibile una rinnovata potenza di diffusione dell’annuncio evangelico e la Parola di Dio si diffonde ulteriormente. Si può qui riflettere sul pieno coinvolgimento, oggi, di nuove culture e competenze che attendono di essere profondamente innervate dalla potenza feconda del vangelo e richiedono la piena partecipazione e autorità da parte di chi le sperimenta ogni giorno, ossia forme ministeriali che si riferiscono ai variegati ambiti culturali e di servizio della comunità umana. Non si tratta soltanto di creare degli organismi intraecclesiali di consultazione, ma di valorizzare pienamente la riflessione dei laici per il cammino sinodale e missionario della Chiesa. L’ambito della famiglia, della sessualità, della psicologia, della consolazione nella fragilità e nella morte, delle sfide tecnico-scientifiche, della comunicazione, dell’integrazione mente-corpo nella scienza e nella spiritualità, del dialogo con società e religioni non occidentali…non si può non partire da qui e da competenze acquisite a partire dalla vita e dalla storia di tante persone. Penso oggi in particolare al ruolo della donna nella società e alle complesse questioni legate al genere: non si può immaginare una crescita della riflessione spirituale e dottrinale in questi ambiti, da parte una teologia che rimanga troppo astratta e clericale per poter guardare dall’interno questi fenomeni umani, illuminandoli con la luce dello Spirito Santo. Penso anche alle culture giovanili e a come risultino lontane, nei loro linguaggi e modalità comunicative, dal linguaggio ecclesiale, liturgico e catechetico. Si colloca qui una sfida straordinaria per la Chiesa occidentale, che sta perdendo in modo vistoso il contatto con le nuove generazioni.
4. Si può approfittare del percorso sinodale iniziato e delle tensioni ecclesiali che si avvertono, evitando di chiudersi nella paura, ma anzi cercando di rispondere alla crisi con un maggiore investimento di energie nella formazione e nella corresponsabilità. Le difficoltà “istituzionali” che la Chiesa oggi attraversa, con tensioni tra posizioni più progressiste e posizioni più conservatrici, non devono essere semplicemente bypassate. Si tratta invece di favorire nuove ministerialità legate all’annuncio del vangelo, che possano favorire il discernimento di tutta la Chiesa, nel rapporto con le “periferie” del mondo: da qui prenderanno forma anche le necessarie evoluzioni nelle forme della vita ecclesiale.
Mi posso chiedere come il ministero diaconale che esercito si inserisca in questo processo di Chiesa che abbiamo visto nel racconto degli Atti. Quali sfide e conflitti nella Chiesa di oggi? Quali opportunità di incontro con mondi anche lontani dai vissuti ecclesiali ordinari? Come il mio essere diacono si può esprimere dentro alle “periferie” del mondo attuale: il dolore della scomparsa dei propri cari, la fragilità della malattia, i disagi dell’adolescenza, le “partenze” dei giovani, le sfide familiari delle giovani coppie, le sfide ambientali, il tema della pace ecc.
At 6,8-15: Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo
Stefano, con il suo ministero di annuncio, si colloca esattamente qui, in questa intersezione tra la comunità cristiana e il suo ruolo di guida e la cultura che egli respira, a partire dalla sua nascita e provenienza. Egli è presentato come uomo pieno di fede e di Spirito Santo (v. 5): ha dunque le caratteristiche giuste per interpretare il soffio dello Spirito nel contesto concreto in cui è chiamato ad operare.
