“Maria madre del Signore” Lectio IV Avv. C Lc 1, 39 – 45

 

Lc 1, 39 – 45

39In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. 40Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. 41Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo 42ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! 43A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? 44Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. 45E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».

 

Lectio

Maria si muove in fretta (1, 39), per obbedienza al segno datole dall’angelo (1, 36).  Appena entra in casa di Zaccaria e saluta Elisabetta il bambino sussulta ed Elisabetta è ripiena di Spirito Santo. La potenza dello Spirito Santo comincia in tal modo a muovere i protagonisti, Maria (1, 35), Elisabetta (1, 41), Zaccaria (1, 67),  Simeone (2, 27), inaugurando i tempi messianici che si compiranno quando scenderà su tutti i credenti nel giorno di Pentecoste (At 2, 4). Anche Il sussulto di Giovanni nel grembo di Elisabetta è collegato all’azione dello Spirito: infatti egli era già stato presentato dall’angelo a Zaccaria, come ripieno di Spirito Santo fin dal seno di sua madre (1, 15).

Nei vv. 42 – 45 si sviluppa un cantico di lode di Elisabetta, che avviene senza alcuna comunicazione esplicita da parte di Maria, e dunque è presentato dal narratore come interamente rivelato dallo Spirito. Esso è come “un grande grido”, espressione con cui è presentata la lode liturgica con cui gli Israeliti festeggiavano l’arca dell’alleanza (cfr. 1 Cr 15, 18).  In effetti Quando Davide trasferisce l’arca del Signore a Gerusalemme pronunzia le stesse parole di Elisabetta: “A che devo l’arca del Signore venga da me?”, come manifestazione di stupore e di timore insieme; quando poi dopo tre mesi ( 2 Sam 6, 11; cfr. Lc 1, 56) l’arca viene effettivamente spostata in Gerusalemme, ciò avviene con grida liturgiche al suono del corno (2 Sam 6, 15).

La narrazione lucana conferma questo sfondo liturgico dell’arca del Signore, perché fa occupare a Gesù la stessa posizione di Dio. La benedizione di Elisabetta, per esempio, è modellata su un formulario tradizionale con il quale alla benedizione della persona si accosta la benedizione di Dio, quale fonte ultima della vita e della grazia (cfr. Gdt 13, 18). Quando dunque Elisabetta esclama: “Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo seno”, la seconda benedizione sarebbe quella tradizionalmente riservata a Dio, così che Gesù occupa chiaramente la stessa posizione di Dio, come già aveva preannunziato l’angelo, definendolo “figlio dell’Altissimo” (cfr. Lc 1, 32. 35).

Si tratta di una fede cristologica che la comunità cristiana ha ottenuto in virtù dell’esperienza del risorto e che essa condensa nelle sue espressioni pubbliche, riservando a Gesù il titolo di “Signore”(cfr. At 2, 36). Non a caso Elisabetta si esprime con questi termini, definendo Maria “a madre del mio Signore”, con una formulazione carica di timore e stupore (1, 44).

Il grido di lode di Elisabetta si conclude con una beatitudine solenne: “Beata colei che ha creduto al compimento delle parole pronunziate per lei dal Signore”, che Gesù riprenderà indirizzandola ad ogni credente (cfr. 11, 27 – 28).  La beatitudine rivolta a Maria si può dunque riferire a qualsiasi credente, che ha in lei il suo modello.

 

Suggerimenti per la preghiera

1. Mi dispongo davanti a Dio in preghiera. Sto in ginocchio o seduto, per entrare in colloquio con il Signore, o meditare su ciò che leggo, a seconda di ciò che voglio.

2. Leggo con attenzione il brano di Vangelo.

3. Chiedo al Signore il dono di una conoscenza interiore di lui, che per me si è fatto uomo nel seno della Vergine Maria, per amarlo e seguirlo sempre più.

4. Vedo Maria che si mette in viaggio, in fretta, per andare da Nazareth ad Ain – Karem, viaggio molto lungo e faticoso, di almeno 150 km, in groppa ad un asinello. La sua trepidazione è motivata dal mistero delle parole cui ella ha creduto e allo stesso tempo ne cerca la conferma.

5. Ascolto la voce di Maria e il grido di Elisabetta. Lasciandomi ispirare dallo stupore e dal timore reverenziale di Elisabetta, contemplo in Maria l’arca dell’alleanza,  colei che porta in grembo il Figlio di Dio fatto uomo, che è ancora un piccolo embrione.

6. Chiedo a Maria di visitare anche la mia povera vita con il dono preziosissimo che è contenuto in lei.

7. Concludo con un Padre Nostro.

 

 

Il gaudio delle nozze, attesa del Natale (Omelia III Avv. C)

 

Giovanni, lampada che arde nell’oscurità, poteva apparire a molti in Israele come il messia atteso, sia per la forza della sua predicazione sia per l’importanza numerica che il suo movimento aveva ormai acquisito. Mentre il dubbio serpeggiava nel cuore di molti, il Battista si incarica di chiarirlo e di ristabilire con umiltà la propria posizione nella storia della salvezza. Non è lui il messia, perché il suo battesimo di conversione avviene soltanto con acqua, mentre il messia, che è più forte di lui, battezzerà in spirito santo e fuoco e lui non è degno di sciogliere il legacci dei suoi sandali. Cerchiamo di chiarire questa risposta del battista, cominciando con l’ultima, misteriosa espressione: “sciogliere il legaccio dei sandali”. A prima vista può sembrare il gesto del servo nei confronti del suo padrone, di cui il Battista non si sente degno: sarebbe dunque un’espressione di grande umiltà. Più profondamente possiamo individuare nell’azione dello sciogliere i legacci dei sandali e sfilarli un atto giuridico di carattere matrimoniale. Infatti se in Israele una donna rimane vedova senza figli, il fratello del defunto o il parente più prossimo ha il diritto di sposarla per dare discendenza al defunto. Tuttavia tale diritto può essere ceduto ad un altro, attraverso il rito dello “scalzato”: colui che cede il diritto, si fa sfilare i sandali da colui che subentra nel diritto di sposare la vedova. Quindi Giovanni non è degno di slegare i sandali del messia, ossia di togliergli il diritto di sposare la vedova rimasta senza figli, che è l’umanità privata della sua fecondità spirituale a causa del peccato. Il messia sposo, in grado di generare una discendenza spirituale, quella dei figli di Dio, non può essere il battista che battezza solo con acqua, ma Gesù che con la sua morte e resurrezione dona un battesimo di spirito santo e fuoco nel giorno di Pentecoste.

Se con il battista siamo dunque in attesa di una festa di matrimonio, con Gesù questa festa è definitivamente arrivata, perché egli ci ha donato il vero battesimo, quello che con il dono dello Spirito ci fa diventare figli di Dio. Da dove nasce quindi la gioia del natale? Nasce dalla festa di matrimonio che celebriamo nel bambino Gesù, colui che ha sposato definitivamente l’umanità, il Dio con noi. Lui,che nel Natale si è abbassato fino a farsi uomo in una carne umile per poter diventare come noi, con la sua resurrezione ci ha donato lo Spirito Santo, perché noi potessimo diventare come lui.

