Uscire dal moralismo. Omelia XXVIII TO Anno B

Ricevere uno sguardo d’amore, di bene profondo, sincero, è forse una delle cose più semplici e più belle della vita. Racconta il vangelo di Marco che mentre un tale si trovava davanti a Gesù ad affermare la sua osservanza della legge, egli,  fissatolo, lo amò. Che fascino lo sguardo di Gesù che ama, ben sapendo che il tale, probabilmente  un giovane, non saprà rispondere positivamente al suo invito. Ciononostante lo ama, preventivamente e gratuitamente. È  questo amore senza condizioni e senza limiti che dovrebbe muovere il giovane a lasciare tutte le sue ricchezze per seguire Gesù. Ora non lo capisce, perché pensa di essere amato in ragione della sua osservanza della legge. Più avanti forse lo capirà… quando avrà scoperto che tutte le ricchezze del mondo non possono eguagliare l’amore.

Ma di che ricchezza si tratta qui? Certamente di ricchezze materiali, ma non solo. L’ultimo comandamento citato da Gesù, ma il primo per importanza, è l’onore dovuto al padre e alla madre, che il ragazzo ha finora osservato alla lettera, ottenendo la benevolenza e il riconoscimento dei propri genitori. Finora questo ragazzo ha fatto tutto quello che i suoi genitori volevano. Ora Gesù gli propone di lasciare tutto, di lasciare “il padre e la madre”,  ossia quella smania di riconoscimento e benevolenza da parte degli altri e specialmente da parte quelle figure importanti che nella vita sostituiscono  genitori. Lasciare le nostre ricchezze relazionali, che ci siamo guadagnate comportandoci bene nei confronti di tutti, in nome di un amore più grande: questo Gesù sta chiedendo al giovane. La fine del moralismo, ossia del nostro sforzo di correttezza per esserne ricambiati e riconosciuti, anche nei confronti di Dio, questo è ciò che produce nel cuore la fede, quando ci si sente amato in profondità da Gesù. In fondo ciò che Gesù porta a compimento è quello che Dio ci chiede fin da quando ci ha creati, stabilendo che l’uomo lascerà sua padre e sua madre, si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola. C’è un amore più grande, che ci porta al di la delle nostre origini, per farci sfidare il futuro.

Già, la sfida del futuro, questo è forse il punto debole del nostro tempo e di noi giovani. Abbiamo una vita intrappolata dal  moralismo, viziati dai più adulti tendiamo a rispondere ad esigenze altrui senza il coraggio di aderire fino in fondo ad un amore più grande e ad una prospettiva di futuro. Ci sono tanti segni di questo. Che dire quando una coppia di persone rimanda il matrimonio solo per avere abbastanza soldi per una bella festa? Ma come, per fare bella figura tu arrivi fino a privarti di anni di felicità, anni irrinunciabili di gioia e di vita benedetta da Dio? Il calo di vocazioni religiose, tra alti e bassi, segue la diminuzione di considerazione sociale di queste figure, perchè è così difficile andare controcorrente e rinunciare ad ampie fette di onore del mondo.

Ma il problema inizia forse ben prima, quando i bambini crescono tartassati da scuola e sport, sottoposti a  richieste più o meno esplicite di performance.. e poi quando arriva il catechismo, è solo qualche integrazione in più ad una mole di impegni e compiti, una specie di brutta copia della scuola. Abbiamo forse dimenticato che il catechismo e la messa domenicale, prima che obbligo e lezione, sono un’esperienza gratuita di fede e di vita cristiana?

Ci intestardiamo perchè ci sembra un’ingiustizia che alcuni possano fare i padrini ed altri siano meno indicati, ci arrabbiamo per regole che ci sembrano imposte e poi finiamo per considerare le varie proposte che la Chiesa fa per preparare l’incontro con Gesù nei sacramenti, come una tassa da pagare… e se ho diverse proposte naturalmente scelgo quella che comporta un prezzo più basso! Dimentichiamo la cosa fondamentale, ossia che Gesù col suo amore ci libera da tutte le pretese e i vincoli legalistici e ci fa iniziare ogni giorno una vita nuova, protesa al compimento della sua volontà, a stare con lui, per poter gioire della sua presenza e del suo amore e insieme ci inserisce in nuovi legami di libertà. «In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà».

Lasciare tutto per seguirlo, per stare con lui, significa obbedire ad un amore che ci inserisce in rapporti di libertà propri di una nuova famiglia, la Chiesa. Voglia veramente il Signore che la comunità cristiana manifesti  nel concreto questa libertà, questa gratuità nei rapporti. Sarebbe il segno di un vangelo vissuto.

Scrittura e Scritture (3 – X – 2013)

SCRITTURA E SCRITTURE (11 – X – 2012)

La seconda lettera a Timoteo presenta Paolo consapevole di aver ormai portato a termine la sua missione di apostolo. Ora egli sente il dovere di trasmettere l’ufficio della predicazione e della custodia del deposito ( parathēkē. “bene prezioso” trad. CEI 2008 cfr. 1, 13 – 14). Non si tratta ancora di un quadro formalizzato di proposizioni vere, come il catechismo che la Chiesa ha elaborato negli ultimi secoli, ma di un impasto, un amalgama vitale tra verità di fede, trasmesse oralmente e per iscritto (cfr. inno cristologico 1, 9 – 10), e di esperienza nella fede, consolidata attraverso la prassi dei sacramenti e dei vari ministeri, nelle comunità cristiane di origine paolina. Questo deposito della fede, che scaturisce dal vangelo vissuto nelle comunità paoline, è ciò che Timoteo è incaricato di custodire, avendo come norma e modello di riferimento per la sua predicazione la parola di Paolo, ispirata alla fede e all’amore di / per Gesù Cristo.

Ci troviamo dunque ad un passaggio fondamentale della comunità cristiana, attestato nella Scrittura canonica, dalla generazione apostolica, di cui Paolo fa parte, alla generazione immediatamente successiva (cfr. anche 1 Tm; Tt). È di fondamentale importanza riflettere ulteriormente su questo passaggio e su ciò che comporta in relazione alla Scrittura stessa e alla comprensione della sua canonicità (cfr. DV 7; Deiana p. 33).

In questo passaggio di consegne tra una generazione e l’altra si trasmette tutto ciò che serve a mantenere integro e custodire questo deposito della fede, ossia l’insieme delle verità e dell’esperienza consolidata di fede della comunità cristiana. Si tratta di una trasmissione vitale, che deve tenere per riferimento e modello la predicazione apostolica, che è l’elemento fondante e generativo di tale deposito. In questo processo di trasmissione diviene necessario ancorare la predicazione di colui che ha il dono dello Spirito per la preservazione del deposito, sulla Scrittura. È importante che chi ha ricevuto questo carisma di verità per l’imposizione delle mani dell’Apostolo, sappia fondarsi su una Parola che ha a che fare con lo Spirito stesso di verità, la Scrittura (cfr. 2 Tm 3, 16). “Tu rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente. Conosci coloro da cui l’hai appreso e conosci le Sacre Scritture fin dall’infanzia: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene mediante la fede in Cristo Gesù. Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona” ( 2 Tm 3, 15 -16 trad. CEI 2008)

Sono due gli elementi su cui vorrei soffermarmi a proposito di questo importante versetto della lettera.