A conferma di questo gli stessi Atti degli Apostoli iniziano con questa consegna fondamentale di Gesù, che è anche una promessa di intervento da parte dello Spirito: “riceverete la forza dello Spirito Santo su di voi e sarete testimoni di me a Gerusalemme, in tutta la Giudea e Samaria e fino ai confini della terra.” (At 1,18) Questo annuncio e testimonianza non si può compiere se non dentro all’azione dello Spirito Santo, che si esprime sia attraverso la forza retorica della Parola, sia attraverso segni compiuti in mezzo al popolo. Questa alternanza di segni di guarigione e di parole rivolte al popolo di Israele era già una caratteristica di Gesù nel racconto evangelico di Luca, che più volte descrive la sua parola come dotata di autorità, al livello stesso della Parola di Dio (cf. Lc 4,32.36; 5,1). Essa non è solo un’indicazione verbale, ma qualcosa che trasforma il cuore degli ascoltatori e che guarisce in profondità l’uomo. Stefano è conformato dallo Spirito Santo a questo modello cristico: egli dunque non è testimone solo perché comunica il vangelo della resurrezione, come contenuto della testimonianza, ma anche perché tale comunicazione trasforma il messaggero stesso nel suo contenuto. Egli è trasformato nel modello cristico e l’azione dello Spirito può esercitarsi allo stesso modo in cui faceva Gesù nel suo ministero storico.
Come Gesù, anche Stefano sarà quindi destinato a suscitare opposizione e rifiuto da parte dei suoi interlocutori, ossia altri ebrei ellenisti presenti a Gerusalemme: sono qui descritti ebrei presenti a Gerusalemme e provenienti da varie parti del mediterraneo: la Cirenaica, Alessandria d’Egitto, la Cilicia e l’Asia come provincia romana. Non si capisce se si tratta di sinagoghe diverse presenti a Gerusalemme o di un’unica sinagoga, frequentata da un gruppo avente diverse provenienze, ma forse abbastanza compatto quanto a origine culturale e linguistica. Nonostante il conflitto e la resistenza suscitati dall’annuncio evangelico di Stefano, essi non riescono a resistere alla sapienza che proviene dallo Spirito. Si trattava infatti di una sapienza promessa da Gesù ai suoi discepoli, in contesto di persecuzione (cf. Lc 12,11-12; Lc 21,15). Non siamo di fronte ad una dottrina che è stata approfondita in modo teorico a partire dalle Scritture, ma di una conoscenza profonda, gustata, delle Scritture, all’interno del mistero messianico di Gesù di Nazareth, morto e risorto secondo le Scritture. San Paolo, quando ne parlerà al c. 15 della sua Lettera ai Corinzi, userà proprio una formulazione kerigmatica che fa riferimento alla morte e resurrezione secondo le Scritture, e che egli mostra di aver ricevuto e di non averla modificata sostanzialmente, ma di trasmetterla fedelmente. Nella logica narrativa degli Atti, il primo ad averla testimoniata a Paolo, con la sua vita, è proprio Stefano.
In modo simile a quanto avvenuto a Gesù gli avversari di Stefano, non potendo opporsi a parole, lo attaccano fabbricando accuse false. Egli avrebbe parlato contro il luogo santo (il tempio) e contro la legge (v.13), mostrandosi blasfemo nei confronti di Mosè e di Dio (v. 11), in modo molto simile a come Gesù stesso era stato accusato (cf. Mc 14,58). In realtà Stefano non parla contro il tempio ma ne combatte l’assolutizzazione ideologica, secondo il modello dei profeti e dei sapienti di Israele. Il volto di Stefano, trasfigurato, irradia gloria, proprio nell’imminenza della sofferenza, così come anche in Gesù trasfigurazione e passione sono intimamente legate (v. 15).
Alcuni elementi di riflessione che si possono trarre da questo racconto della predicazione di Stefano e del suo arresto.
- Malgrado tutti i tentativi di trasformare il cristianesimo in una religione civile, che stabilizza e dà identità e unità alle istanze civili e sociali di una Nazione, bisogna affermare che nell’annuncio evangelico portato da Stefano c’è un’istanza di relativizzazione delle istituzioni storiche molto provocatoria. Stefano afferma in sostanza che il Tempio di Gerusalemme non è da considerarsi come un’istituzione assolutamente necessaria per mediare il rapporto con Dio, che la sapienza dei profeti ha già mostrato essere molto più libero e liberante della forma con cui si danno certe strutture (cf. At 7,48). C’è una sapienza che conduce ad un “di più”, ad una pienezza di significato indeducibile da istanze puramente sociali. L’annuncio della Parola si mostra così paradossalmente aperto alla novità e alla trasformazione storica, nella misura in cui ne relativizza il peso della tradizione. Esso infatti salda il proprio legame non con forme rigide, ma con Dio stesso, che parla all’uomo, al cuore dell’uomo e apre a Lui vie sempre nuove di annuncio e di vita.
