I luoghi dove gettare le reti… Omelia III Pasqua Anno C

 

Dopo la morte del loro Signore gli apostoli/pescatori sono ritornati in Galilea al loro antico mestiere. Come al solito è sempre Pietro a prendere l’iniziativa: “Io vado a pescare”. Gli altri apostoli, Tommaso, Natanaele, Giacomo e Giovanni e altri due anonimi, decidono di seguirlo: “Veniamo anche noi con te”.

All’alba, quando ormai la pesca si è rivelata infruttuosa,  compare Gesù sulla riva, ma i discepoli non si accorgono che era Gesù. Come mai? Perché il loro cuore non era aperto alla possibilità di  incontrarlo, non era disponibile a credere a quel fatto inaudito eppure più volte profetizzato dal loro maestro: la resurrezione.  Gesù stesso deve aprire il loro cuore e i loro occhi attraverso un segno che ne sveli l’identità: il segno della pesca miracolosa. Improvvisamente obbedendo ad un ordine strano e immotivato di quell’uomo in piedi sulla spiaggia, dopo una notte infruttuosa essi pescano un numero straordinario di pesci.

Chi sarà il primo a riconoscere Gesù grazie a questo segno? Il discepolo che Gesù amava. Era lui che durante l’ultima cena aveva posto il suo capo sul petto di Gesù per entrare in comunione profonda con il suo cuore, era lui che per primo vedendo il sepolcro vuoto e le bende piegate a parte aveva creduto. Così doveva essere  lui, che con il suo cuore aperto acquista l’ intelligenza per comprendere il mistero di Dio, a riconoscere per primo Gesù in quell’uomo sulla riva, che era spuntato proprio nell’ora del completo fallimento dei discepoli.  Egli si rivolge a Pietro e gli dice: “è il Signore”. A questo punto sarà Pietro a prendere l’iniziativa gettandosi in acqua e raggiungendo Gesù sulla spiaggia.

Tra Pietro e il discepolo amato si stabilisce un curioso scambio di primati. Se è Pietro il primo ad andare a pescare, trascinando i discepoli con se, se è Pietro il primo a raggiungere Gesù sulla spiaggia, ancora se è Pietro in prima persona colui che trascina la rete piena di pesci senza che essa si spezzi, non è però lui, ma il discepolo amato, il primo a riconoscere Gesù. C’è un primato nella leadership, che è impulso missionario e impegno a garantire la comunione e l’unità della Chiesa (la rete piena di pesci che non si spezza): questo è il primato di Pietro. Ma c’è anche un primato dell’interiorità e del cuore in grado di riconoscere la presenza di Gesù nell’esperienza della vita: questo è il primato del discepolo amato.

Se Pietro rappresenta il ministero ordinato, che ha il compito di servire la comunione e la missione della Chiesa, il discepolo amato rappresenta il laico battezzato, che è chiamato a riconoscere la presenza di Gesù alla luce dei segni che Egli pone nella vita quotidiana.  L’annuncio del vangelo non si può compiere solo con l’iniziativa di Pietro, ma ha bisogno della presenza del discepolo amato che è in grado di riconoscere i segni della presenza del risorto ed indicarla a Pietro.

Una Chiesa clericale non sarà mai in grado di leggere i segni dei tempi e di buttarsi nel mare verso la spiaggia dove si trova Gesù. Anche oggi ci sono luoghi, geografici e spirituali, dove il risorto ci invita a gettare le reti, luoghi di fatica, di solitudine, di aspro combattimento e a volte di rinuncia. I luoghi dell’amore che non ha più il coraggio della scommessa e che preferisce lasciarsi, i luoghi delle speranza professionali frustrate dalla crisi economica, i luoghi di famiglie giovani piegate dalla durezza delle sfide, i luoghi di giovanissimi immigrati sfruttati da mafie e da traffici di prostituzione… la Chiesa ha bisogno del discepolo amato che apre il suo cuore a riconoscere Gesù proprio in questi luoghi di pesca difficile, ha bisogno di chi, avendo ascoltato la voce di colui che invita a gettare la rete dalla parte destra, dice: “è il Signore”.   Così Pietro saprà dove buttarsi e gli altri apostoli sapranno dove dirigere la barca e tutti quanti sapremo chi è colui che ci nutre del pane e del pesce senza bisogno di servirsi di quel che peschiamo noi. È Lui che nutre la sua Chiesa dal suo cuore trafitto, cioè dal lato destro del tempio che è il suo corpo, e che invita Pietro a cooperare, portando la rete che non si spezza, fino alla spiaggia dove Egli si trova.