1. L’aggettivo “ispirata da Dio”, che si può anche tradurre come “spirante Dio”.

2.   L’identità di questo termine “ tutta la Scrittura” o “ogni scrittura”.

1. questa definizione è complessa e non facile da chiarire. L’aggettivo verbale che viene qui usato in greco può esprimere una voce passiva ma anche attiva. Se il verbo è da intendersi al passivo allora più chiaramente il termine Dio può essere un complemento d’agente, e dunque si può tradurre “ispirata da Dio”. L’autore della lettera vorrebbe qui sottolineare l’intervento attivo di Dio che ha ispirato, ha reso possibile, col dono del suo Spirito, la creazione di quest’opera letteraria. Dio sarebbe quindi il vero autore, nel senso che l’origine ultima della Scrittura si deve al lavoro del suo Spirito.  Oppure si può intendere l’aggettivo verbale all’attivo, nel senso che la Scrittura è essa stessa ispirante, ossia produce in chi la legge un’ispirazione  che conduce a Dio stesso. È chiaro i due significati possono essere compresenti. Proprio perché ispirata da Dio la Scrittura porta a Dio chi la legge, nell’azione dello Spirito. Insomma l’azione dello Spirito non si limita al processo che ha portato alla stesura dello scritto, ma si prolunga nell’atto stesso della lettura, in cui chi la legge è portato a conoscere Dio e ad entrare in comunione con lui (la Scrittura è come uno spartito musicale dove c’è una tradizione di composizione e una di esecuzione). Ciò significa che la Scrittura ha una caratteristica duplice: da un lato attesta una rivelazione di Dio stesso, perché è ispirata da Dio, dall’altro prolunga la comprensione di questa rivelazione nel cuore di ogni credente di tutti i tempi e di tutti i luoghi, perché è ispirante. Si può notare allora una concezione dinamica della Scrittura, come un fenomeno che tiene insieme la fissità di un riferimento non estendibile ad altro (essa e solo essa è Scrittura) e l’elasticità di una comunicazione continua nella storia.

Una conferma di quanto detto risiede nelle applicazioni successive del v. 16. La Scrittura infatti è utile ad insegnare, confutare, correggere ed educare alla giustizia. Si tratta di compiti di carattere morale ed “anagogico”, che fanno parte dei sensi propri della Scrittura, come più tardi il medioevo formalizzerà ( littera gesta docet, moralis quid agas, quid credes allegoria, quid speres anagogia ). È un compito che si rinnova ad ogni generazione nella Chiesa in cui l’interpretazione della Scrittura deve fare i conti con la storia e con le esigenze della cultura che in quel tempo emergono tra gli uomini, con le loro domande e i loro dubbi. Qui l’operatività spirante della Scrittura attualizza, per mezzo del carisma apostolico di verità, il deposito del vangelo per ogni tempo e ogni luogo. Qui la Scrittura diviene “anima della teologia” (cfr. DV 24), fonte del pensiero morale e ispirazione della riflessione e della missione pastorale  della Chiesa ( cfr. Verbum Domini 73).

2. altro punto da affrontare è cosa intenda l’autore per tutta la Scrittura. Anzitutto bisogna segnalare che l’espressione greca non è del tutto univoca. Essa si può intendere sia in senso globale, come “ tutta la Scrittura” sia in senso distributivo, come “ogni Scrittura”, ossia ogni passo della Scrittura. La seconda modalità è tuttavia implicata nella prima, infatti non potremmo intendere ogni versetto o passo o brano della Scrittura come Scrittura stessa, se non alla luce di una comprensione sintetica della Scrittura come totalità. È importante allora riconoscere che all’epoca della redazione neotestamentaria c’è una comprensione unitaria della Scrittura, anche se non conosciamo esattamente l’estensione di questo termine. È chiaro che l’espressione in esame si riferisce all’AT, dal momento che al v. 15 si fa riferimento agli ierà grammata, ossia all’educazione infantile alle Scrittura, praticata in Israele ( Timoteo era ebreo di madre ) e più tardi raccomandata dalla tradizione rabbinica fin dall’età di cinque anni( cfr. Pirque Abot 5, 21 ). A quali libri qui si faccia riferimento non è chiaro e può essere ipotizzato solo a partire da un’indagine più approfondita sul giudaismo ellenistico del I secolo. Comunque ciò che a noi importa è che nonostante la grande varietà di questi scritti ( torà, profeti, libri storici, salmi e forse l’espressione include anche i libri sapienziali ) c’è una comprensione unitaria di questa realtà, che non proviene semplicemente da un’assunzione dogmatica arbitraria della comunità paolina, ma dalla tradizione ebraica: essa è non solo lettera,  ma lettera sacra, essa è Scrittura.

Mi sembra molto importante anche per noi. Riguardo alla Scrittura siamo davanti ad una pluralità enorme di fenomeni, quanto alle lingue, alle fonti, alle tradizioni, alle traduzioni, ai generi letterari e alle culture di riferimento.

a. Quanto alle lingue vi sono nella Scrittura almeno tre lingue ( ebraico, aramaico e greco ). In greco sono state scritte alcuni libri che per la Chiesa cattolica sono parte dell’Antico Testamento, come il libro della Sapienza e il Siracide ( che probabilmente aveva un originale ebraico ); Dn 13 – 14; Giuditta; Est 9, 20 – 32 ) In aramaico vi sono parti del libro di Esdra e del libro di Daniele    ( Dn 2, 5 – 7, 28 ).

b. Quanto alle traduzioni antiche vi è anzitutto la grande traduzione greca della LXX ( aggiungere qualcosa ). Poi ci sono altre traduzioni greche del testo ebraico ( o testo masoretico ), denominate Aquila, Simmaco e Teodozione, e che noi siamo in grado di ricostruire grazie all’esapla di Origene.  Poi ancora esistono versioni siriache e copte dell’AT. Alcuni testi, come Geremia, presentano una traduzione greca molto diversa dal testo masoretico. Di altri testi, come il Siracide, sono state ritrovate parti in ebraico, probabilmente molto vicine all’originale ebraico di cui parla lo stesso autore. Quale è in questo caso il testo originale, da considerarsi come ispirato? (cfr Deiana 99 – 110, e in particolare i punti 1 – 2 – 3 del cap. 4).

c. C’è una certa varietà nel comprendere il canone ( cfr. Deiana 79 – 97 e particolarmente 2.3; 2.4). La tradizione ebraica non ha considerato al suo interno le parti scritte in greco, pure presenti nella tradizione alessandrina della traduzione dei LXX. La tradizione cristiana ha per lungo tempo oscillato tra un canone ristretto di tipo ebraico ( lista di Atanasio ) e il canone allargato ( lista di Agostino ). Quando le comunità protestanti hanno optato per il canone ristretto la Chiesa cattolica riunita a Trento ha dogmatizzato il canone allargato.

d. la varietà della Scrittura deve essere anche considerata alla luce della diversità dei suoi libri e generi letterari. Si passa dalla poesia ebraica, all’invettiva profetica, dalla storiografia teologica ebraica alle lettere scritte con la retorica di impianto ellenistico. Anche gli sfondi culturali possono essere molto diversi: si passa dal  rapporto del giudaismo con le culture del mediooriente antico per l’AT e al rapporto con l’ellenismo per il NT e la traduzione greca della LXX.