- La particolare sapienza donata dalla Parola di Dio non è semplicemente una formula kerigmatica oggettiva, ma, più profondamente, un approfondimento esistenziale della Parola alla luce del mistero di Cristo. Esso comporta un gusto interiore, una luce profonda, capace di illuminare la vita personale e la storia, per indicare i sentieri che conducono alla vita (cf. At 5,20).
- La conseguenza di questo è che la forma della Chiesa è sempre da riformare: la struttura apostolica della Chiesa, proprio rimanendo stabile in tutte le epoche attraverso il suo ascolto dello Spirito, mostra una grande flessibilità storica concreta, che plasma figure in evoluzione. Questo processo, che non avviene senza traumi e fragilità, ha un solo punto di equilibrio, dal quale non può mai deviare: l’unità della Chiesa nella sua radice apostolica.
- Tale processo di annuncio non può però accadere senza generare tensioni. Di fronte a Stefano e alla sua Parola c’è Saulo fondamentalista e persecutore della Chiesa. Egli proveniva dalla Cilicia, da Tarso, e la sua appartenenza era la medesima di Stefano. Ma Saulo, chiuso nella mentalità farisaica più rigida e zelante, non poteva umanamente comprendere la novità messianica costituita da Gesù di Nazareth, che doveva apparirgli come una bestemmia blasfema. Il messaggio evangelico, dirà poi Paolo, dopo la sua “vocazione”, è scandalo per i Giudei e stoltezza per i greci. Ma in esso c’è una sapienza superiore, che si rivela come potenza di Dio per chi crede.
Quali elementi della mia vita ecclesiale, parrocchiale e diocesana o di comunità, ritengo possano essere riorientati, alla luce della Parola di Dio? Quali sentieri di vita mi sembrano più fecondi? Come è avvenuto in questi ultimi tempi il nostro discernimento sinodale come comunità? Quali resistenze ai cambiamenti?
Conclusione: la morte martiriale di Stefano in At 7,55-60
Al termine del suo discorso Stefano ha una visione della gloria di Dio, nella forma del figlio dell’uomo seduto alla destra di Dio (7,56). Tale visione è preceduta, nel discorso di Stefano, da una serie di riferimenti a precedenti illustri apparizioni di Dio: ossia la teofania della gloria di Dio ad Abramo (v. 2) e l’apparizione dell’angelo a Mosè nel roveto ardente al v. 30. Dunque la testimonianza di Stefano è allineata da Luca ai grandi eventi della storia della salvezza, in cui Dio si manifesta non tanto in terre o luoghi di culto, ma agli eletti, destinati a soffrire l’incomprensione, il fallimento e il rifiuto: attraverso di essi infatti la salvezza fuoriesce dai confini prestabiliti. Come già aveva fatto Gesù, anche Stefano muore affidandosi al Padre e perdonando i propri nemici (vv. 59-60). Il processo di cristificazione del discepolo è portato a compimento, come pure la sua testimonianza, in una forma destinata a produrre il frutto della dispersione e della semina, proprio dentro al parossismo del male e della persecuzione (cf. 8,4).
In ogni vocazione autentica nella Chiesa c’è un elemento di unicità e un elemento di “martirio”. L’unicità indica quell’aspetto propriamente personale del contributo che ciascuno può fare alla Chiesa, e che come tale è unico e irripetibile. E questo ci porta inevitabilmente a considerare come la testimonianza del credente comporti una dimensione, spesso inevitabile, di incomprensione. Se è condotta dallo Spirito essa precorre e anticipa i tempi, risultando più facilmente “integrabile” alla luce della storia successiva, e del suo percorso a volte tortuoso ma sempre sorretto dall’azione dello Spirito. Così la morte martiriale di Stefano, incomprensibile per i suoi contemporanei, diviene, nel racconto degli Atti, un passaggio di straordinaria importanza per il percorso della Parola di Dio, per l’espansione del vangelo, per la forza missionaria che questa testimonianza imprimerà nella favorevole dispersione della Chiesa.