 

 

 

Lectio divina III Pasqua Anno C

 

Gv 21, 1 – 14.

Dopo questi fatti, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così: 2si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaele di Cana di Galilea, i figli di Zebedeo e altri due discepoli. 3Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla.4Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. 5Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No». 6Allora egli disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci. 7Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!». Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare. 8Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri.9Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. 10Disse loro Gesù: «Portate un po’ del pesce che avete preso ora». 11Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò. 12Gesù disse loro: «Venite a mangiare». E nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?», perché sapevano bene che era il Signore. 13Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce. 14Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti. 15Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». 16Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore». 17Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore. 18In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi». 19Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: «Seguimi».

Lectio

Il capitolo 21 costituisce l’epilogo di tutto il vangelo di Giovanni e questo primo racconto ne è la prima sezione. Come già a Cana, dove Gesù aveva manifestato la sua gloria (2, 11), qui tale manifestazione giunge al suo compimento nel mistero della resurrezione del Signore (cfr. 21, 1. 14).  Diversamente dalle prime due manifestazioni di Gesù risorto ai suoi (c. 20), qui i discepoli non si trovano chiusi in casa a Gerusalemme ma all’aperto lungo il mare di Galilea. Essi sono tornati al loro antico mestiere di pescatori, come se nulla fosse accaduto e qui faranno esperienza della potenza della resurrezione di Gesù: è come un ritorno all’inizio della loro conoscenza con Gesù quando sono stati chiamati da lui mentre erano intenti a pescare (cfr.Lc 5, 1 – 11). Anche in quell’occasione erano rimasti delusi per una pesca andata male durante tutta la notte (cfr. Lc 5, 5) e Gesù li aveva invitati a gettare le reti in mare. Ora essi non lo riconoscono immediatamente ed egli parte da questa loro mancanza – “Figlioli, non avete nulla da mangiare”? (v. 5)- per indicargli come poterla colmare. Da qui parte il racconto di miracolo, la pesca sovrabbondante, che ha la funzione di rivelare ai discepoli l’identità del risorto. Egli è colui che può colmare ogni vuoto e saziare ogni fame dell’uomo e al contempo è colui che solo alimenta e rende efficace l’azione evangelizzatrice della Chiesa, simbolicamente rappresentata dalla pesca di Pietro  e dei discepoli. Il primo a riconoscerLo – “è il Signore!” (v. 7) – è il discepolo amato, colui che per primo aveva creduto alla resurrezione di Gesù vedendo il sepolcro vuoto e le bende (20, 8), perché è il discepolo per eccellenza aperto ad ascoltare il Signore e continuamente ripiegato a percepire ogni movimento del Suo cuore (13, 25).  Subito dopo tale esclamazione del discepolo, Pietro si slancia con gioia nel mare, dopo essersi cinto la veste per nuotare meglio (l’accenno al suo essere svestito può anche alludere alla vergogna per il suo rinnegamento). Dopo aver trascinato la rete piena con la barca, gli altri discepoli vedono un fuoco di braci con sopra del pesce insieme a del pane. Gesù ha già preparato il pasto, a cui Pietro e i discepoli contribuiranno con il pesce pescato da loro: nella Chiesa il risultato della missione è già assicurato da Gesù, ma questo non toglie il ruolo di collaboratori dei suoi discepoli. Il simbolismo della rete che non si spezza richiama l’unità della Chiesa garantita dall’autorità di Pietro, capace di attirare a terra la rete senza che si laceri, grazie alla potenza misteriosa del risorto che attira a se tutti gli uomini (12, 32). Egli è l’apostolo che con la sua triplice affermazione di tenerezza e affidando a Lui anche la realtà profonda del suo amore per Gesù (“ tu sai tutto, tu sai che ti voglio bene!”v. 18), ritrova la carità del pastore dopo il suo triplice rinnegamento. Ora la comunione del pasto, realizzata sul pane e sul pesce che Gesù stesso aveva posto, rappresenta la piena riconciliazione e la piena partecipazione dei discepoli al disegno salvifico di Dio che si è compiuto nel corpo di Cristo risorto, tempio dal cui fianco destro (cfr. v. 6) scaturisce l’acqua dello Spirito Santo, dove il pesce vive abbondantissimo (cfr. Ez 47, 1 – 12; Gv 19, 34).