Dal punto di vista del fenomeno, la Scrittura sembra sbriciolarsi in un insieme variegato ed estremamente disomogeneo di Scritture.

Da tutta questa complessità e varietà come può emergere l’unità del fenomeno della Scrittura?

Due sono gli elementi da sottolineare.

1. L’unità fa parte di un processo attestato nella stessa tradizione giudaica, come sottolinea 1 Tm 3, 15 e non imposto arbitrariamente dagli Apostoli.

2. Tenendo conto del fatto che questa stessa lettera ( cfr. anche 2 Pt ) è poi riconosciuta parte del canone scritturistico, allora si può dire che qui la Scrittura testimonia di se stessa di essere parte della Tradizione fondante degli Apostoli e come tale si consegna al lettore nell’atto stesso in cui la tradizione apostolica cede il passo a quella successiva. Il riconoscimento del canone non avviene fuori della tradizione.

Quindi il riconoscimento della canonicità della Scrittura, dogmatizzato definitivamente a Trento, è un’operazione che parte dall’esperienza di fede della Chiesa, radicata nella tradizione del popolo ebraico e fondata attraverso la predicazione e l’insegnamento degli Apostoli. Non si tratta di elaborare a priori un principio che permetta di distinguere ciò che è canonico da ciò che non lo è, ma di riconoscere che la storia e l’identità della Chiesa è profondamente connessa all’unità di un libro, la Scrittura, in cui la Chiesa stessa si riconosce e cresce rileggendolo alla luce della sua storia (cfr. DV 7 – 8; Deiana p. 38 – 39 ).

Parola di Dio in parole umane (3 – X – 2013)

PAROLA DI DIO IN PAROLE UMANE (11 – X – 2012)

Che cos’è la Bibbia? Questa domanda è il punto di partenza del nostro percorso di introduzione.  Quando abbiamo il libro in mano, ci sembra di sapere esattamente cosa sia una bibbia. Eccola qui in mano, se è un’edizione tascabile può tranquillamente essere tutta contenuta nel palmo della mia mano. Tuttavia possiamo approfondire un po’ questo oggetto, magari aprendolo e leggendo le prime pagine.

Leggere: non si può parlare della Bibbia senza far riferimento ad un lettore e ad un atto di leggere, proprio perché si tratta di un libro, e un libro non coincide mai con un insieme di pagine di carta, quello è solo un supporto mnemonico. Infatti se dicessimo che il libro coincide sol supporto mnemonico di carta, un libro letto su un kindle non è più tale.  Inoltre una stessa edizione di un determinato libro, come ad esempio i fratelli karamazov di Dostoevskij, può avere centinaia di migliaia di copie.

Allora il libro non può banalmente coincidere con un supporto cartaceo o informatico. Un libro è molto di più. È un evento di comunicazione che coinvolge un autore e più lettori, reso possibile da un insieme di riferimenti (lettere, parole, segni grafici, grammatica, sintassi, retorica, scelte narrative) che costituiscono la scrittura. Allora c’è un autore, che con le sue scelte narrative e stilistiche intende coinvolgere il lettore, fargli fare un percorso, suscitandogli sentimenti e comprensioni nuove, per trasformarlo. Naturalmente si tratta di un lettore che l’autore stesso ha in mente (implicito), lettore dotato di un bagaglio di conoscenze e di una mentalità precisa. Poi c’è un testo che è un insieme di riferimenti, che contengono un mondo (il mondo del testo), al quale si può accedere solo decodificandoli. E c’è un lettore reale che nella misura in cui si lascia coinvolgere in questo mondo del testo, lo comprende e si comprende davanti ad esso. Attraverso cosa avviene tale comprensione? Attraverso l’atto di lettura. Il problema, specie con i testi antichi, è che il lettore spesso non è dotato di tutti i requisiti che l’autore vorrebbe che egli avesse per capire la sua opera (scarto tra lettore implicito e lettore reale). Qui è tutta la difficoltà della lettura che è un’ interpretazione, sempre più complessa a mano a mano che i mondi culturali di autore e lettore sono distanti.

Vedete allora che cosa complessa è un libro, esso è sempre un evento di comunicazione! Nel caso della bibbia poi la faccenda si complica ulteriormente, perché la bibbia è un libro assolutamente singolare.  Anzitutto il termine “bibbia” è un plurale ( ta biblia ), la bibbia è un insieme di libri ( 46 per l’AT 27 per il NT, 73 in tutto ). Gli autori umani della bibbia sono tanti, più dei libri stessi, perché i libri specialmente dell’AT sono stati scritti in un arco di tempo molto lungo e sono il risultato di un lavoro scribale ampio e condiviso.  Ma se la Bibbia è comunque un libro unico ciò comporta che oltre ad una molteplicità di autori umani, vi deve essere un “autore” unico che ha in qualche modo suscitato l’opera e l’ha portata a compimento secondo un progetto originario. Questo autore è Dio, dal momento che essa è Parola di Dio in forma scritta (cfr. DV 11, cfr. Deiana p. 42 – 54; ).

Allora la Bibbia è un oggetto complesso, duplice, perché è parola di Dio e insieme parole di uomini. Anzi potremmo meglio dire che la Bibbia è parola di Dio in parole umane. Già, perché nella bibbia non accade affatto che alcuni passi sono dettati da Dio e altri sono semplicemente umani, ma proprio nel processo di organizzazione del libro, che ha comportato il lavoro di una molteplicità di autori umani,  prende “carne” la parola di Dio.   la Bibbia è certamente parola di Dio, ma in parole umane, perché la parola di Dio non si da se non passando attraverso quelle parole di uomini, unificate da un’azione profonda di ispirazione divina che le accomuna in un organismo unico, vario e complesso, che è la Sacra Scrittura (DV 11).

Secondo quando già affermava Origene, il carattere duplice e complesso della Scrittura ha un analogato principale, una pietra di paragone nel mistero stesso di Cristo. Gesù ha infatti una natura umana, è un uomo come tutti noi, con un corpo e un anima umana, con la necessità di mangiare e bere e dormire, e con una modalità di comprensione e memorizzazione propriamente umana. Come tale la natura umana di Gesù è limitata, è soggetta a vincoli precisi nello spazio e nel tempo, e alla debolezza di essere soggetta al potere e alla violenza degli uomini.  Ma nello stesso tempo nella natura umana di Gesù risplende la pienezza della divinità del verbo di Dio, come ci insegna Giovanni: “ Il verbo si è fatto carne”. Nell’unica persona divina che è il Figlio di Dio sono unite la natura divina e quella umana,  senza confusione ma anche senza separazione.