Il frutto del natale è quindi il gaudio, dono dello Spirito che abbiamo ricevuto nel battesimo e che continua a soffiare in noi per trasformare la nostra umanità nella sua divinità. Se siamo ad una festa di matrimonio, non dobbiamo forse assumere un atteggiamento gioioso? Tanto più dobbiamo esserlo attendendo il Natale, ben consapevoli che questo gaudio specifico non è frutto di un nostro sforzo, ma soltanto dono di Dio.

A questo ci esorta anche San Paolo, che ripete di essere lieti nel signore e di non angustiarsi per nulla! Questo gaudio particolare è in grado di vincere ogni angoscia per le cose del mondo, ogni ansia e tristezza che ancora ci avvolgono . Questo gaudio è una soavità profonda che ci spinge a confidare in Dio, abbandonandoci in lui in ogni cosa.  È il segno reale che la nostra vita è spesa per gli altri e non per noi stessi, nonostante le varie sfumature di egoismo e orgoglio che ancora scolorano le nostre migliori intenzioni.  Giovanni il Battista consiglia i soldati e i pubblicani, di  trasformare il loro mestiere non sempre edificante in un dono per gli altri con l’onestà e la rettitudine; così anche tutte le nostre azioni quotidiane, anche quelle apparentemente più neutre e insignificanti, possono diventare, una dietro l’altro, una scia luminosa di grazia.

In ogni circostanza, ammonisce Paolo, conservate la letizia e vincete l’angoscia con preghiere, suppliche e ringraziamenti. La vita di preghiera è l’arma più potente che abbiamo per combattere ciò che turba il cuore, oscura la chiarezza interiore, offusca la speranza e indebolisce le migliori intenzioni. Certamente, lontano e vicino a noi accadono cose nelle quali non possiamo che notare l’impronta del male: quando 20 piccoli bambini muoiono uccisi da un killer in una scuola americana, o quando un ragazzo di 28 anni si getta sotto il treno vicino alla stazione di Riccione, ci viene da chiederci se abbiamo veramente il diritto di gioire e fare festa. Non dobbiamo lasciarci condizionare dall’attrattiva del pensiero pessimista e dello sguardo disincantato, perché nel bambino Gesù la luce risplende più forte di qualsiasi tenebra umana! Egli ha già vinto il male, siate dunque lieti e pregate in ogni circostanza, in quelle difficili per supplicare e in quelle belle per lodare, così che ogni inevitabile alternanza di gioia e di dolore sia attraversata e come unificata dalla speranza del Natale.

 

 

 

 

 

Preghiera dei fedeli

Tristezza, disperazione, angoscia, ansia per il domani. Sono atteggiamenti e sentimenti frequenti nella nostra vita. Spesso legittimi, ma mai giusti. Oltre che gettare ombre sulla vita, sono la prima contro-testimonianza della nostra fede.

Rinnoviamo la nostra speranza pregando: Vieni Signore Gesù.

 

1. Perché la Chiesa nei momenti difficili della sua storia e nelle persecuzioni per causa del Vangelo si abbandoni con fiducia alla potenza e la fedeltà di Dio. Preghiamo.

2. Per la nostra comunità parrocchiale e per il consiglio pastorale che si riunisce lunedì sera, perché possa leggere con  lucidità i segni della volontà di Dio, incamminandosi con decisione nei percorsi pastorali indicati dal Vescovo. Preghiamo.

3. Perché le nostre famiglie  possano prepararsi al Natale testimoniando la letizia nell’ ordinarietà della vita e la solidarietà verso i poveri. Preghiamo.

4. Signore, custodisci i nostri pensieri e i nostri cuori nella tua pace. Rendici tenaci costruttori di percorsi di riconciliazione per chi incontriamo sul nostro cammino. Preghiamo.

5. Perché coloro che sono oppressi dalla sofferenza e tentati dalla disperazione siano toccati dal tuo annuncio di salvezza, e trovino in noi la sollecitudine capace di restituire speranza. Preghiamo.

Signore ascolta la nostra preghiera. Fa’ che ci disponiamo ad accogliere nella letizia e con fede sincera il Tuo Figlio che viene a salvare tutti gli uomini. Te lo chiediamo per Cristo nostro Signore.

 

 

 

 

 

 

 

I sandali del messia – sposo (Lectio divina III Avv. Anno C Lc 3, 10 – 17)

Lc 3, 10 – 17

10Le folle lo interrogavano: «Che cosa dobbiamo fare?». 11Rispondeva loro: «Chi ha due tuniche ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare faccia altrettanto». 12Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: «Maestro, che cosa dobbiamo fare?». 13Ed egli disse loro: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato». 14Lo interrogavano anche alcuni soldati: «E noi, che cosa dobbiamo fare?». Rispose loro: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe».

15Poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, 16Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. 17Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».

18Con molte altre esortazioni Giovanni evangelizzava il popolo.

Lectio

Le folle a cui il Battista sta parlando sono il popolo di Israele in attesa (cfr. 3, 10. 15), che si chiede se sia proprio Giovanni il Battista il Messia. La sua risposta risulta una proclamazione di fede in Gesù che viene: il Battista, profeta dell’altissimo (1, 76), indica il figlio dell’altissimo (1, 32) e prepara il popolo ad accoglierlo (1, 17. 77).

Il messia che viene infatti è il più forte, qualifica che si riferisce originariamente a Dio stesso (cfr. Dt 10, 17). La sua attività sarà caratterizzata da un battesimo di spirito e di fuoco, immagine che indica un giudizio di salvezza, attuato attraverso lo Spirito santo come dono d’amore che rinnova il cuore dal di dentro (cfr. Ez 36, 25ss.). In At 1, 5 lo stesso contrasto tra acqua e spirito è ripreso a proposito del rapporto tra battesimo di Giovanni e battesimo cristiano, che si inaugura il giorno di pentecoste con l’effusione dello Spirito Santo e l’apparizione delle lingue di fuoco ( At, 2, 3).

Si può quindi affermare che per Luca il compimento di tutta la purificazione attuata dal Battista per preparare il popolo, sia costituito dal dono definitivo dello Spirito Santo che avviene nel battesimo cristiano.

Come spiegare l’enigmatica immagine dei legacci dei sandali del messia, che Giovanni non è degno di sciogliere? Non è solo questione di umiltà, perchè sullo sfondo di questa tradizione si intravede la legge del levirato ( Dt 25, 5 – 10), per la quale una donna vedova senza figli deve essere riscattata, ossia presa in moglie, dal fratello del defunto, o dal parente più vicino, per suscitare una discendenza al fratello morto. Se il parente stretto rinuncia al suo diritto e lo vuole trasmettere ad un altro deve sfilarsi il sandalo e darlo all’altro, come nel caso di Rut la Moabita, che viene riscattata da Booz, della discendenza davidica (cfr. Rut 4, 7). Così il Battista starebbe dicendo che non ha il potere di togliere il diritto di riscatto al Messia davidico, che è il vero sposo di Israele. L’immagine è ripresa ed esplicitata in Gv 3, 28 – 29. Dunque nel quadro della teologia lucana del Battista, con il dono dello Spirito a Pentecoste, frutto del mistero di morte e resurrezione di Gesù, e con il battesimo cristiano si entra nei tempi messianici, in cui l’umanità sarà sposata dal suo redentore, il messia Gesù.