Suggerimenti per la preghiera

1. Mi dispongo davanti a Dio in preghiera. Sto in ginocchio o seduto, per entrare in colloquio con il Signore, o meditare su ciò che leggo, a seconda di ciò che voglio.

2. Leggo con attenzione il brano di Vangelo (Gv 21, 1 – 14)

3. Chiedo al Signore di poter gioire con Lui per la Sua resurrezione, contemplare la gloria del suo corpo risorto e goderne gli effetti nella Chiesa

4. Vedo le persone che agiscono, osservo come si comportano. Gesù compare sulla riva senza che i discepoli lo riconoscono, nell’ora del loro fallimento. Così fa anche con noi, senza che ce ne rendiamo conto. Poi è il primo ad offrire pesce e pane ai discepoli, chiamandoli ad una comunione con Lui senza alcun merito da parte loro. Mi lascio consolare dalla presenza di Gesù dentro le ferite e le fatiche.

5. Ascolto la domanda rivolta da Gesù ai discepoli e il suo invito a gettare la rete dalla parte destra e mi abbandono alla Sua volontà per me, che si manifesta proprio attraverso i bersagli mancati della mia vita. Dispongo il cuore ad andare a mangiare con lui e a riconoscerlo nell’eucarestia e, come Pietro, mi accingo a tener unita la rete delle mie relazioni offrendo ciascuno al Signore.

6. Entro in colloquio con Gesù che mi vuole consolare con i santi effetti della resurrezione nella mia vita.

7. Concludo con un Padre Nostro.

cuore trafitto fonte della gioia pasquale

Non appena i discepoli riconoscono Gesù che sta in piedi in mezzo a loro, provano gioia. Egli compare all’improvviso senza necessità di passare per la porta (i discepoli avevano la porta di casa chiusa per paura), come segno di un corpo radicalmente rinnovato dalla vita divina, capace di condividere l’assenza di limiti che è propria di Dio. Si mostra in piedi, segno della resurrezione e insieme fa vedere i segni della sua passione, ossia la ferita delle mani e del costato.
Riconoscere Gesù significa in primo luogo identificarlo come persona, dal momento che i segni della passione sono ormai la sua carta d’identità. Ma significa anche riconoscere la gloria di Dio, la potenza della vita e dell’energia divina proprio nei segni della sofferenza e della morte inflitta al suo corpo di carne. Riconoscere Gesù significa sentire gli effetti della sua resurrezione nella nostra vita, operanti proprio dentro le nostre ferite e le nostre morti. Ecco la gioia dei discepoli, che è anche la gioia di chi ha poggiato la sua vita su una roccia che non si smuove al soffiare del vento e delle tempeste della vita, la roccia di Cristo e della sua Pasqua di morte e resurrezione.
La ferita del costato è l’elemento su cui il Vangelo di Giovanni, a differenza degli altri, si sofferma maggiormente. Per il colpo di lancia del soldato dal costato trafitto erano scaturiti sangue e acqua, sangue che indica la passione e morte e acqua che indica il dono dello Spirito Santo e della vita che scaturisce proprio da questa morte. Il corpo morto di Gesù diviene il tempio definitivo di cui parlava il profeta Ezechiele, quel tempio da cui scaturisce l’acqua che disseta il deserto e rigenera la vita degli alberi e dei pesci. Quest’acqua di vita è lo Spirito Santo che nasce dal costato trafitto, dal cuore misericordioso di Gesù aperto, squarciato dall’umanità e per l’umanità e in grado di donare la vita di Dio e di rigenerare i deserti di morte dell’esistenza.
E infatti Gesù soffia lo Spirito Santo e invia i discepoli a perdonare i peccati. Il perdono dei peccati è la cifra complessiva dell’azione dello Spirito nella Chiesa, è l’azione dell’amore misericordioso che non solo ristabilisce la giustizia nel rapporto con Dio, ma soprattutto rigenera la vita dalle conseguenze disastrose, personali e sociali, che il peccato accumula con una progressione esponenziale: tristezza, egoismo, sfiducia, pigrizia, scoraggiamento e l’elenco potrebbe continuare…. Non è forse una conseguenza del peccato vivere in un mondo dove le persone umili e semplici sono sommerse dalla paura del futuro, dalla vergogna e preferiscono la morte alla vita? Mi riferisco al triste evento di cronaca dei giorni scorsi e non intendo certamente colpevolizzare l’atto di disperazione di questa famiglia… come cristiani dobbiamo aver ben chiaro che questa radicale sfiducia e disperazione è frutto del peccato sociale, che crea ingiustizia, egoismo, paura e tristezza, sentimenti a cui i media in questi giorni fanno da terribile cassa di risonanza.
Come cristiani possiamo attingere ad una fonte nascosta eppure vicinissima, che ci fa sperimentare consolazione e speranza proprio li dove il peccato sembra abbondare, una fonte che non solo lava i peccati ma distrugge le conseguenza mortifere: la fonte dell’amore misericordioso, dello Spirito Santo. L’indulgenza che viene oggi concessa per la festa della divina misericordia esplicita questa rigenerazione che non comporta solo il perdono del peccato, con il sacramento della riconciliazione, ma anche la vittoria sulle sue conseguenze di tristezza e di morte, personali e sociali: è il dono della gioia dei discepoli, più forte di ogni paura.