Questo vale per analogia anche per la Scrittura Sacra (cfr. DV 13, Deiana p. 53 ). Essa è umana, fatta cioè di autori umani, che scrivevano secondo la mentalità e le limitazioni del loro tempo, che erano influenzati da certe letterature e sapienze delle culture con cui erano entrati in contatto e che avevano alcune forme letterarie e un ambiente di vita, che poteva essere il tempio, la corte o i circoli profetici e sapienziali o ancora le prime comunità cristiane per il NT. Così i Salmi appartengono a tutti gli effetti al genere letterario della poesia, le storie dei giudici sono delle saghe legate a tradizioni di eroi tribali e guerrieri, il levitico è un codice legale, i proverbi sono delle collezioni di detti sapienziali, il corpo paolino è costituito da lettere originariamente realmente inviate, la lettera agli ebrei è un trattato di esegesi, l’Apocalisse appartiene al genere letterario detto appunto “apocalittico” (cfr. Deiana p.52).  È ancora chiaro che per comprendere al meglio l’AT è necessario approfondire lo sfondo culturale e religioso dei popoli del medio oriente antico, all’interno del quale si situa il popolo ebraico e la sua matrice culturale e religiosa, perché la Scrittura Sacra è storicamente influenzata da prestiti da prestiti culturali e opera una mediazione dell’esperienza soteriologica (di salvezza) che la caratterizza all’interno di questi elementi culturali. Quindi non si può comprendere la Scrittura se come opera umana, soggetta ai condizionamenti storici.

D’altra parte però la Scrittura è stata scritta, pregata e riscritta da un’intero popolo, il popolo di Israele, che vi si rispecchia in tutta la sua esperienza di fede, e in ultima analisi dalla Chiesa, popolo di Dio della nuova Alleanza. Tutta la Scrittura assume dunque un carattere unitario, perché è norma della fede della Chiesa (analogia della fede cfr. DV 12, Deiana p. 52), ed è da considerarsi in quanto tale come parola di Dio nata nella fede e scritta per la fede del popolo di Dio. Questo è l’elemento divino della Scrittura, come la natura divina della persona di Cristo.

 

Se la Scrittura ha dunque questo carattere complesso, come la si deve leggere e studiare, per rispettarne e comprenderne la complessità?

Sosteneva Romano Guardini che ogni metodo che voglia essere “scientifico” deve essere adeguato al suo oggetto. Non si può studiare la società e l’economia come se fossero enti fisici, dunque con i soli strumenti matematici, ma bisogna integrare strumenti in grado di tener conto dei valori e della cultura umana.

Allo stesso modo per studiare la Bibbia in modo scientifico, ossia rispettando assolutamente la natura particolare di tale oggetto, è necessario studiarla come un insieme di testi di letteratura, tenendo conto della loro storia, delle loro fonti e della loro forma letteraria. Se studio un salmo che è poesia, devo tener conto che la forma comunicativa, ossia il genere letterario con cui mi perviene è quello di un testo poetico, per cui non gli chiederò l’esattezza di una norma legale, né la precisione temporale di un testo narrativo o storico. Se invece mi trovo davanti ad un racconto, come ad esempio nei libri di Samuele, dovrò indagare tutte quelle strategie narrative che un bravo autore sa mettere in campo per “intrigare” il lettore ed educarlo al senso profondo della sua storia. Se, come in Qohelet, mi trovo davanti ad un testo di sapienza, cercherò di capirlo alla luce delle caratteristiche dei testi di natura sapienziale e non di trattati “scientifici”. ( Cfr anche Gen 1 – 2 e disputa sul “creazionismo”). Se leggo Es 14 vedrò che ci sono delle “fratture” interne al testo che mi mostrano una storia complessa e interventi di diverse mani che lo hanno portato a questa forma definitiva.

Ma il lavoro per un esegeta non si ferma qui. Per essere “scientificamente” corretti, dinanzi al testo biblico, dobbiamo essere consapevoli che ognuno di questi testi, originati in un certo ambiente vitale, caratterizzati da una certa storia e forma letteraria, ci sono pervenuti tramite il loro inserimento in un canone che conferisce loro un’identità e un senso in ordine all’esperienza di fede del popolo di Dio, che li ha scritti, letti, pregati e che in essi vi si riconosce. Certi interventi del redattore finale all’interno di un libro sono posti per collegarlo con i libri precedenti e seguenti (cfr. Gn 50, 24; Es 13, 5. 11; Es 32, 13; Es 33, 1; o ancora  in Es 2, 23 – 25 e in 6, 2-8 si richiama il patto di Dio con i patriarchi con un evidente riferimento al patto di Abramo di Gn 17, 1 – 8) . C’è un principio strutturante, orientato finalisticamente, che mette i testi in una serie ( cfr. Is 41, 8 per le figure di Abramo, Giacobbe/Israele, servo di jhwh; cfr. anche 2 Cr 20, 7; Sal 105, 6. 42; Sal 110, 4; Lc 3, 8; Atti 13, 26; Gv 8, 33 -39; Rm 4, 1 – 25; Eb 11, 8 – 19  ), fino al loro compimento, anche al di la delle intenzioni originarie dell’autore e secondo l’esperienza di fede di un popolo che cresce nella misura in cui legge. Il progetto originario di questo fenomeno non può appartenere chiaramente ad un uomo, ma a Dio. Questo significa allora che nel “metodo” dell’esegeta, insieme alle metodologie filologiche e letterarie, ci deve essere un’interrogazione radicale di “senso” che proviene dalla sua apertura alla fede biblica. Essa non si colloca a lato delle operazioni esegetiche, come se fosse una operazione ulteriore accanto alle altre, ma deve informarle tutte come un principio di sintesi che suscita le domande da porre al testo, e organizza in una chiave unitaria possibili risposte attraverso l’uso corretto delle metodologie. Si tratta di una convergenza ultima dei dati, di un “senso illativo”, direbbe Newman, che scaturisce da un’organizzazione complessa di dati senza ridursi ad essere semplicemente la somma di essi.

 

 

 

Lectio su Mc 10, 17 – 31 – XXVIII T.O. Anno B: “C’è ancora possibilità di salvezza per il giovane ricco!”

Lectio su Mc 10, 17 – 31 – XXVIII T.O. Anno B:C’è ancora possibilità di salvezza per il giovane ricco!”