D’altro canto in Israele la Pentecoste è la festa della mietitura, e proprio in questo contesto Booz, trovandosi nell’aia, promette a Rut di riscattarla e di sposarla  (cfr. Rut 3, 6 – 15). C’è forse un collegamento tradizionale con la mietitura di cui parla il Battista e con l’immagine della pulitura dell’aia (cfr. 3, 17), quale giudizio di salvezza per tutti i popoli compiuto dal Messia – sposo. Questo giudizio per Luca si compie nella Pentecoste dello Spirito Santo e nel battesimo cristiano.

Come allora si può entrare nel compimento caratterizzato dal messia – sposo secondo la predicazione del Battista?

Attraverso la penitenza, che non esige pratiche ascetiche speciali, ma un cambiamento radicale di prospettiva nello svolgere gli stessi impegni quotidiani (cfr. 3, 10 – 14). Si tratta di vivere un’ autentica umanità, caratterizzata dalla condivisione e dalla gratuità proprio dentro le strutture socio – economiche apparentemente più lontane da tali logiche, come l’esercito e l’esazione delle tasse. Servendo i poveri e donando noi stessi nella quotidianità dei nostri impegni noi entriamo nel mistero di Dio che con il suo Figlio Gesù viene a prendere il posto dei più poveri  tra gli uomini, sposando un’umanità debole e sofferente a causa delle ingiustizie della storia.

Suggerimenti per la preghiera

1. Mi dispongo davanti a Dio in preghiera. Sto in ginocchio o seduto, per entrare in colloquio con il Signore, o meditare su ciò che leggo, a seconda di ciò che voglio.

2. Leggo con attenzione il brano di Vangelo.

3. Chiedo al Signore il dono di una conoscenza interiore di lui, che per me si è fatto uomo nel seno della Vergine Maria, per amarlo e seguirlo sempre più.

4. Vedo la folla di uomini normali, immersi nelle più varie professioni, anche quello più moralmente discutibili, che vanno da Giovanni per farsi battezzare e chiedergli indicazioni di carattere morale. Condivido tutta l’attesa di questo popolo nei confronti di una liberazione molto vicina.

5. Ascolto la sua voce di Giovanni il Battista che mi chiama a vivere nell’oggi della mia vita l’attesa del messia – sposo. Considero e vedo tutta la mia vita, a partire dal battesimo, alla luce della grazia dello Spirito Santo, che mi conduce all’incontro con Cristo e mi riscatta dalla morte. Lo stile della gratuità e servizio nella quotidianità è il dono di grazia e insieme l’impegno a rendere questa grazia sempre più attiva nella mia vita.

6. Entro in colloquio con Gesù, il messia che viene a riscattarmi dalla morte nella sua croce e a donarmi la salvezza e gli chiedo ciò che sento.

7. Concludo con un Padre Nostro.

La Parola nel deserto della crisi (Omelia II Avv. Lc 3, 1 – 6)

Quando Dio parla nella Bibbia non si limita a comunicare delle informazioni, ma dona essere e consistenza a eventi e cose. In una parola, Egli crea. Non solo all’inizio quando ha messo in moto l’universo, ma in ogni momento egli continua a “creare” con la sua parola. Quando la parola accade su Giovanni, essa si colloca nel cuore della storia umana, in un determinato contesto segnato dalla supremazia politica dell’impero romano, dal controllo amministrativo dei figli di Erode il grande e dal potere religioso del tempio di Gerusalemme, rappresentato dai sommi sacerdoti. Questo elenco di autorità nel vangelo di Luca vuol significare che la parola di Dio non si limita ad essere trascritta nei libri, ma è una forza che condiziona e trasforma la storia universale dall’interno, attraverso la voce e la parola umana di qualche servo.

Basta una parola umana a cambiare la storia? Non si tratta della voce dell’imperatore, che comanda su innumerevoli legioni, ma della voce di un uomo solo e senz’armi. Non è neanche una parola postata su twitter che tutti possano leggere o un video caricato su youtube che tutti possano vedere. Si tratta invece di una voce che parla nel deserto. Nel deserto come si può pretendere che la parola umana abbia qualche effetto?

Nel deserto non ci sono punti di riferimento sulla terra, ma solo una distesa gialla e infuocata che si protende per tutte e quattro le direzioni cardinali. L’unico modo per capire dove stai andando è guardare il cielo di notte, perché solo le stelle possono aiutarti a trovare il nord. In effetti la sola differenza che risalta nettamente, in un paesaggio totalmente monotono, è quella tra cielo e terra. Così il deserto è il luogo simbolico in cui l’uomo, privatosi provvisoriamente dei beni che vengono dalla terra, riconosce come l’unico bene di cui può vivere è Dio.  Come il popolo di Dio nell’Antico Testamento che, dopo essere uscito dall’Egitto, veniva educato da Dio ad avere fede in lui con il dono del pane del cielo (la manna) e dell’acqua che scaturisce dalla roccia, così anche noi solo nel deserto possiamo ritrovare la direzione della nostra vita.  Qui siamo educati ad ascoltare Dio, a dipendere da lui, a confidare in lui e nella provvidenza della sua parola che nutre la nostra vita sia spiritualmente che materialmente. Tanti sono i beni di cui sentiamo la necessità, e siamo arrivati al punto di non fare più figli se non possiamo assicurargli un determinato standard di beni. Inoltre questi tempi di crisi l’ansia e l’egoismo induriscono i nostri cuori, perché abbiamo paura che improvvisamente tutti questi beni ci vengano tolti. Solo per fare un esempio, a Riccione nell’ultimo anno più di 150 famiglie hanno tolto quei 15 euro al mese che prima donavano per le adozioni a distanza. Sono 150 bambini che non hanno più la possibilità di mangiare e andare a scuola! è vero che molti di noi non riescono ad arrivare a fine mese, ma è giusto che sia proprio quella una delle prime voci di spesa da tagliare?

Ci vuole l’esperienza del deserto, per liberarci dalla paura di essere privati dei beni, e per riconoscere che ogni bene è importante nella misura in cui in esso risplende la provvidenza di un unico Bene, il solo veramente necessario e importante: Dio.  Qui Dio può trasformare il nostra cuore, rendendolo docile e capace di riconoscersi umile creatura, che ha bisogno ogni giorno del suo amore. Qui la voce di un servo diventa uno strumento potentissimo nelle mani di Dio, perché la parola di Dio, passando attraverso questa voce, può penetrare profondamente nella vita degli uomini e trasformarla, con l’esperienza unica e straordinaria di Dio. Questa voce è come il bastone di Mosè che percuote la roccia e da essa può scaturire miracolosamente l’acqua. Essa risuona nelle parole di chi testimonia Dio nella vita di tutti i giorni, di chi si abbevera ogni giorno a quella roccia spirituale che è Cristo, senza permettere all’ansia per le cose di avere il sopravvento. È la voce di chi annuncia il vangelo e invita alla preghiera, l’unico vero deserto in cui possiamo ritrovare la roccia spirituale che alimenta la nostra vita.