“Se questa Speranza è vera…”: il risorto ci invita a reagire alla sfiducia e alla paura.

Pietro, invitato a casa del centurione Cornelio, è consapevole di parlare a persone che hanno già sentito diversi “rumors”, chiacchere, notizie a riguardo di Gesù e del suo ministero storico, iniziato dopo il battesimo ricevuto da Giovanni.  Pietro si riferisce ai miracoli e  alle guarigioni che hanno fatto tanto parlare di Gesù e che probabilmente erano venute all’orecchio di Cornelio e della sua famiglia. La novità del suo messaggio è che egli li interpreta come il frutto della potenza dello Spirito Santo. Gesù è stato consacrato da Dio per mezzo dello Spirito Santo e Dio era con lui, altrimenti non avrebbe potuto compiere dei segni così potenti. Come può fare Pietro un’affermazione così radicale? Perché egli non si limita a comunicare la notizia storica di alcuni fatti, ma intende trasmettere un’esperienza diretta, da testimone. Egli infatti, insieme a tutti gli altri discepoli è testimone della resurrezione di Gesù, alla luce della quale si può rileggere in una nuova chiave tutta la vicenda storica di Gesù, il suo ministero, i suoi miracoli e la sua morte.

La narrazione della passione e morte di Gesù da parte di Pietro e degli apostoli non è una nuda e cruda cronologia di fatti, ma la testimonianza viva della fede di coloro che ormai sono in grado di rileggere quei fatti terribili alla luce dell’esperienza nuova e sconvolgente della resurrezione di Gesù. Non si può parlare della croce se non da testimoni credibili di resurrezione.  Guai se mancasse il fuoco ardente della resurrezione, l’energia viva dell’amore di Dio che resuscita Gesù il terzo giorno e che anche nella nostra vita opera impensate meraviglie proprio il giorno dopo la discesa nelle valli di morte. Se mancasse tale esperienza, il nostro parlare di sacrificio sarebbe vuoto e detestabile moralismo e avrebbero ragione i diversi epicuri di tutti i tempi, che predicano l’astensione dalle passioni e l’egoistica tranquillità dell’animo come rifugio il più possibile sicuro dell’uomo.  No, non dobbiamo avere paura dell’amore e neanche del dolore ad esso associato, perché esso è stato redento e purificato dalla potenza della resurrezione di Gesù e noi cristiani, insieme con Pietro, ne siamo testimoni. Il Dio che ha resuscitato Gesù ha bisogno della nostra testimonianza credibile, perché senza testimonianza non vi è annuncio, e senza annuncio la potenza della resurrezione di Gesù non può arrivare fino ai confini dell’esperienza umana, li dove il bene e il male combattono l’ultimo duello nel cuore dell’uomo.