La liturgia presenta il cosiddetto racconto del “giovane ricco”, anche se è la versione di Matteo a precisare che si tratta di un giovane e non quella di Marco.  Che si tratti di un giovane, lo si può immaginare anche dall’elenco dei comandamenti, che rispetto ad Es 20, 12 – 16, sono invertiti, all’ultimo posto, ossia in posizione di rilievo rispetto a tutti gli altri, si trova il comandamento dell’onorare il padre e la madre (v. 19).  Inoltre si può notare che qui sono citati solo i comandamenti verso il prossimo, ma non quello verso Dio. Eppure, dice Gesù, solo Dio è buono, ossia questi comandamenti si reggono sulla rivelazione di Dio, che ha amato per primo Israele e lo ha fatto uscire  dall’Egitto, questo è il primo comandamento (cfr. Es 20, 2). Allora perché Gesù non lo cita? È un modo molto fine con cui il racconto ci vuol indicare che ora chi ama per primo è Gesù. È in lui che si manifesta l’amore preveniente di Dio, nel suo sguardo penetrante, con cui fissa il giovane e lo ama (v. 21). La tavola dei comandamenti che riguardano Dio è ora tutta riassunta nel rispondere a quest’amore di Gesù, lasciare tutto e seguirlo. La salvezza dipende da questo legame d’amore con un’unica persona, Gesù: questa è la sua pretesa (cfr. v. 29: “a causa mia”). Ora, di fronte a questo il giovane si rattrista e se ne va, perché il suo cuore è ancora attaccato ai suoi beni (v. 22). Non si deve pensare solo alle ricchezze materiali, ma soprattutto a quelle morali. Questo giovane è ancora troppo attaccato all’amore del padre e della madre per poterli lasciare in nome di un amore più grande. Il padre e la madre ci gratificano quando ci comportiamo bene, con il rischio di rispondere alle loro richieste in funzione di una nostra gratificazione. Ma con Dio non funziona così, la vera beatitudine è il perdere se stessi, per acquistare lui     (un tesoro nel cielo v. 21 ), e insieme a lui una nuova famiglia (v. 30). I discepoli restano sgomenti (v. 24) di fronte alla pretesa di Gesù. La loro ( e nostra!) speranza è tutta nella risposta di Gesù (v. 27).  Questa uscita dal moralismo in nome di un amore più grande non dipende da noi, ma da Dio stesso, a cui tutto è possibile. Dunque, anche se il vangelo non lo dice, c’è ancora possibilità di salvezza per il giovane ricco.

Suggerimenti per la preghiera

1. Mi dispongo davanti a Dio in preghiera. Sto in ginocchio o seduto, per entrare in colloquio con il Signore, o meditare su ciò che leggo, a seconda di ciò che voglio.

2. Leggo con attenzione il brano di Vangelo.

3. Chiedo al Signore di poterlo conoscere interiormente come maestro divino, per amarlo e seguirlo sempre più.

4. Vedo le persone che agiscono, osservo come si comportano e si relazionano. Rifletto sull’atteggiamento del “giovane ricco”, che adula Gesù chiamandolo maestro buono. La sua domanda è veramente sincera davanti a Gesù, si sta mettendo in discussione, oppure è solo un modo per sentirsi confermato e a sua volta adulato da questo maestro? Forse anche il mio atteggiamento con Gesù non è molto diverso. Sento allora il suo sguardo d’amore su di me, uno sguardo capace di valorizzarmi e amarmi anche nei miei limiti e chiusure. Sento di poter vincere quella tristezza del giovane in nome dell’amore con cui Gesù mi guarda.

5. Medito su cosa dicono i personaggi.  L’invito a lasciare tutti gli attaccamenti a me stesso e seguirlo nella povertà amorosa vale anche per me. Se anche mi sembra troppo duro e impossibile, so che a Dio tutto è possibile.

6. Contempo la bellezza di stare in intimità con Gesù e con i suoi discepoli, come una nuova famiglia di poveri, la Chiesa, in cui sono inserito. Entro in colloquio con Gesù.

7. Concludo con un Padre Nostro.

10, 17 – 31 – XXVIII T.O. Anno B:C’è ancora possibilità di salvezza per il giovane ricco!”

Gesù e i farisei: un talk – show del I secolo.

Omelia XXVII TO Anno B

I farisei si avvicinano a Gesù per metterlo alla prova, un po’ come si fa oggi nei talk – show televisivi, ponendo una domanda che metta in difficoltà l’avversario, per averla di vinta su di lui.  Si tratta di una domanda insidiosa, che presta il fianco a non facili dispute su “casi concreti”, più o meno scabrosi. Marco mette subito in evidenza l’abilità dialettica e l’autorità di Gesù che risponde a questa domanda: “è lecito ad un marito ripudiare sua moglie?” con un’altra domanda “cosa vi ha ordinato Mosè?”.  Certo Gesù sapeva che la legge di Mosè ( Dt 24, 1 – 4 ) prevedeva la possibilità del divorzio da parte del marito, tramite la consegna di un libello di ripudio. In realtà il senso di questa legge era quello di proteggere la donna, perché il libello di ripudio era una garanzia scritta per lei, che le dava libertà e le permetteva di sposare qualcun altro. Solamente le proibisce di ritornare dal primo marito, dopo essere stata con il secondo, per una questione di purezza. Come molte leggi, pensiamo alla legge 194 sull’aborto, lo spirito originario viene pian piano perso ed essa viene interpretata da alcune scuole ( ad esempio quella di Hillel ) come il permesso di divorziare per qualsiasi motivo, anche se per distrazione una volta la moglie brucia un piatto di pasta!

Gesù invece risale alla volontà originaria del legislatore, che era quella di rimediare in modo compassionevole ad una situazione ormai compromessa, e chiarisce che tale legge è dunque secondaria e dovuta alla durezza di cuore. Qui Gesù usa un termine molto importante per i profeti, per esempio per Geremia ( cfr. Ger 4, 4; 3, 1 ), per i quali il cuore duro indica uno stato di chiusura, di rifiuto della volontà, in particolare nel rapporto  con Dio, che umanamente non possono essere vinti o aggirati.

Dio può vincere la durezza di cuore del suo popolo. Secondo Geremia Dio può far accadere una cosa che di per se è impossibile, anche perché contraria alla legge, ossia che una donna che è andata con altri uomini ritorni al primo marito. Se il marito è Dio, lui solo può permettere che il popolo che è la sua sposa, che lo ha tradito con altri dei, con gli idoli vuoti, ritorni a lui. Lui solo può ristabilire l’alleanza. La ristabilsice con il suo popolo Israele, la ristabilisce con la Chiesa, la ristabilisce con ciascuno di noi e nelle nostre famiglie. Se è Dio a ristabilire la comunione, allora è possibile anche nelle famiglie rinnovare ogni giorno il comandamento originario, quello che l’uomo e la donna divengono una carne sola.

Si, proprio nelle nostre famiglie, non diversamente da come i profeti lo testimoniano per Israele. Spesso chi intende sposarsi in chiesa, di fronte alla promessa che è la forma stessa del sacramento del matrimonio, ossia di una fedeltà perenne, si chiede: “potrò dire un si fedele per il futuro? Dal momento che umanamente noi cambiano giorno dopo giorno, chi sarò io e chi sarà l’altro nel futuro?” Non di rado alcune coppie in crisi affermano reciprocamente “lui/lei non è più la persona che ho sposato”.  C’è un aspetto di verità in questo, ossia che davvero le persone cambiano e il nostro si è temporalmente limitato, è un si pronunciato adesso. Chi da la garanzia che quel si pronunciato adesso, valga anche per il futuro, quando tutto attorno a me e in me cambierà? La garanzia viene dal fatto che Dio è il garante, Dio ristabilisce l’alleanza e ricostruisce continuamente ciò che è fragile e minacciato dal cambiamento e dalle forze centrifughe. Certo di sono sempre momenti di fatica, problemi economici, difficoltà educative nei confronti dei bambini, necessità di accudire i familiari anziani: tutto sembra pesare sulle povere spalle di giovani papà e mamme… e il tempo per coltivare il loro rapporto di coppia, per conoscersi dove si trova più, se si è dominati dallo stress? Ci sono certamente degli aspetti di equilibrio e prudenza umana che vanno tenuti in considerazione, è necessario qualche volta dire dei no e prendersi momenti di riposo e di intimità… e tuttavia questo non sarebbe ancora sufficiente, se non vi fosse la garanzia ultima che Dio vi sorregge e sostiene, è lui il fondamento della vostra fedeltà, perché lui è unità d’amore (trinità) più forte di qualsiasi divisione.