Allora possiamo leggere anche questo tempo di crisi economica come un segno da parte di Dio, il segno di un deserto da attraversare per ascoltare la parola del vangelo, che ci chiama a cambiare sguardo sulla realtà e a costruire con fiducia e speranza il futuro.

 

 

Maria donna libera (Omelia per immacolata concezione)

La risposta di Maria alle parole dell’angelo sembra inizialmente essere dubbiosa. Leggiamo nella traduzione: Com’è possibile, dal momento che non conosco uomo? Maria sembrerebbe incredula, come era già accaduto a Zaccaria, durante la visione dell’angelo. Ma la parola che Maria usa, si può tradurre anche con un: Come può accadere, dal momento che non conosco uomo? Maria non è incredula, sta chiedendo solamente di conoscere meglio il progetto di Dio  per lei, che ora è solo una ragazza promessa sposa, ma non ancora sposata ( in Israele il contratto/promessa di matrimonio si faceva molto presto, fino ai 13 o 14 anni).

Maria è una donna come tutte, anzi qui addirittura è una ragazzina, e ha certamente bisogno di capire la volontà di Dio, di comprendere che tutto ciò che accadrà sarà opera di Spirito Santo e non di uomo. Qui alcune di voi potrebbero domandarsi – so che spesso voi donne vi fate questa domanda-: “ma allora Maria non era una di noi, non era come noi, dal momento che è stata talmente favorita dallo Spirito Santo, da essere addirittura liberata dalla macchia del peccato originale. È stata una privilegiata, a differenza di noi povere donne, che dobbiamo portare nel nostro corpo anche la fatica del parto e tutte le sofferenze della carne.”

Certamente si può affermare che Maria è stata oggetto di un dono e di un privilegio enorme. Ma sapete voi cosa vuol dire essere libera dalla macchia del peccato originale? Sapete cos’è il peccato originale? Il peccato originale è una realtà misteriosa nella nostra vita, che non può essere analizzata direttamente, ma può emergere solo in controluce, quando si guarda tutta l’esperienza umana alla luce dell’amore di Dio, che rischiara anche i punti d’ombra, o delle macchioline in un vestito tutto bianco e pulito. Il vestito è tutto bianco, perché luminoso è l’amore  con cui Dio ci crea e ci vuole ma il nostro sguardo è tutto attratto da quella macchiolina nera che disturba la luminosità dell’insieme. Così è il peccato: dobbiamo sempre ricordarci che il vestito è bianco, e in gran parte rimane ancora tale. Tuttavia quella macchiolina c’è e condiziona il nostro sguardo, la nostra gioia,  e anche la nostra libertà di camminare nel mondo. Come camminare con un vestito macchiato? E se poi lo macchio ulteriormente? Ciò ci porta ad avere meno libertà nell’ascoltare e rispondere a Dio, al suo progetto d’amore. Infatti il peccato dell’uomo – non la singola azione, ma il peccato commesso dall’uomo in tutta la sua storia – ha avuto come effetto di limitare la nostra libertà. Ecco il peccato originale!!

Allora se Maria è stata preservata dal peccato originale, ciò non vuol dire che le sia stato più facile aderire alla volontà di Dio o che non abbia subito alcuna tentazione. Non è forse stata tentata anche Eva dal serpente? Eva nella tentazione era ancora senza peccato, proprio come Maria.  Se Maria non è stata condizionata dal peccato nella sua risposta a Dio, questo significa che era più libera di rispondere si o no a Dio. È sbagliato pensare che la sua adesione a Dio sia stata automatica, Maria ha dovuto capire il progetto di Dio – la domanda all’angelo lo testimonia – e aderirvi ogni giorno con una libertà che non l’ha preservata dalla prova e dalla fatica, come noi, anzi, oserei dire, proprio perché più libera e quindi esposta alla possibilità di rispondere si o no a Dio, la prova in lei è stata ben più radicale che per noi.

Quando i parenti di Gesù dicevano che era impazzito, quando i discepoli lo criticavano e alcuni perfino lo abbandonavano, lei ha scelto di seguirlo da discepola. Quando gli uomini lo hanno rifiutato e messo in croce, lei era li sotto la croce, prova di madre terribile e radicale, prova che richiedeva una libertà totale nell’affidarsi a Dio e al suo progetto su di lei. Li, sotto la croce, Maria ha accolto le ultime parole di Gesù, che la invitavano ad essere madre del discepolo prediletto, e, in lui, di una moltitudine di Figli. Li sotto la croce lei ha pronunciato il suo ultimo e definitivo si e ci voleva tutta la libertà potente di una creatura luminosa, priva della macchia del peccato originale, per poter rispondere di si a Dio in questa terribile prova.

 

Dio ha voluto togliere a Maria il condizionamento del peccato, perché in lei l’umanità potesse rispondere più liberamente al suo progetto d’amore, per il quale siamo chiamati a diventare figli adottivi. Dio infatti non vuole un’umanità schiava, ma capace di aderire a lui nell’intelligenza e nella volontà. Possa lo Spirito Santo condurre anche noi ad una sempre più radicale libertà in Dio–  la vera libertà che consiste nel dire di si a Dio – perché in ogni circostanza, nella prova come nella gioia, possiamo aderire alla sua volontà ed entrare nella gloria dei figli di Dio. Che Maria, madre della Chiesa, ci custodisca e ci aiuti a essere una Chiesa feconda, capace di rispondere di si a Dio nel discernere la sua volontà e generare nuovi figli alla fede.

 

 

“La parola nel deserto” Lectio II Avv. Lc 3, 1 – 6

Lectio Lc 3, 1 – 6.

Nell’incipit del testo lucano sono elencati i romani Tiberio e Ponzio Pilato , imperatore e governatore, i figli di Erode il Grande, ossia Erode Antipa e Filippo (Iturea e Traconitide sono a est del Giordano, odierna Giordania), il tetrarca dell’Abilene Lisania (attuale Libano a nord della Galilea) e infine c’è il potere sommosacerdotale ebraico di Anna e Caifa. Perché questo elenco di nazioni? Non è certo per precisare l’esatta collocazione spazio – temporale, infatti questo lungo elenco semmai può solo complicare notevolmente i calcoli. L’unica notizia precisa è il XV anno di impero di Tiberio, che si colloca tra l’autunno del 27 e il settembre del 28 (secondo il calendario siriano in uso in Palestina).  Il significato in realtà è teologico, infatti Luca vuole sottolineare il fatto che Dio interviene in un tempo preciso e in un luogo specifico della storia e non in modo generico. Come i profeti hanno parlato la parola di Dio in un tempo preciso della storia, così anche la parola di Dio accade qui nella storia. Dio ci parla nella nostra storia e nella nostra vita, nelle concrete situazioni in cui viviamo. Infine questo lungo elenco di tutte le autorità del mondo allora conosciuto ci vuole suggerire che ciò che si sta per compiere in questo tempo e in questo luogo preciso ha un valore universale per tutta la storia umana, non solo per gli ebrei e nemmeno solo per i pagani, ma per il popolo di Israele e insieme per tutte le nazioni di tutti i luoghi e di tutti i tempi.