Si, noi siamo testimoni della resurrezione e insieme della Speranza che è in noi grazie alla potenza di vita che scaturisce dalla resurrezione. La società ha così bisogno di speranza, in un paese dominato da una povertà crescente e da un crollo drammatico di fiducia nei confronti del futuro e delle istituzioni. Il lavoro manca e abbiamo tutti paura di ciò che potrà accadere, in questa situazione di stallo e di incredibile difficoltà di dialogo da parte di coloro che hanno l’incarico e pertanto la responsabilità di confrontarsi per prendere insieme le decisioni necessarie. Si ammettiamo di avere paura, ma essa non avrà l’ultima parola sul nostro  cuore  e sulle nostre decisioni, perché più forte è la speranza che viene dalla fede.

E se questa Speranza è vera, essa genera una solidarietà concreta e umile, che permette di condividere fatiche e problemi e di sentirsi meno soli nell’affrontarli. Se questa Speranza è vera, non esiste un bene privato, personale, senza che vi sia allo stesso tempo un bene comune, pubblico, da difendere e promuovere con amore e dedizione. Quanta solitudine  e paura tra gli anziani oggi e quanto stress e ansia tra i giovani per la ricerca del lavoro! Ma se questa speranza è vera, giovani e anziani possono vincere le paure e le ansie con una fiducia radicale nella provvidenza e ritrovare la forza di andare avanti nell’aiutarsi e sostenersi a vicenda.

Solidarietà, bene comune, comunione tra le generazioni: ecco i frutti della Speranza che da cristiani siamo chiamati a testimoniare nel tessuto concreto della nostra vita.

Il perdono di Gesù sulla croce

 

Gesù muore ingiustamente. Per tre volte infatti nel Vangelo di Luca Pilato proclama l’innocenza di Gesù e alla fine è costretto ad agire contro la sua volontà, per far piacere alla folla, consegnandolo ai giudei.

Gesù muore da vittima innocente degli uomini e dei loro equilibri di potere, che si basano sul consenso delle masse. Esse guidate da istinti irrazionali, pericolosi ma anche manovrabili, si saziano alla vista del capro espiatorio, ossia di una persona alla quale sono attribuite le colpe, senza una necessaria verifica. A dispetto perfino dell’antico e prestigioso diritto romano,  chi comprende questo meccanismo e ha le risorse necessarie può tentare di farlo funzionare a proprio vantaggio.

Non è forse anche la logica del nostro “villaggio globale”, così definito da McLuhan per indicare la grande interdipendenza tra popoli e nazioni che è resa possibile dalle moderne comunicazioni? Non basta infatti l’aggettivo “globale” per santificare l’umanità di oggi, se il “villaggio” rimane guidato dalle logiche arcaiche della violenza, le logiche di un’umanità emotivamente incostante e manovrabile, quell’umanità che il giorno prima accoglie festosamente il messia a Gerusalemme e il giorno dopo ne pretende la morte in croce. Nulla ha potuto il diritto romano, nulla possono nemmeno oggi le regole della democrazia contro il potere di chi manovra le emozioni e imprime una direzione sbagliata alla rabbia della gente, con un utilizzo scientifico della leva mediatica. In questo modo si può far fuori un’intera classe politica, a prescindere dalle responsabilità reali. E quando avremo fatto fuori tutti, che cosa avremo risolto? Ci saranno sempre delle volpi a sostituire i lupi…

Quale via di uscita ci mostra il Vangelo? La salvezza passa nel dialogo tra i due ladroni, dipinto a tinte vive da Luca, per far comprendere il suo lettore che l’unica via di salvezza è riconoscere l’innocenza di Gesù e il suo potere perdonante. Egli muore innocente non per condannare il mondo peccatore, ma anzi per salvarlo col suo perdono. Quella di Gesù non è un’innocenza che grida vendetta, ma che offre il perdono, perché Egli sa che l’origine della violenza e del male è l’ignoranza dell’uomo, la sua ignoranza esistenziale del bene che viene da Dio: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”.