E se per caso questa divisione c’è stata, c’è sempre la possibilità di vivere davanti a Dio, che con il suo amore vi da la forza di non chiudervi nell’egoismo, nella tristezza o nella rassegnazione, ma vi fa ricominciare ogni giorno in un cammino di penitenza, perdono e santità…coltivare il desiderio di quell’eucarestia a cui coloro che si sono risposati non possono accedere li santifica di più che non l’eucarestia scontata di molti…

Infine lo stesso vale anche per quella famiglia più ampia e grande che è la Chiesa. Anche qui divisioni e peccati ci sono sempre dal livello più piccolo della comunità parrocchiale a quello più grande della Chiesa universale. Ma Dio  ci da la forza di riprendere nel suo amore, ogni volta con più umiltà e coraggio. Dobbiamo solo considerare l’ importanza della confessione frequente e del contatto con la sua parola e con l’eucarestia, come fondamento incrollabile di una comunione reale tra di noi. A questo proposito, tra i vari strumenti che abbiamo, c’è anche la lectio divina del martedì sera alle 8:30, che quest’anno vogliamo rilanciare.

E anche di fronte alle difficoltà pastorali dobbiamo ammettere che la forza della Chiesa non è in se stessa, ma in Colui che abbraccia i piccoli. Facciamoci piccoli, con i nostri limiti, col nostro peccato, per essere abbracciati da Dio.

La Chiesa ha il copyright INRI? (Omelia XXVI TO Anno B Mc 9, 38 – 48 )

 

Ogni azienda ha bisogno di essere riconosciuta per un nome e un segno che ne contraddistingua l’identità, e, se possibile, evochi le potenzialità tecniche e simboliche di ciò che produce.

Se la Chiesa fosse un’azienda, quale simbolo sceglierebbe come marchio di fabbrica? Potrebbe forse essere una bella croce con il nome di Gesù, INRI, Iesus Nazarenus Rex Iudeorum? Ogni comunità umana ha bisogno di sfruttare tutte le risorse evocative di un nome che le appartiene per affermarsi nel mondo e distinguersi da tutte le altre: perché la Chiesa non avrebbe diritto di farlo con il nome di Gesù? L’apostolo Giovanni,  quando alcuni giudei esterni al gruppo dei discepoli usano il nome di Gesù per scacciare i demoni, si indigna e glielo vuole impedire, “perché loro non ci seguono”. È interessante che usi la prima persona plurale “ci” anziché la seconda singolare “ti”. Ciò rivela che nella sua mente la comunità è proprio come una bella azienda che possiede il copyright del nome di Gesù e può gestirlo in proprio.

Inoltre questo non è un nome come gli altri, ma è il nome del messia, del Cristo,  dell’unto dallo Spirito Santo e pronunciarlo significa renderne presente l’identità e la potenza , significa mettere in atto l’azione dello Spirito.  Come può farlo qualcuno che non segue Gesù, che non è suo discepolo? Eppure ciò accade, proprio come è accaduto nella prima lettura, dove lo Spirito ha soffiato su due persone che non erano radunate nella tenda del convegno insieme a Mosè e agli altri anziani.

Se ciò accade, se cioè altri che non seguono Gesù, che non sono suoi discepoli possono usarne il nome ed evocarne la potenza spirituale, è per chiamare i discepoli ad una conversione fondamentale: la Chiesa non è un’azienda e la sua logica non è quella di metter se stessa al centro distinguendosi dagli altri per mezzo del nome di Gesù ma, all’opposto, quella di mettere Gesù al centro perché gli altri possano essere come lei. “Chi non è contro di noi è per noi”: sintetizza Gesù con la forza incisiva delle sue parole per donare ai suoi discepoli la consapevolezza di un’identità paradossale, quella della Chiesa, dove il dentro e il fuori si toccano.

La Chiesa è infatti, come dice il Concilio Vaticano II, di cui quest’anno celebriamo i cinquant’anni della sua chiusura, sacramento universale di salvezza, ossia segno e strumento di una salvezza che è per tutti…anche quelli che si trovano al di fuori dei suoi confini visibili. Nel nome di Cristo, unico nome nel quale possiamo essere salvati, la salvezza è inclusiva e non esclusiva, ossia è rivolta a tutti e non solo ad un gruppo umano, foss’anche quello dei suoi discepoli. Noi discepoli di Gesù non viviamo per noi stessi, ma per gli altri, per una salvezza che ci attraversa e che, grazie a Dio, ci oltrepassa, perché il nome di Gesù è onnipotente mentre noi siamo solo un seme piccolo e umile gettato nel grande campo di battagli della storia.

Allora non siamo noi a stabilire chi appartiene a Gesù ma saranno gli altri a riconoscerci come appartenenti a Cristo, e se ci daranno un bicchier d’acqua non perderanno la loro ricompensa.

Da questa pedagogia di Gesù nei nostri confronti possiamo ricavare almeno due conseguenze, nei rapporti all’esterno e all’interno della Chiesa.

All’esterno di se la comunità cristiana è pienamente se stessa, secondo il volere di Gesù, quando è in grado di riconoscere e valorizzare tutto ciò che di buono si trova nelle opere degli uomini e nei loro pensieri. Ciò comporta anche la disponibilità a sviluppare atteggiamenti di partecipazione autentica e sentimenti di gioia per tutto ciò che di bello altre persone e comunità fanno, anche se non siamo noi. Tutto ciò che è autenticamente umano ci interessa e ci “appartiene”, perché proviene da Dio ed è espressione della potenza del nome di Gesù, Verbo incarnato in un uomo.

All’interno di se stessa ogni comunità cristiana, come i primi discepoli di Gesù, deve  maturare la consapevolezza che essa è chiamata a fare incontrare gli uomini con Cristo e non con se stessa. Tutta l’azione evangelizzatrice, compresa la programmazione pastorale, dovrebbe fondarsi su questo radicale de-centramento della Chiesa da se stessa, di ogni diocesi, parrocchia, gruppo o associazione: la preoccupazione primaria non è che più giovani entrino nei nostri gruppi, ma che coloro che saranno chiamati da Dio ad entrarvi, possano realmente incontrarvi Cristo, essere messi in contatto con la potenza vivificante del suo Nome. Infine si tratta di maturare un atteggiamento di rispetto e di attenzione  reciproca tra parrocchie, gruppi e movimenti, opponendosi alla tendenza di fare i primi della classe, di ritenersi coloro che fanno la festa parrocchiale più bella, o hanno un numero maggiore di giovani nei loro gruppi o sono i più presenti nella società e capaci di evangelizzare ecc…  sarebbe piuttosto importante che ciascuno guardasse all’altro come ad un dono anche per se stesso, per gioire della grande varietà di carismi che provengono dal nome di Gesù e che rendono così varia e complessa la nostra Chiesa cattolica.