“Avvenne la parola di Dio su Giovanni”: è una espressione propriamente lucana, che egli deriva dalla traduzione greca dell’Antico Testamento. Nell’ebraico il termine dbr indica sia la parola che la cosa e l’evento. Quando Luca usa questa espressione: “accadde la parola di Dio”, intende una parola che è insieme anche un evento della storia della salvezza. In Lc 1, 38 Maria dice, rispondendo all’angelo ”accada in me secondo la tua parola”. Non si tratta qui solo della parola verbale dell’angelo, ma della stessa parola di Dio che inevitabilmente accade nel seno della Vergine. E quando i pastori, dopo l’annuncio dell’angelo prendono una decisione, dicono tra loro:” andiamo a vedere questa parola accaduta, che il signore ci ha fatto conoscere.” Il Vangelo è una parola accaduta, ossia è una parola ed insieme un evento di salvezza che accade nella storia.

Questa parola avviene nel deserto, lungo il Giordano. Il contrasto con ciò che precede non potrebbe essere più forte. La parola di Dio non si realizza nei centri di potere politico/religioso, a Roma o a Gerusalemme, ma nel deserto che è un luogo teologico. Indica il luogo/tempo del fidanzamento della sposa Israele (cfr. Ger 2, 2; Os 2, 16), ossia l’esodo dall’Egitto, in cui questo popolo di nomadi scampati dal pericolo della morte vengono educati alla fede nel Dio di Israele, quel Dio che si era preso cura di loro, come un aquila veglia sopra i suoi piccoli.

Giovanni il battista proclama un battesimo di conversione in vista della remissione dei peccati, per preparare tutto il popolo ad avere fede nel messia che viene (cfr. Atti 13, 24; 19, 4). Nella teologia di Luca, chi passa attraverso di tale battesimo riconoscendo il suo peccato e il suo bisogno di conversione, rende giustizia a Dio per credere in colui che viene (cfr. Lc 7, 29- 30). Non sono i farisei che si ritengono giusti ma la peccatrice (Lc 7, 36 – 50), che sa di avere peccato, a riconoscere il messia ed entrare nel compimento della Parola di Dio. Ella da prostituta assume i caratteri della vera sposa che bacia i piedi di Gesù e li lava con le sue lacrime.

Lc 3, 1 – 6

1 Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturea e della Traconìtide, e Lisània tetrarca dell’Abilene, 2sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto. 3Egli percorse tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati,4com’è scritto nel libro degli oracoli del profeta Isaia:

Voce di uno che grida nel deserto:
Preparate la via del Signore,
raddrizzate isuoi sentieri!
5Ogni burrone sarà riempito,
ogni monte e ogni colle sarà abbassato;
le vie tortuose diverranno diritte
e quelle impervie, spianate.
6Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!

 

Suggerimenti per la preghiera

1. Mi dispongo davanti a Dio in preghiera. Sto in ginocchio o seduto, per entrare in colloquio con il Signore, o meditare su ciò che leggo, a seconda di ciò che voglio.

2. Leggo con attenzione il brano di Vangelo.

3. Chiedo al Signore il dono di una conoscenza interiore di lui, che per me si è fatto uomo nel seno della Vergine Maria, per amarlo e seguirlo sempre più.

4. Vedo le regge del potere romano che, attraverso una precisa catena di comando, amministra tutto l’impero o anche il Tempio di Gerusalemme, dove tutto il popolo affluisce per fare sacrifici. Contemplo la solitudine e il silenzio del deserto, da dove emerge la voce di un uomo: qui e non nei luoghi del potere si compie la parola di Dio.

5. Ascolto la voce di Giovanni il Battista che mi chiama alla conversione, a sentire l’amore misericordioso con cui il Signore mi perdona e mi porta a rispondergli con il dono di tutto me stesso, come la donna peccatrice in casa del fariseo Simone.

6. Entro in colloquio con Gesù, il messia che viene a donarmi la salvezza.

7. Concludo con un Padre Nostro.

 

Il volto di Gesù nei quattro Vangeli (incontro a S. Lucia in Savignano)

Nel vangelo di Marco il lettore è chiamato a percorrere un bel tratto di strada seguendo Gesù e cercando di avere di lui una comprensione superiore a quella dei suoi discepoli, che costantemente si mostrano incapaci di essere sulla stessa lunghezza d’onda del loro maestro. L’identità di Gesù appare essere difficile da comprendere per i discepoli, nel vangelo di Marco, che è un vero e proprio percorso iniziatico e catecumenale alla scoperta del vero volto di Gesù.

Il primo percorso va dall’inizio del vangelo fino alla confessione messianica di Pietro: “Tu sei il cristo” (8, 27-30) che è il culmine della trama rivelativa riguardante l’identità di Gesù, e che si sviluppa attraverso una serie di dialoghi tra Gesù e i personaggi che sono in relazione con lui. Dopo la prima guarigione pubblica di Gesù, che riguarda un indemoniato (Mc 2, 21 – 28) tutti si chiedono a vicenda l’origine di una parola tanto potente (v. 27).  Attraverso una serie di dispute con scribi, farisei e discepoli di Giovanni in Galilea egli si rivela come il figlio dell’uomo capace di perdonare i peccati (2, 9), il medico che guarisce dalla malattia del peccato (2, 17), lo sposo della nuova alleanza (2, 19), il signore del sabato e di tutta la legge (2, 28).  Anche gli spiriti impuri gridano la sua identità (“Santo di Dio” 1, 24; “Figlio di Dio” 3, 11), ma vengono tacitati da Gesù, il quale non può permettere che la sua identità venga rivelata tutta in una volta, in modo distorto. L’estrema decisione con cui Gesù tronca questo tentativo di rivelazione è un’indicazione per il lettore di non accontentarsi delle definizioni, ma di seguire il racconto per capire meglio cosa significa che Gesù è il figlio di Dio.

Anche i discepoli si chiedono chi sia costui, a cui il vento e il mare obbediscono e il lettore, assieme a loro, è chiamato a intravedere nella sua parola una potenza che domina su tutti gli elementi della creazione, e che dunque non può non portare il frutto del regno di Dio (4, 41 ). Di nuovo sarà Erode a interrogarsi sull’identità di Gesù, a partire dalle voci che sentiva: egli è Giovanni battista risorto dai morti, è Elia, è un profeta (6, 14 – 16). Certamente la rilevanza della sua missione profetica, a differenza di quanto il senso di colpa suggerisca ad Erode, oltrepassa i confini della predicazione del Battista, ossia Israele, per aprire scenari inediti. Infatti la fede della donna sirofenicia offre il destro a Gesù per mostrare la portata universale della sua missione profetica e messianica (Mc 7, 27 – 30).   Egli non vuole imporre ai suoi interlocutori una certa concezione di lui, ma suscita e valorizza la fede che le persone, spesso quelle più impensabili, mostrano nei suoi confronti. In questo modo opera una progressiva apertura dello sguardo in coloro che lo incontrano, e particolarmente nei suoi discepoli, che sono assimilabili a quel cieco guarito in due tentativi da parte di Gesù (Mc 8, 22 – 26).