Dal perdono di Gesù sulla croce scaturisce l’alternativa all’ignoranza, che è la cultura. Si, la cultura, intesa però non solo come approfondimento delle conoscenze e delle nozioni, ma soprattutto come sviluppo delle capacità umane di giudicare il vero e di agire per il bene. La cultura viene fecondata dal perdono di Gesù sulla croce, che apre gli occhi del buon ladrone a riconoscere il vero e a dirigersi verso il bene, rappresentato dal Regno di Dio.  Da qui nasce  una cultura sensibile al bene dell’uomo, soprattutto dei più poveri e sofferenti. Una cultura solidale con chi oggi soffre per la mancanza del lavoro, con i giovani che vedono assottigliarsi le prospettive per il futuro! La mancanza di lavoro è oggi un problema di tutti e non solo di alcuni. Solidarietà, competenza, inventiva, passione per l’uomo e la sua inesauribile dignità: quando un popolo, alla luce del perdono di Gesù, vive di questi valori, difficilmente potrà essere illuso e manovrato dall’alto, saprà anzi rimboccarsi le maniche per costruire con tenacia e speranza il futuro dei propri figli.

 

Lectio divina per Settimana Santa (Salmo 22)

Mc 15, 21 – 38 par./ Sal 22

Il testo della passione nel vangelo di Marco, analogamente a Matteo e diversamente da Luca, presenta il grido di Gesù sulla croce con la citazione dell’inizio del Salmo 22: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato” (15, 34). Assieme al v. 24, dove si trova il riferimento alla tunica tirata a sorte (cfr. Sal 22, 19) si tratta delle uniche citazioni esplicite del Salmo nel Vangelo di Marco. Si trovano poi delle allusioni al v. 31 dove i capi dei sacerdoti e gli scribi si fanno beffe di Gesù, e “scuotono la testa” invitandolo a salvarsi ( cfr. Sal  22, 8 – 9).  Il testo di Luca non cita esplicitamente il Salmo 22 nel grido di Gesù sulla croce ma descrive la morte di Gesù come un abbandono radicale nelle mani del Padre (“Padre nelle tue mani consegno il mio Spirito Lc 23, 46).  In realtà le due formulazioni sinottiche non sono poi così distanti. Tutto dipende infatti da come si interpreta la citazione del Salmo 22: essa è un grido di disperazione e in fondo di mancanza di fede? Oppure può essere compreso proprio come un estrema supplica di fede, che nell’urgenza del pericolo, rivela proprio un affidamento totale a Dio? Solo un breve approfondimento di questo Salmo puo rivelarcelo.

Il Salmo 22 è composto da due parti, la prima è una supplica nella tribolazione mentre la seconda è un rendimento di grazie per la liberazione. La supplica descrive una situazione tragica, al limite della vita, caratterizzata dall’urgenza e da una fortissima intensità espressiva ed emotiva. Essa fa appello a ciò che il Signore ha fatto per il suo popolo, alla sua salvezza nei confronti dei padri. Al contempo l’orante non afferma una qualche colpa da parte sua: si tratta di un innocente perseguitato. Il rendimento di grazie si sviluppa per molto tempo (vv. 24 – 32) e allarga enormemente la prospettiva di questo Salmo. La liberazione in sè è descritta da un solo verbo (v. 22), ma il suo annuncio ha una risonanza globale e duratura.