 

 

 

 

 

il riposo secondo Gesù – omelia XVI sett. T.O. Anno B

IL RIPOSO SECONDO GESÙ – OMELIA XVI T.O. ANNO B

 

Ci troviamo nel cuore dell’estate e anche se ora sta finalmente un po’ piovendo, il caldo, che finora non ci ha dato tregua, ci ha invitato a ridurre la pressione degli impegni e concederci qualche momento di vacanza.

Il tempo del riposo è necessario nell’economia del corpo e dello spirito e anche Gesù ne era consapevole, alternando con ritmo sapiente viaggi e predicazione con la preghiera solitaria. Dio stesso secondo la Genesi si riposa al giorno di shabbat, cessando qualsiasi lavoro di creazione e benedicendo questo giorno. Il ritmo del lavoro e del riposo è dunque profondamente radicato nell’uomo perché risale a Dio stesso, è un ritmo umano – divino, particolarmente necessario in un’epoca come la nostra, dove la logica dell’efficienza e del raggiungimento degli obiettivi ci spinge a considerare il fattore tempo come un semplice ostacolo alla realizzazione di ciò che si progetta, qualcosa da ridurre ed economizzare sempre di più. Questa logica ci crea stress e ansia e alla lunga toglie qualsiasi felicità e gusto alla vita.

 

Ci può consolare il fatto che, come per noi, anche per i discepoli di Gesù il carico di lavoro era particolarmente stressante, tanto che non avevano neanche il tempo di mangiare. Come in una certa misura può accadere anche a noi, la generosità dei discepoli li ha portati a perdere i riferimenti più elementari a se stessi, come il mangiare e il bere, protesi come erano a rispondere alle esigenze altrui.

A questo punto Gesù interviene, perché è necessario che i discepoli riprendano contatto con se stessi, con la propria umile umanità e con il rischio di non farcela a sopportare le tensioni e il lavoro. Così Gesù comanda loro di riposarsi, trovando un po’ di tempo opportuno da passare insieme con lui in un luogo deserto.

 

Dal momento che non possono esserci tempi senza luoghi adeguati, il tempo del riposo si deve associare alla giusta dose di intimità e solitudine in un cerchio di relazioni molto strette.

Luogo deserto indica qui certamente non solo  uno spazio fisico ma anche uno spazio dell’anima, che si sgombra dalle tante cose e nella calma comincia a ponderare ciò che sta vivendo, per contemplare ciò che Dio compie nella vita. Ogni vacanza dovrebbe conformasi un po’ a questo stile, evitando il rischio di un’overdose di esperienze e visite o della noia del far nulla. Ritrovare spazi e luoghi di preghiera in vacanza ci permettere di vincere la noia e di gustare la bellezza dei posti che visitiamo, insieme di donarci un nuovo e spesso rasserenante sguardo sulla nostra vita.

 

 Sembra  tuttavia che Gesù, pur con buona intenzione, non riesca a tenere i discepoli al riparo dalla marea di impegni e richieste che li sommergono. Una folla immensa li cerca, li insegue e li precede laddove stanno per arrivare. Accade spesso anche a noi, quando improvvisi contrattempi o anche la folla dei nostri pensieri e delle nostre angosce ci insegue fino a non permetterci di riposare pienamente. Ciò significa che Gesù venga preso alla sprovvista e venga sconfitto da questa situazione?

Niente affatto. Gesù mostra solo a questo punto quale è il  vero riposo dei discepoli. Essi di fronte ad una folla sterminata di bisognosi non devono fare più nulla, ma solo lasciar agire la compassione di Gesù, lasciare che sia Lui a entrare nei cuori e a trasformarli, a nutrire e a far riposare chi ascolta il suo insegnamento.

Egli infatti è la sapienza stessa, che promette a chi l’ascolta riposo (cfr. Sir 6, 28) e nutrimento (cfr. Pr 9, 1 – 6).

Quando il pastore è in ansia per le sue pecorelle, quando il genitore non riesce a lasciarsi alle spalle certe paure e preoccupazioni per i figli, quando chiunque lavori con delle persone e abbia una certa responsabilità di carattere umano su di esse, non riesce a perdonarsi i propri errori o a staccare di fronte a certi pensieri nei loro confronti, allora è il momento in cui si deve lasciare che sia Gesù a essere protagonista, ad amare, a insegnare, a convertire, trasformare e nutrire gli altri. Solo così si possono davvero superare le proprie ansie di protezione e possesso e si può gustare quel riposo dell’anima, che consiste nella capacità di contemplare non i nostri successi, sempre parziali e ambigui, ma le opere meravigliose che Dio compie nella nostra vita e in quella degli altri.

 

 

le donne e il vangelo degli umili: omelia per il lunedì santo

 

 

Perchè sono proprio le donne a ricevere il primo annuncio della resurrezione e a consegnarlo agli apostoli? Se i vangeli lo riportano, tenendo conto che nella mentalità dell’epoca la donna non godeva di grande considerazione e dignità, significa che è molto probabile che storicamente andò proprio così. Il Signore si è mostrato per primo a delle donne, e forse, prima fra tutte, anche se non è attestato dai vangeli, a sua madre. Ma perchè non ha scelto, per esempio, Pietro, o il collegio apostolico per dare il primo annuncio? Scherzosamente si può dire che il Signore ha agito di furbizia: infatti prevedeva  che, dicendo un fatto a delle donne,  l’avrebbe immediatamente conosciuto il mondo intero! Ma al di la degli scherzi, credo che vi sia qualcosa di vero nel fatto che il Signore ha scelto di annunciare la sua resurrezione come prime a delle donne, considerando le caratteristiche della natura femminile. Nel femminile c’è una particolare capacità di aderire istintivamente e affettivamente alla verità, una propensione ad abbandonarsi, seguendo le ragioni del cuore, che lo rendono particolarmente adatto ad accogliere ciò che Dio vuole rivelare.

Con timore e gioia grande le donne vanno, corrono via dal sepolcro, lasciandosi guidare dall’energia sacra e travolgente di questi sentimenti. Il timore di trovarsi dentro al mistero santo di Dio, la gioia di sentire gli effluvi abissali che provengono dalla resurrezione di Cristo. Qui le donne rappresentano la Chiesa intera, che è donna e sposa, e che gode di incontrare finalmente il suo sposo, prostrandosi ai suoi piedi, baciandoli e bagnandoli con le lacrime della consolazione.

Si, alla luce del vangelo si deve affermare che nonostante nella Chiesa non occupino posti di potere, le donne sono più vicine al cuore di Dio degli uomini e per questo sono state e sempre saranno le prime a portare quell’annuncio di gioia che cambia la storia molto più delle decisioni degli uomini.