Mi posso chiedere come nella mia vita si è mostrato progressivamente il disegno di Dio, la mia vocazione ministeriale, le difficoltà che essa ha incontrato, ma anche gli aspetti provvidenziali di maturazione che ne sono scaturiti
At 8, 26-40. Filippo e la conversione del funzionario etiope
Un incontro impossibile
Il racconto della conversione dell’eunuco e del suo battesimo è anticipato da una rapida sintesi dell’attività missionaria di Filippo in Samaria. Dopo l’uccisione di Stefano scoppia una violenta persecuzione contro la Chiesa a Gerusalemme, in particolare contro i cristiani ellenisti e ciò produce una dispersione di questi discepoli in Giudea e in Samaria. Il verbo “disperdere” in greco significa anche “seminare” e viene utilizzato da Luca due volte: la prima per riferirsi alla fuga dei discepoli (v. 1) la seconda (v. 4) per indicare come questi dispersi di luogo in luogo andavano annunciando la Parola.
Questa dispersione diviene dunque una provvidenziale semina della Parola di Dio, al di fuori dei confini di Gerusalemme e del territorio della Giudea e della Samaria Così si introduce la missione di Filippo in Samaria, che vede un primo episodio nella conversione di un’intera città (5-8), un secondo nel battesimo di Simon Mago (9-13) e – dopo un quadro narrativo in cui si parla dell’arrivo di Pietro e Giovanni da Gerusalemme (14-24) – un terzo episodio con il battesimo del funzionario della regina Candace (26-40).
Questo episodio inizia con un personaggio che quando entra in scena negli Atti degli Apostoli, incarna sempre interventi inaspettati e secondo la volontà di Dio: l’angelo del Signore (cf. 5, 19; 10, 3; 12, 7ss; 12, 23; 27, 23). Egli entra in scena per ordinare a Filippo di recarsi sulla strada da Gerusalemme a Gaza, a mezzogiorno. La distanza tra Gerusalemme e Gaza è di circa 100 km e il narratore (probabilmente è lui ad aggiungere questa specificazione) ci spiega che si tratta di un luogo deserto. L’orario del mezzogiorno (è più probabile che l’indicazione sia di carattere temporale che geografico, anche se si possono intendere entrambe le connotazioni) non è così favorevole per viaggiare, dato il caldo e il sole a picco di questi luoghi desertici.
Il racconto fa emergere dunque che ciò che sta per accadere, l’incontro tra Filippo e il funzionario etiope, è un evento “statisticamente” molto improbabile, se non addirittura impossibile. Che un uomo viaggi a quell’ora verso Gaza e che Filippo si trovi proprio lì ad incontrarlo…solo la volontà di Dio poteva “architettare” questa improbabile connessione di eventi.
Da notare inoltre che Filippo non sapeva assolutamente il motivo di quel comando stranissimo, di recarsi a quell’ora in un luogo deserto. Questo non fa che rafforzare la percezione nel lettore della pronta obbedienza di Filippo, della sua docilità alla volontà di Dio, anche quando ben poco risulta chiaro in ciò che sta accadendo. Se l’angelo comanda: “Alzati e vai a mezzogiorno sulla strada che scende da Gerusalemme a Gaza”, il narratore ci riferisce, con gli stessi verbi, che egli “si alzò e andò”, con un obbedienza senza riserve né domande.
Egli si fida e probabilmente confida nel fatto che capirà gradualmente il senso e la motivazione di quel comando. Un itinerario simile a quello di Filippo sarà compiuto da Pietro, come vedremo al capitolo 10: il punto di partenza è un’estasi piuttosto ambigua, ma poi lo Spirito guida Pietro passo passo, fino alla casa del Centurione Cornelio (cf. 10, 9-16. 19).