Ora il tempo è pronto perché Gesù possa porre ai suoi discepoli la domanda fatidica sulla sua identità. Ripercorrere l’opinione della gente a riguarda della valenza profetica del suo ministero terreno è il primo passo perché essi comprendano la qualità assoluta e definitiva del suo messaggio profetico: Egli è il messia, il Cristo, secondo la risposta di Pietro. (Mc 8, 27 – 30)

Da questo punto in poi inizia il secondo versante del vangelo di Marco, in cui non si tratta più di stabilire chi è Gesù, ma come Egli agisce, e che tipo di Messia egli è. Da qui in poi, in una successione martellante di tre annunci della passione, Gesù afferma subito pubblicamente (notare il contrasto con la richiesta di segretezza a riguardo della sua messianicità) di dover subire il destino di rifiuto dei capi, sofferenza e morte, per poi risorgere dopo tre giorni.

Ci concentriamo un po’ di più sul terzo annuncio (Mc 9, 32 – 34) che avviene immediatamente prima dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme ed è un po’ più descrittivo dei precedenti. I dettagli sono significativi: si parla non solo di condanna a morte e di consegna ai pagani, ma anche di derisioni, sputi e flagellazioni. Non è a detrimento della verità storica sulla passione di Gesù considerare che questa sequenza ripercorre esattamente le sofferenze descritte nel cosiddetto terzo canto del servo, all’interno della raccolta profetica deuteorisaiana: “Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba, non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi”. (Is 50, 6).  È difficile non riconoscere qui l’intento dell’evangelista di mostrare che il messia non è altri che un servo mite e umile, destinato a compiere la sua missione universale attraverso la sofferenza assunta confidando in Dio che solo rende giustizia (Is 50, 8). Non si può seguire Gesù fin sotto la croce, se non accettando di essere da lui guariti nella nostra cecità di discepoli attratti da un maestro potente e carismatico (cfr. 10, 46 – 52). Solo nell’umiltà della croce il messia si rivela definitivamente come il servo sofferente di Dio e solo a questo punto il discepolo con le parole del centurione potrà  affermare – definitivamente e senza paura di fraintendimenti o ambiguità – : “Costui era veramente il Figlio di Dio”.

Anche Matteo si trova davanti al mistero di un messia servo che muore in croce, ma cerca di mostrare questo mistero in atto, attraverso i discorsi di Gesù e le sue parabole, perché ha davanti una comunità giudeo – cristiana, che può capire il modo di ragionare di un rabbì.

Al centro delle dispute di Gesù contro i farisei, la citazione del canto del servo (Is 42, 1 – 4) in Mt 12, 15 – 21 mostra che l’attività taumaturgica di Gesù e la sua ritrosia a renderla pubblica sono indice della mitezza con cui il servo porta avanti la sua missione (non griderà né si udrà la sua voce nelle piazze), senza reagire alla violenza degli avversarsi con una violenza eguale e contraria. Il lettore di Matteo si trova davanti al mistero del non ascolto del popolo (12, 38 – 42), che pretende un segno per la sua incapacità di aprire il cuore alla parola di Gesù, che è ben più della parola profetica! (v. 41).

Come spiega Matteo questo mistero del non ascolto del popolo? La sezione delle parabole (c. 13) cerca di penetrare  in questo mistero proprio alla luce della predicazione profetica e sapienziale di Gesù.

Gesù parla seduto sulla spiaggia, in posizione di maestro e la folla sta in piedi sulla spiaggia. Il contesto spaziale  è funzionale ad un appello sapienziale al popolo di Israele, rappresentato dalle folle, ad ascoltare il vero maestro, in un confronto velatamente polemico con gli scribi e farisei della pericope precedente. Da questo sfondo emergono successivamente i discepoli (v. 10) che intessono un dialogo diretto con Gesù e che soli possono “vedere e comprendere”. Infatti la spiegazione della parabola del seminatore è rivolta a loro soli, come pure la spiegazione della parabola della zizzania e le  successive parabole del tesoro nascosto, della perla e della rete.

La conclusione è chiaramente diretta al discepolo, che è invitato ad essere uno scriba sapiente, capace di tenere insieme cose antiche e cose nuove (cfr. Sap 8, 8), diventando discepolo del regno dei cieli. Il Regno dei cieli infatti è caratterizzato da una logica nuova di “sovrabbondante giustizia”, che è il compimento della legge antica (cfr. Mt 5, 17 – 20).

Come si manifesta nelle parabole il mistero di questa sovrabbondante giustizia, già spiegata da Gesù maestro con la legge dell’amore data sul monte delle beatitudini?

La parabola del seminatore mostra il contrasto tra una semina sovrabbondante e persino sprecata e una risposta differenziata dei diversi terreni. Alcuni di essi non rispondono positivamente, non fanno fruttificare questo dono del seme. Come è possibile che ciò accada, se la parola è rivolta a tutti? Come è possibile che la parola di Gesù fallisca, producendo in molti casi rifiuto anziché accoglienza? È questo l’interrogativo di fondo dei discepoli, sul perché Gesù parli il linguaggio oscuro e difficile delle parabole, al modo del servo mite di Jhwh che non grida la verità in piazza (cfr. 12, 19, Is 42, 2).

Il motivo del guardare e non vedere, udire e non ascoltare (v. 13), che mette in relazione ascolto e comprensione del cuore, si collega al compimento della profezia di Isaia (Is 6, 9 – 10) in cui il parlare del profeta non sembra produrre una comprensione ma piuttosto un ulteriore incomprensione del popolo. Questa citazione ricollega la parola di Gesù al ministero della predicazione dei profeti, che non è mai stato accompagnato da un successo umano e politico, anzi, dal rifiuto radicale e violento di un popolo refrattario all’ascolto del loro Dio. Questo rifiuto si riproduce ora nella relazione tra Gesù e il popolo di Israele, dietro a cui si nasconde l’ostilità dei capi e dei farisei. Questa citazione Isaiana, nella forma della LXX da cui Matteo la trae, ha però una conclusione assai oscura. È possibile che l’ultimo stico della profezia (e io li guarirò) proprio perché con i verbo al futuro anziché al congiuntivo, possa essere letto come un’affermazione e non come una negazione. Quindi nella profezia di Isaia la salvezza passa comunque attraverso la mancata comprensione del popolo e Matteo coglie proprio questo aspetto quando afferma:”a colui che non ha sarà tolto anche quello che ha”. È qui sottinteso il fine pedagogico che colui che non ha possa rendersi sempre più conto di non avere e quindi essere guarito. Gesù parla quindi in parabole perché il popolo che crede di capire si accorga in realtà di non capire, così che a colui che non ha sia tolto anche quello che crede di avere.  Le parabole non sono un linguaggio quotidiano e semplice ma complesso e caratterizzato da più livelli di significato, per adattarsi all’ascolto e all’apertura di cuore dell’interlocutore. Chi, come i farisei, ha già la verità in tasca, comprenderà di non comprendere e questo può avere due conseguenze diametralmente opposte, o un rifiuto sempre più radicale di ciò che non si comprende oppure un riconoscimento della propria ignoranza ed un’umile apertura a quella verità che può essere donata solo da Dio. Chi invece ha il cuore disposto e umile del discepolo, potrà ascoltare e comprendere ed essere beato in questa comprensione!