In questo passo del vangelo di Matteo, infatti si contrappone l’annuncio di verità delle donne, con la menzogna costruita da uomini potenti. Contrastano il luogo, le modalità e gli effetti. Alla corsa gioiosa e pubblica delle donne, si oppongono le segrete stanze e corridoi dei palazzi. All’annuncio  che si compie nella galilea delle genti e che nasce dall’esperienza vitale e rigenerante della resurrezione si oppone una fabbricazione artificiale,che coinvolge i detentori dei poteri della comunicazione e gli opinion makers dell’epoca.  Alla diffusione universale tra le genti, tra gli umili e semplici uomini di tutti i popoli del mondo,  si oppone un circolare tra gruppi di giudei, che rassicura coloro che sono turbati dalla forza dirompente di questo annuncio.

A ben guardare, è ancora oggi così. Mentre i media costruiscono spesso castelli di ipotesi, per confondere, turbare, generare inquietudine e sfiducia nei confronti della Chiesa e del suo annuncio, la verità non può spesso valersi di tali mezzi, ma passa attraverso una potenza comunicativa diversa, fondata sull’energia della resurrezione.

Questa potenza comunicativa è più forte dell’artificiale menzogna costruita spesso da chi gestisce il potere dell’informazione. Infatti la menzogna si diffonde per un pò, ma poi si restringe e si arresta, e, fondamentalmente, viene dimenticata. La verità invece fa la storia, perchè è la parola di Dio si compie sempre e inevitabilmente, come ci attesta Pietro nella prima lettura. Davide previde la resurrezione di Cristo e ne parlò: infatti non era possibile che la morte tenesse in suo potere il messia di Dio, destinato alla resurrezione

In equilibrio dall’alto monte al quotidiano

La vita quotidiana è segnata spesso dalla fretta e dell’ansia di condurre a termine tutti i nostri progetti ed attività. Da un certo punto di vista questo è naturale, perchè senza un minimo di tensione, rischieremmo di adagiarci e di fare ben poco. Tuttavia spesso a trascinare la nostra mente è più che altro il vortice delle preoccupazioni e delle paure, da quelle globali a quelle più personali. Ci preoccupa il futuro delle nostre economie, e molto più spesso ci preoccupa il fatto di non essere sempre così sicuri di arrivare a fine mese. Poi ci sono le preoccupazioni verso i figli, i nipoti e per chi è giovane la preoccupazione per un futuro che sembra aver chiuso le porte a molte speranze.  Facciamo tanto, eppure facciamo così poco e così ci sembra di girare a vuoto.

Ecco, quando questa sensazione si affaccia, è arrivato il momento di prendere qualche tempo per ritrovare il senso del nostro fare. Può qui essere di grande utilità cambiare aria, andare in qualche posto dove l’affanno delle cose non ci cattura più, dove tutto sembra riposare la pace e la serenità dello spirito. Sono quei luoghi spirituali, quei monti, dove siamo chiamati a riscoprire la  bellezza di stare con Gesù.

Per tutti gli evangelisti i tre discepoli, Pietro, Giacomo e Giovanni salgono su un alto monte, ossia un luogo elevato dalla quotidianità, dove i discepoli si ritrovano in intimità tra di loro e con Gesù. Anche noi abbiamo bisogno di questa intimità, di questo gusto dello stare insieme, anche in pochi amici, per incontrare Gesù e fare un’esperienza della sua luce.

In che modo questa luce risplende per noi?

In tutti gli evangelisti è raccontato il dialogo che Gesù trasfigurato intesse con Mosè ed Elia, che sono le figure della legge e dei profeti, che ricapitolano tutto l’Antico Testamento. Questa è un’ immagine molto bella per dire che tutta la Bibbia è avvolta dalla luce di Cristo e porta verso di lui e proprio per questo motivo la Bibbia è uno dei luoghi più favoriti in cui possiamo lasciarci illuminare dalla luce del Cristo. Facciamone esperienza! In primo luogo attraverso la lettura del vangelo domenicale, che non può essere improvvisata e banale, ma deve essere preparata, così che il nostro spirito aderisca con purezza di cuore ad ascoltare la voce di Dio che parla in quel vangelo. Qualche tempo di silenzio, la lettura a voce alta, una breve meditazione su alcuni punti, un breve pensiero su come la nostra vita può essere vista alla luce di quella parola e poi affidare al Padre tutto noi stessi  con la preghiera dei figli, il Padre Nostro: ecco un modo molto semplice di vivere ogni giorno la luce del monte tabor .

Ma come parla Dio nel nostro cuore? Penso che parli in modo molto simile a quella  voce che scaturisce nella nube: “questo è il figlio mio, l’amato, ascoltatelo!” Questa voce di Dio  risuona sottilmente nel nostro cuore ogni volta che avvertiamo una consolazione e una pace nel meditare il vangelo.  Non è un tuono, né un vento fortissimo, è una voce di silenzio sottile, come quella che udì il profeta Elia su un altro monte dell’AT,l’Oreb., è una soavità semplice, più o meno potente, che irresistibilmente ci trascina verso la luce che promana da Gesù.

Sentire questa voce nel nostro cuore è un dono, e come tale non possiamo afferrarlo. Pietro, preso dall’emozione e dalla paura,propone di costruire delle tende, per passare la notte li, insieme a Gesù, Mosè ed Elia, ma improvvisamente la luce scompare, viene una nube, si sente la voce di Dio e poi rimane Gesù solo davanti a loro. Pietro desiderava prolungare quel momento così bello, afferrarlo, gestirlo e goderne, ma proprio perché esso era dono di Dio, la sua potenza deve manifestarsi non nel modo in cui lui pensa, ma seguendo Gesù sulle strade della vita, fino alla croce.

 

Così anche noi dobbiamo scendere dal monte e fidandoci di Dio dobbiamo lasciare che quel dono di cui abbiamo sperimentato qualcosa manifesti tutta la sua potenza nella debolezza della nostra vita quotidiana.  La vita continuerà come prima, con le sue speranze e le sue angosce, con le sue gioie e i suoi dolori, eppure tutto sarà cambiato dall’interno. Perché nel più intimo di noi stessi germoglia il seme di quella parola di Dio, di quel dono che il Signore ci ha fatto, che è il seme della nostra resurrezione.

Guardiamo  Madre Teresa, che dopo aver gustato il dono di Dio che l’ha condotta a farsi missionaria per i poveri lungo le strade dell’India, ha provato quarant’anni di buio spirituale, nel quale non ha più sentito la presenza di Dio, ma ha continuato a camminare giorno per giorno, nella semplice testimonianza della carità. Si è fidata talmente di Dio che gli è bastata la memoria di quel dono che Dio gli aveva fatto, per oltrepassare quarant’anni di vita senza doni ulteriori. A noi forse non è richiesto tale eroismo, tale grandezza di fede.  Ma un pochino anche a noi è chiesto di fidarci di Dio in questa Quaresima, per gustare i doni che egli vuol darci e insieme custodirli nella memoria nei momenti di maggiore fatica.

 

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