Anche qui più avanti il narratore riferirà la voce dello Spirito Santo, che parla a Filippo e gli indica cosa deve fare (v. 29). Alla fine dell’episodio è sempre lo Spirito Santo a muovere gli eventi da protagonista, rapendo Filippo e portandolo ad Azoto, lungo la costa mediterranea, fino a Cesarea Marittima (cf. vv. 40). Non è dunque sufficiente l’angelo, per comprendere bene la volontà di Dio: Filippo ha bisogno anche delle indicazioni interiori dello Spirito, che lo conducono a incontrare proprio quella persona che era in viaggio. Egli è dipinto da Luca secondo il modello dei profeti Eliseo ed Elia, che erano avvolti dallo Spirito e venivano condotti in modo improvviso e imprevedibile (cf. 1Re 18,12; 2Re 2,11-12; Ez 3,14). Essi obbediscono a Dio e sono docili alla sua Parola. Allo stesso modo Filippo esegue puntualmente le parole dell’angelo, che potevano sembrare assai strane.
A questo punto il narratore si sofferma a presentarci il personaggio del funzionario regale. Egli è il “tesoriere” della Regina di Etiopia, che ha il titolo di Candace ed è eunuco. Da notare che il termine tesoro in greco (gaze) suona come la città di Gaza. Con un gioco fonetico il narratore vuol forse alludere al fatto che in questo viaggio al funzionario sarà dato da amministrare ben altro tesoro… Che la tonalità “esotica” di questa presentazione, un po’ altisonante, sia voluta da Luca per attirare l’attenzione del lettore, non stupisce. L’Etiopia era meta di viaggi nel I secolo, alla scoperta delle sorgenti del Nilo. Ma ciò che importa suggerire a Luca è che la Parola per mezzo di questo incontro inaspettato e improvviso, è destinata a giungere fino ai confini del mondo (cf. At 1,8), fino al lontano regno di Etiopia. Si compiono così le parole del profeta Isaia che aveva profetizzato l’arrivo a Gerusalemme degli Etiopi, con le loro ricchezze (Is 45,14), per supplicare il Signore e convertirsi al Dio d’Israele. Non a caso questo funzionario regale è presentato da Luca come un timorato di Dio, che si reca a Gerusalemme per adorare, ossia per partecipare in certo modo al culto, secondo le modalità previste per i timorati non ebrei. Egli viene denominato come eunuco, qualifica che non necessariamente implica una castrazione, perché nella LXX e anche altrove indica spesso alti funzionari politici e militari, anche se era molto frequente che gli alti funzionari delle regine fossero anche evirati. Il dettaglio, al di là della materialità, è molto importante perché, secondo Dt 23,2 l’eunuco non può entrare nella comunità del Signore, cioè essere circonciso. Il profeta Isaia aveva però annunciato un tempo in cui stranieri e eunuchi possono essere a tutti gli effetti considerati parte del popolo dell’alleanza ed entrare nella casa, ossia nel tempio (cf. Is 56,3-8; cf. anche Sap 3,14).
È proprio il profeta Isaia che il funzionario sta leggendo ad alta voce nel suo viaggio di ritorno. Invitato dallo Spirito, Filippo gli si accosta e gli domanda, senza preamboli né presentazioni: “capisci quel che leggi?”. Il greco di Luca ci offre una bella paronomasia[1]: “ginoskeis a anaginoskeis?” I due verbi sono lo stesso verbo, ma con una preposizione in più che fa la differenza. Leggere è un conto, ma comprendere il senso profondo della Scrittura è un altro. Qui Lc si rifà alla sua teologia delle Scritture, la cui chiave di interpretazione globale può essere solo Cristo risorto (cf. Lc 24, 27. 45-49).