Che questa apertura alla guarigione del popolo che rifiuta Gesù sia non solo presente nell’ambigua citazione di Isaia, ma venga fatta propria nell’intenzione teologica dell’evangelista è confermato poi dalla parabola della zizzania e dalla sua spiegazione. Come il padrone di casa impedisce ai servi di sradicare la zizzania, così Gesù impedisce ai discepoli di condannare coloro che rifiutano il suo messaggio, risolvendo così in modo arbitrario e definitivo il problema del terreno cattivo. Questo atto sarebbe in definitiva una mancanza di fede nell’onnipotenza della parola di Dio e nella sovrabbondante giustizia divina. I discepoli devono pensare soltanto a gettare nel mare  la rete che prende ogni genere di pesci, senza chiedersi né giudicare preventivamente quali siano quelli buoni e quelli cattivi (vv. 47 – 48).  Solo il giudizio definitivo di Dio potrà operare una separazione (vv. 49).

Le parabole del Regno costituiscono dunque un invito ad una penetrazione sapienziale profonda del mistero di Dio e della sua giustizia sovrabbondante che si compiono in Gesù. Come Gesù è il servo mite che porta la giustizia con misericordia (cfr 12, 20 cit di Is 42, 3), così il suo insegnamento parabolico  rispetta la libertà dell’interlocutore e non gli impone una verità per via di sillogismi o dimostrazioni. Egli lo invita piuttosto a convertire il cuore ad un amore che risulta l’ultimo e definitivo compimento della legge (Mt 5, 43 – 48), l’amore di colui che conosce la perfezione misericordiosa del Padre ed è in grado di pregare da figlio con le parole del Padre Nostro (cfr. monte degli ulivi e grotta mistica degli insegnamenti di Gesù).

Se il Gesù di Matteo mostra la sua qualità profetica e messianica in modo particolare attraverso questi grandi discorsi, in Luca invece tale qualità emerge direttamente dalla narrazione delle sue azioni. Mentre Gesù cammina verso Gerusalemme attraversando la Galilea e la Samaria gli si fanno incontro dieci lebbrosi, che si fermano a distanza, e appellandosi alla sua qualità di maestro lo supplicano di avere pietà di loro:” Gesù, maestro, abbi pietà di noi”. (Lc 17, 12; cfr. vv. 11 – 19).  Come il profeta Eliseo guarisce il lebbroso Naaman, servitore del re siriano, semplicemente con la sua parola e con l’obbedienza di andarsi a lavare nel Giordano (cfr. 2 Re 5),  anche qui il miracolo avviene a distanza, tramite la semplice obbedienza alla parola profetica di Gesù, di andare a presentarsi ai sacerdoti. A differenza del racconto di Naaman però, qui la guarigione avviene addirittura prima che l’ordine venga eseguito. Basta la fede dei lebbrosi nella parola di Gesù, che si manifesta nell’obbedienza all’ordine, a produrre la guarigione. Inoltre in questo racconto emerge una differenza fondamentale tra i nove che, ormai contenti, se ne vanno, e l’unico che sente la necessità di andare a ringraziare Gesù.  A differenza dell’offerta materiale di Naaman, questo lebbroso non offre un dono ma, “lodando Dio a gran voce, si prostra davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo”. Nella costruzione retorica di questa frase la lode di Dio è posta in parallelo alla prostrazione davanti a Gesù e al suo ringraziamento. Anche Naaman, straniero come il lebbroso samaritano, loda il Dio d’Israele, ma più di Naaman in questo samaritano la lode del Dio d’Israele è strettamente associata, in un unico atto, con la prostrazione ai piedi di Gesù.

La parola di Gesù è certamente potente come quella profetica, ma il mistero della sua persona rivela un di più rispetto a quello dei profeti, è il mistero di una presenza personale di Dio stesso. Egli compie la parola profetica, come profeta definitivo, come messia, come Figlio di Dio. Il samaritano lo riconosce e questa è la vera guarigione, il vero miracolo, la vera salvezza che egli ottiene, e di cui la salvezza fisica era solo un segno provvisorio.

I discepoli di Emmaus, dialogando con il misterioso viandante che gli si accosta, definiscono Gesù come “un profeta potente in parole ed in opere, davanti a Dio e a tutto il popolo” (Lc 24, 19). Questa consapevolezza non è però sufficiente a liberarli dalla loro tristezza e disillusione a riguardo della morte in croce di Gesù: “Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele”(21a). Solo la parola del viandante, che si rivelerà come lo stesso Gesù risorto, li renderà capaci di scorgere progressivamente in questa morte il compimento messianico delle profezie e di tutte le Scritture di Israele.  Solo la luce della resurrezione permette di comprendere che in quel profeta potente in parole e opere che muore in croce si compie tutta la Scrittura e che Egli è realmente il Figlio di Dio (cfr. 22, 70).

Se per Luca si tratta allora di rileggere tutta l’esistenza terrena e il ministero profetico di Gesù alla luce della sua resurrezione come compimento delle Scritture, per Giovanni invece tutto parte dalla parola eterna che sta nel seno del Padre (1,1) e che si è fatta carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi (1, 14). Questa parola eterna incarnata ha manifestato fin dall’inizio del suo ministero la sua gloria attraverso una serie di segni, che partono dal miracolo della trasformazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana e che culminano con la resurrezione di lazzaro al c. 11.  Uno di questi segni che Gesù opera è la moltiplicazione dei pani, che per l’evangelista Giovanni, deve portare gli interlocutori alla fame del pane che da la vita al mondo e che è Gesù stesso.

Gesù sceglie di identificarsi in questo segno semplice e comune come il pane, perché nella tradizione ebraica, sul pane si fa il memoriale di tutta l’azione di salvezza di Dio nei confronti del suo popolo. Nel salmo 136 Dio infatti è colui che da “il pane ad ogni vivente” come ultimo dono di tutta la rivelazione  Questo pane è Gesù stesso, nel suo corpo e nel suo sangue che egli ci dona, ossia nell’eucarestia, in cui entriamo anche noi dentro il memoriale della vita, morte e resurrezione di Gesù e dentro il suo dono eterno dell’amore che proviene dal Padre, lo Spirito Santo.

I giovani avvento di speranza (I Avvento C)

Omelia I Avvento Anno C

Segni nel sole, nella luna e nelle stelle e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti… si tratta di immagini cosmiche che non vanno prese semplicemente alla lettera, ma indicano un disordine che attraversa  l’umanità nei suoi corsi e ricorsi storici portandola spesso sull’orlo dell’abisso e della distruzione. Dai tempi di Noè e del diluvio passando per tutte le catastrofi umane e sociali delle guerre, fino all’immensa ondata di sofferenze prodotte oggi dalla crisi economica, l’umanità si accorge dolorosamente che accanto al bene, all’ ordine e allo sviluppo c’è anche un’inguaribile tendenza al male, al disordine e alla decadenza.

