PAROLA DI DIO IN PAROLE UMANE (11 – X – 2012)
Che cos’è la Bibbia? Questa domanda è il punto di partenza del nostro percorso di introduzione. Quando abbiamo il libro in mano, ci sembra di sapere esattamente cosa sia una bibbia. Eccola qui in mano, se è un’edizione tascabile può tranquillamente essere tutta contenuta nel palmo della mia mano. Tuttavia possiamo approfondire un po’ questo oggetto, magari aprendolo e leggendo le prime pagine.
Leggere: non si può parlare della Bibbia senza far riferimento ad un lettore e ad un atto di leggere, proprio perché si tratta di un libro, e un libro non coincide mai con un insieme di pagine di carta, quello è solo un supporto mnemonico. Infatti se dicessimo che il libro coincide sol supporto mnemonico di carta, un libro letto su un kindle non è più tale. Inoltre una stessa edizione di un determinato libro, come ad esempio i fratelli karamazov di Dostoevskij, può avere centinaia di migliaia di copie.
Allora il libro non può banalmente coincidere con un supporto cartaceo o informatico. Un libro è molto di più. È un evento di comunicazione che coinvolge un autore e più lettori, reso possibile da un insieme di riferimenti (lettere, parole, segni grafici, grammatica, sintassi, retorica, scelte narrative) che costituiscono la scrittura. Allora c’è un autore, che con le sue scelte narrative e stilistiche intende coinvolgere il lettore, fargli fare un percorso, suscitandogli sentimenti e comprensioni nuove, per trasformarlo. Naturalmente si tratta di un lettore che l’autore stesso ha in mente (implicito), lettore dotato di un bagaglio di conoscenze e di una mentalità precisa. Poi c’è un testo che è un insieme di riferimenti, che contengono un mondo (il mondo del testo), al quale si può accedere solo decodificandoli. E c’è un lettore reale che nella misura in cui si lascia coinvolgere in questo mondo del testo, lo comprende e si comprende davanti ad esso. Attraverso cosa avviene tale comprensione? Attraverso l’atto di lettura. Il problema, specie con i testi antichi, è che il lettore spesso non è dotato di tutti i requisiti che l’autore vorrebbe che egli avesse per capire la sua opera (scarto tra lettore implicito e lettore reale). Qui è tutta la difficoltà della lettura che è un’ interpretazione, sempre più complessa a mano a mano che i mondi culturali di autore e lettore sono distanti.
Vedete allora che cosa complessa è un libro, esso è sempre un evento di comunicazione! Nel caso della bibbia poi la faccenda si complica ulteriormente, perché la bibbia è un libro assolutamente singolare. Anzitutto il termine “bibbia” è un plurale ( ta biblia ), la bibbia è un insieme di libri ( 46 per l’AT 27 per il NT, 73 in tutto ). Gli autori umani della bibbia sono tanti, più dei libri stessi, perché i libri specialmente dell’AT sono stati scritti in un arco di tempo molto lungo e sono il risultato di un lavoro scribale ampio e condiviso. Ma se la Bibbia è comunque un libro unico ciò comporta che oltre ad una molteplicità di autori umani, vi deve essere un “autore” unico che ha in qualche modo suscitato l’opera e l’ha portata a compimento secondo un progetto originario. Questo autore è Dio, dal momento che essa è Parola di Dio in forma scritta (cfr. DV 11, cfr. Deiana p. 42 – 54; ).
Allora la Bibbia è un oggetto complesso, duplice, perché è parola di Dio e insieme parole di uomini. Anzi potremmo meglio dire che la Bibbia è parola di Dio in parole umane. Già, perché nella bibbia non accade affatto che alcuni passi sono dettati da Dio e altri sono semplicemente umani, ma proprio nel processo di organizzazione del libro, che ha comportato il lavoro di una molteplicità di autori umani, prende “carne” la parola di Dio. la Bibbia è certamente parola di Dio, ma in parole umane, perché la parola di Dio non si da se non passando attraverso quelle parole di uomini, unificate da un’azione profonda di ispirazione divina che le accomuna in un organismo unico, vario e complesso, che è la Sacra Scrittura (DV 11).
Secondo quando già affermava Origene, il carattere duplice e complesso della Scrittura ha un analogato principale, una pietra di paragone nel mistero stesso di Cristo. Gesù ha infatti una natura umana, è un uomo come tutti noi, con un corpo e un anima umana, con la necessità di mangiare e bere e dormire, e con una modalità di comprensione e memorizzazione propriamente umana. Come tale la natura umana di Gesù è limitata, è soggetta a vincoli precisi nello spazio e nel tempo, e alla debolezza di essere soggetta al potere e alla violenza degli uomini. Ma nello stesso tempo nella natura umana di Gesù risplende la pienezza della divinità del verbo di Dio, come ci insegna Giovanni: “ Il verbo si è fatto carne”. Nell’unica persona divina che è il Figlio di Dio sono unite la natura divina e quella umana, senza confusione ma anche senza separazione.