La domanda dell’uomo è dunque pertinente: di chi sta parlando il profeta, di se stesso o di qualcun altro? Egli cita un passo del quarto canto del servo di JHWH, che Luca sceglie a proposito. Si tratta di due versetti (Is 53, 7-8) in cui si parla della morte violenta e umiliante del servo, che non ha opposto resistenza. L’ingiustizia di questa uccisione di un uomo innocente e indifeso è simbolicamente rappresentata dal sacrificio di un agnello. La sua morte è rappresentata come una recisione (testo ebraico) o un’elevazione (testo greco della LXX, citato da Luca) della sua vita dalla terra. La traduzione greca della LXX citata da Luca ha trasformato il compianto per la perdita della discendenza, in una domanda retorica di segno opposto: la sua posterità chi potrà contarla? Sembra un ribaltamento radicale: dall’umiliazione si passa ad un’improvvisa esaltazione. Non a caso, la frase che recita: la sua vita è stata recisa dalla terra, può essere letta in greco anche “innalzata da terra”. È una probabile allusione all’ascensione di Gesù. Qui Luca sta presentando un testo greco che già nella tradizione della prima Chiesa veniva letto in senso cristologico, attraverso un ribaltamento di prospettiva. Dalla morte umiliante all’esaltazione e dalla perdita della vita al dono di una posterità senza fine. Qui si sta parlando di Cristo, del suo mistero di morte e resurrezione.
Sembra chiaro anche il motivo per cui Luca insiste proprio su questo passo per l’eunuco etiope: la sua vita è stata recisa dalla terra, ma la sua posterità è innumerevole. L’eunuco vi legge la sua condizione umiliante che gli impedisce di generare e di far giungere il suo nome fino alla fine del mondo, secondo la speranza biblica più originaria. E insieme vi legge una possibilità di riscatto… forse che dentro a questa umiliazione non ci sia nascosto un bene più grande, un’improvvisa ed inaspettata fecondità? Le Scritture tracciano una via di comprensione di se, davanti al testo…
Ma finchè il funzionario non ha accesso al senso cristologico, non può entrare pienamente nel senso esistenziale, che è la comprensione piena del testo. Per questo è necessario qualcuno che faccia “da guida”, che apra questa strada per l’interpretazione, che conduca l’uomo progressivamente verso il mistero, attraverso l’annuncio. È il ruolo di Filippo che annuncia Gesù all’eunuco, cominciando proprio da quel passo (v. 35) e diffondendosi sulle Scritture, sul modello che il lettore già conosce (cf. At 2).
A questo punto la narrazione procede veloce verso il suo compimento: l’eunuco stesso chiede di essere battezzato e il rito viene amministrato da Filippo in un corso d’acqua corrente. Ma subito dopo, appena risalito dall’acqua, lo Spirito rapisce Filippo per un’altra missione e l’eunuco continua pieno di gioia la sua strada.
La gioia dell’uomo è il frutto spirituale immediato dell’evangelizzazione (cf. 8, 8). Questa consolazione spirituale infonde coraggio e forza a quest’uomo per continuare la sua strada verso l’Etiopia. Non sente la mancanza di Filippo, non identifica il Vangelo con l’evangelizzatore…il vero annuncio non crea dipendenza ma libera l’affettività dell’uomo orientandola verso il compimento della sua personalità, verso la pienezza della propria vocazione, verso la riuscita fecondità della propria vita. Colui la cui vita era stata recisa dalla terra, perché era un eunuco, è pieno di gioia perché inizia a compiersi in lui la promessa evangelica: egli avrà una discendenza numerosa in terra d’Etiopia, la discendenza spirituale di una Chiesa che sta per nascere attraverso la sua testimonianza e predicazione. Naturalmente questo il narratore non lo riferisce esplicitamente, ma lo lascia intendere per mezzo dell’espediente letterario con cui libera improvvisamente l’etiope dalla presenza di Filippo. Quest’ultimo è uno strumento per mezzo del quale nasce una nuova discendenza spirituale.
Come rileggo la mia esperienza quotidiana di vita? Quali “chiamate” del Signore accolgo negli incontri, anche apparentemente casuali, che ogni giorno mi accadono? Come leggo la mia vita dentro alla Parola di Dio?