Come si pone il cristiano di fronte a queste altalene della storia? Gesù, nel suo discorso sulla fine della storia, ci rivela che nel momento in cui tutto sembra perduto, in cui il disordine e lo sconvolgimento sembrano essere arrivati al culmine, perché le potenze dei cieli, che garantiscono la stabilità del mondo e della storia sono sconvolte, proprio in questo momento il Figlio dell’uomo viene con grande potenza e gloria su una nube, che indica la presenza di Dio. Gesù in questo modo ci assicura che Lui interviene e non solo alla fine dei tempi ma anche nella storia stessa. Infatti ogni volta che si tocca il punto più basso, che la crisi diviene drammatica, che le forze di distruzione sembrano non lasciare scampo alcuno, che insomma la fine sembra arrivata, proprio a questo punto vengono riattivate, come dono di Dio, forze nascoste nel cuore dell’uomo. Sono forze di amore e di vita, di redenzione e di riscatto, che provengono dal Figlio dell’uomo, da colui che morendo sulla croce ha distrutto il male e la morte e con la sua resurrezione ci attende e attira verso la fine della storia, nell’amore del padre.

State in piedi e alzate il capo, dice dunque Gesù ai suoi discepoli, proprio nel momento della maggiore paura, perché ecco, il vostro riscatto, la vostra redenzione è vicina. Il Signore ci invita alla speranza, sapendo che Lui ha in mano il destino della storia e di ognuno di noi.

Anche nella nostra vita gli affanni e le tensioni sono tante.  In un mondo che sembra lasciare poche speranze per il futuro siamo preoccupati particolarmente per i figli e per i nipoti. Alcuni poi giudicano i giovani come tendenzialmente viziati e deboli, lontani dai valori veri della vita, incapaci di prendere in mano il loro futuro con scelte coraggiose ed autonome. Chi pensa così credo che sarà stupito nel vedere come i ragazzi abbiamo nel loro cuore risorse nascoste per affrontare anche prospettive difficili nel futuro. Solo che noi dobbiamo aiutarli ad aprire il loro cuore e trovare dentro di esso il desiderio di amare e la voglia di vivere. E come? Dobbiamo dargli Cristo, solo Lui può aprire il cuore dei ragazzi ai desideri più radicali, all’amore vero, al dono di se per una società più giusta, più vera e più bella. E invece noi adulti abbiamo ingombrato il loro cuore con le cose, con giochi sempre più sofisticati, con modelli di bellezza esteriore e vuota, con i tanti e stressanti impegni sportivi. Ma dov’è lo spazio per la relazione vera, l’amicizia spontanea, lo stare insieme nel gruppo, lo scambio sincero dei loro interrogativi seri e profondi sulla fede? Dove possono coltivare la loro vera umanità, per esprimere quel bisogno autentico di Cristo che c’è in loro e per esserne saziati?

Un mondo adulto affannato e in preda allo stress perché a causa della crisi gli vengono meno le cose rischia di far vivere i figli in un mondo dorato e inesistente fatto di tante cose, per custodirli e proteggerli. Se poi di fronte all’incapacità di reggere le prove dell’amore da parte degli adulti, allo sfascio delle famiglie e le conseguenti carenze affettive dei figli, l’unica risposta è costituita dalle cose che si possono dare loro, magari in competizione fra ex mariti e mogli… questo è un modo molto rapido e sicuro per  appesantire e indurire il cuore dei figli.

E se allora sembra tutto perduto ci dobbiamo ricordare di quell’invito alla speranza che viene dalle parole di Gesù sulla fine della storia. È l’invito che si rinnova all’inizio di questo tempo di avvento, in cui ci prepariamo ad accogliere la nostra Speranza definitiva nel futuro, quella del Bambino che nasce. Lui è nel cuore di ogni adulto che si dichiara sconfitto dalle prove della vita, lui è nel cuore di ogni ragazzo che ancora non lo conosce. Doniamo Cristo agli adulti e ai giovani e Lui potrà rinnovare dall’intimo il cuore di ognuno perché ne conosce tutte le profondità.

Preghiamo e supplichiamo di essere una comunità cristiana che testimonia nell’amore la beata speranza del Regno, che Gesù è venuto ad inaugurare e che verrà a compiere alla fine della storia. Solo così saremo una comunità feconda e capace di generare nella fede, e di accendere nel cuore delle persone la più radicale speranza nel futuro, una comunità in cui, come dice Paolo, l’amore tra di noi e verso tutti cresce e sovrabbonda per rendere saldi e irreprensibili i nostri cuori nella santità.

Una Santa della controriforma cattolica e il suo rapporto con le Scritture

Vita di Santa Teresa d’Avila 40, 1 – 2 Una volta, mentre ero in orazione, mi sentii invadere da tanta dolcezza che,  considerandomene indegna, cominciai a pensare quanto più giustamente meritassi di esser in quel luogo che avevo veduto nell’inferno. L’ho detto ancora: la triste condizione in cui allora mi sono vista non mi è più uscita di mente.

Con questa considerazione la mia anima andò infiammandosi d’amore e mi venne un così alto rapimento che non so come descrivere. Parve che la mia anima si empisse e compenetrasse di quella grande Maestà che avevo altre volte veduta. E mentre stavo così, compresi la verità che è il compimento di tutte le verità. Ma non so dire come ciò sia avvenuto, perché non vidi nulla.

Udii queste parole. Non vedevo da chi, ma capivo che venivano dalla stessa Verità: “Non è poco quello che faccio per te. Anzi questa è una delle grazie per le quali tu mi devi di più. Tutto il male del mondo dipende dal non conoscere chiaramente la verità della sacra Scrittura. Non vi è in essa un apice che non debba un giorno avverarsi.”

A me pareva di aver sempre creduto così e che così credessero tutti gli altri. Ma egli soggiunse: “Ahimè, figliuola, come sono pochi quelli che mi amano veramente! Se mi amassero per davvero, non nasconderei loro i miei segreti… Sai tu cosa vuol dire amarmi per davvero? Persuadersi che è menzogna tutto quello che a me non piace. Comprenderai chiaramente quanto ora non capisci dal profitto che la tua anima ne avrà”

Così infatti è avvenuto, e ne sia lode al Signore! Da allora in poi mi pare così pieno di vanità e di menzogna quanto non è ordinato alla sua gloria, che non so come esprimersmi, e grande è la mia compassione per coloro che vedo ignorare questa verità. Ebbi insieme i vari altri vantaggi che ora dirò, molti dei quali non saprò manifestare. Il Signore mi disse pure una parola speciale che mi fu di grandissimo favore. Non so come sia avvenuto, perché non vidi nulla, ma mi trovai in uno stato che è impossibile descrivere: ripiena di coraggio e pronta a far di tutto per uniformarmi alla sacra Scrittura anche nella sua più piccola espressione. Per questo, mi pare, affronterei ogni ostacolo.