Questo vale per analogia anche per la Scrittura Sacra (cfr. DV 13, Deiana p. 53 ). Essa è umana, fatta cioè di autori umani, che scrivevano secondo la mentalità e le limitazioni del loro tempo, che erano influenzati da certe letterature e sapienze delle culture con cui erano entrati in contatto e che avevano alcune forme letterarie e un ambiente di vita, che poteva essere il tempio, la corte o i circoli profetici e sapienziali o ancora le prime comunità cristiane per il NT. Così i Salmi appartengono a tutti gli effetti al genere letterario della poesia, le storie dei giudici sono delle saghe legate a tradizioni di eroi tribali e guerrieri, il levitico è un codice legale, i proverbi sono delle collezioni di detti sapienziali, il corpo paolino è costituito da lettere originariamente realmente inviate, la lettera agli ebrei è un trattato di esegesi, l’Apocalisse appartiene al genere letterario detto appunto “apocalittico” (cfr. Deiana p.52). È ancora chiaro che per comprendere al meglio l’AT è necessario approfondire lo sfondo culturale e religioso dei popoli del medio oriente antico, all’interno del quale si situa il popolo ebraico e la sua matrice culturale e religiosa, perché la Scrittura Sacra è storicamente influenzata da prestiti da prestiti culturali e opera una mediazione dell’esperienza soteriologica (di salvezza) che la caratterizza all’interno di questi elementi culturali. Quindi non si può comprendere la Scrittura se come opera umana, soggetta ai condizionamenti storici.
D’altra parte però la Scrittura è stata scritta, pregata e riscritta da un’intero popolo, il popolo di Israele, che vi si rispecchia in tutta la sua esperienza di fede, e in ultima analisi dalla Chiesa, popolo di Dio della nuova Alleanza. Tutta la Scrittura assume dunque un carattere unitario, perché è norma della fede della Chiesa (analogia della fede cfr. DV 12, Deiana p. 52), ed è da considerarsi in quanto tale come parola di Dio nata nella fede e scritta per la fede del popolo di Dio. Questo è l’elemento divino della Scrittura, come la natura divina della persona di Cristo.
Se la Scrittura ha dunque questo carattere complesso, come la si deve leggere e studiare, per rispettarne e comprenderne la complessità?
Sosteneva Romano Guardini che ogni metodo che voglia essere “scientifico” deve essere adeguato al suo oggetto. Non si può studiare la società e l’economia come se fossero enti fisici, dunque con i soli strumenti matematici, ma bisogna integrare strumenti in grado di tener conto dei valori e della cultura umana.
Allo stesso modo per studiare la Bibbia in modo scientifico, ossia rispettando assolutamente la natura particolare di tale oggetto, è necessario studiarla come un insieme di testi di letteratura, tenendo conto della loro storia, delle loro fonti e della loro forma letteraria. Se studio un salmo che è poesia, devo tener conto che la forma comunicativa, ossia il genere letterario con cui mi perviene è quello di un testo poetico, per cui non gli chiederò l’esattezza di una norma legale, né la precisione temporale di un testo narrativo o storico. Se invece mi trovo davanti ad un racconto, come ad esempio nei libri di Samuele, dovrò indagare tutte quelle strategie narrative che un bravo autore sa mettere in campo per “intrigare” il lettore ed educarlo al senso profondo della sua storia. Se, come in Qohelet, mi trovo davanti ad un testo di sapienza, cercherò di capirlo alla luce delle caratteristiche dei testi di natura sapienziale e non di trattati “scientifici”. ( Cfr anche Gen 1 – 2 e disputa sul “creazionismo”). Se leggo Es 14 vedrò che ci sono delle “fratture” interne al testo che mi mostrano una storia complessa e interventi di diverse mani che lo hanno portato a questa forma definitiva.
Ma il lavoro per un esegeta non si ferma qui. Per essere “scientificamente” corretti, dinanzi al testo biblico, dobbiamo essere consapevoli che ognuno di questi testi, originati in un certo ambiente vitale, caratterizzati da una certa storia e forma letteraria, ci sono pervenuti tramite il loro inserimento in un canone che conferisce loro un’identità e un senso in ordine all’esperienza di fede del popolo di Dio, che li ha scritti, letti, pregati e che in essi vi si riconosce. Certi interventi del redattore finale all’interno di un libro sono posti per collegarlo con i libri precedenti e seguenti (cfr. Gn 50, 24; Es 13, 5. 11; Es 32, 13; Es 33, 1; o ancora in Es 2, 23 – 25 e in 6, 2-8 si richiama il patto di Dio con i patriarchi con un evidente riferimento al patto di Abramo di Gn 17, 1 – 8) . C’è un principio strutturante, orientato finalisticamente, che mette i testi in una serie ( cfr. Is 41, 8 per le figure di Abramo, Giacobbe/Israele, servo di jhwh; cfr. anche 2 Cr 20, 7; Sal 105, 6. 42; Sal 110, 4; Lc 3, 8; Atti 13, 26; Gv 8, 33 -39; Rm 4, 1 – 25; Eb 11, 8 – 19 ), fino al loro compimento, anche al di la delle intenzioni originarie dell’autore e secondo l’esperienza di fede di un popolo che cresce nella misura in cui legge. Il progetto originario di questo fenomeno non può appartenere chiaramente ad un uomo, ma a Dio. Questo significa allora che nel “metodo” dell’esegeta, insieme alle metodologie filologiche e letterarie, ci deve essere un’interrogazione radicale di “senso” che proviene dalla sua apertura alla fede biblica. Essa non si colloca a lato delle operazioni esegetiche, come se fosse una operazione ulteriore accanto alle altre, ma deve informarle tutte come un principio di sintesi che suscita le domande da porre al testo, e organizza in una chiave unitaria possibili risposte attraverso l’uso corretto delle metodologie. Si tratta di una convergenza ultima dei dati, di un “senso illativo”, direbbe Newman, che scaturisce da un’organizzazione complessa di dati senza ridursi ad essere semplicemente la somma di essi.