La supplica si impernia sul termine “lontano”: è la richiesta a Dio di non stare “lontano” (v. 2. 12.  22), cioè di manifestarsi vicino, con la sua salvezza, così come ha fatto con i padri (vv. 4 – 6). Infatti nel momento presente vicino all’orante ci sono solo tori e leoni che lo accerchiano e spalancano le loro fauci (vv. 13 – 14. 21 – 22), immagine terribile di un cerchio accusatorio e implacabile di nemici. Egli ha bisogno di aiuto, ma non c’è nessuno (vv. 12. 20). Chi sono questi nemici? Le metafore di animali indicano plasticamente alcune caratteristiche: essi hanno il furore dei tori e la loro potenza fisica. Hanno  la capacità di afferrare e sbranare come un leone. Si indica qui la fame del leone e la potenza stritolatrice delle sue mascelle. Infine l’ultima immagine è quella di un branco di cani. Infatti se i leoni sono cacciatori per lo più solitari, i nemici dell’orante aggiungono la capacità di cacciare in branco come i cani, in modo da non lasciare alcuna via di uscita o di scampo.  Essi formano un cerchio implacabile e rabbioso.  Ma la loro descrizione non finisce qui. Essi si prendono gioco, scuotono il capo per indicare una disapprovazione morale. Non solo sono  responsabili del male fisico ma aggiungono anche una disapprovazione morale che colpisce ulteriormente l’orante. La frase che rappresenta l’apice del loro scherno si trova al v. 9: “Si rivolga al Signore; lui lo liberi lo porti in salvo se davvero lo ama”. Si tratta della sfida suprema, la sfida di fede, che vede l’uomo innocente sconfitto, abbandonato anche da Dio (cfr. Sap 2, 12 – 18).  Al Sal 18, 20 il salmista affermava felicemente di essere stato esaudito da Dio. Ora questa citazione in bocca ai nemici dell’orante suona vuota e derisoria, è una specie di ribaltamento della salvezza operata da Dio nei confronti Israele. In fin dei conti la situazione di pericolo  e di morte imminente dell’orante mette in gioco l’essenza stessa di jhwh e della sua rivelazione storica in favore di Israele.

Proprio su questo infatti  insiste l’orante con la sua preghiera, richiamando la vicinanza di Dio in altri contesti particolari: nel tempio dove lo si prega (v. 4), nella storia della salvezza con i padri (v. 5 – 6; cfr. Dt 26, 7 ),nell’atto con cui lo ha creato e lo ha fatto uscire alla vita facendolo riposare sul seno della madre. Quest’ultima è un’ immagine di grande delicatezza, che indica l’amore di un corpo che porta in se un altro corpo e si dona a lui. Il corpo della madre è il segno dell’amore di Dio nella creazione, un amore che nutre e che fa crescere, con indicibile tenerezza, ogni uomo.

Ma ora proprio il corpo di quest’uomo si trova in una condizione di imminente distruzione. Sembra disfarsi come l’acqua che si versa (cfr 2 Sam 14, 14) e il cuore sembra sciogliersi come cera. Al disfacimento corporeo descritto con immagini di liquidi fa da contrasto la terribile  aridità del palato, riarso come un coccio. Come un coccio fatto di polvere di argilla è ormai la vitalità di un uomo il cui destino sembra essere quello di tornare alla polvere e quindi alla morte. Qui l’orante si esprime alla seconda persona singolare (“mi deponi  su polvere di morte”), come se gli balenasse l’idea che alla fine Dio è responsabile di tutto ciò. Da qui si comprende il grido iniziale dell’orante al v. 1., descritto come un ruggito disumano. Egli invoca e non trova risposta da parte di Dio. Anche la notte, tempo del riposo e della protezione di DIo, diventa una lotta senza tregua (v. 3). Il grido dell’orante testimonia il contrario di ciò che dice. Proprio perchè grida, ammette di avere ancora fiducia in Dio. Egli confida come i padri (v. 4) che sono stati esauditi (cfr. Es 6, 5). Il suo grido mette in gioco tutta la storia di Israele, come una storia di suppliche esaudite.

A questo punto estremo si colloca l’intervento di Dio, descritto brevissimamente al v. 22: Tu mi hai risposto! Da qui in poi al v. 23 viene annunciata quella lode di DIo, che inizierà effettivamente al v. 24. In un movimento a cerchi concentrici  si passa dall’orante (v. 23) alla discendenza di Israele, chiamata a lodare e temere Dio perchè ha risposto al grido di aiuto dell’afflitto (vv. 24 – 25). Come i padri avevano confidato in Dio (v. 4), ora i figli, la discendenza di Israele, è chiamata a lodare il Signore per una salvezza sempre attuale. La lode si allarga poi fino a tutti i confini della terra (v. 28) e anche ai defunti, coloro che dormono sotto terra e discendono nella polvere (v. 30). All’immagine di morte della polvere si contrappone ora la vita che Dio dona ai poveri sotto forma di cibo con cui essi si saziano.  Questo cibo rappresenta il memoriale perenne dell’azione salvifica di Dio. Infatti anche coloro che sono morti in realtà vivono per lui e tutti gli uomini sono rappresentanti da questa discendenza vivente che loda il Signore  e insegna ai figli la memoria vivente delle sue opere di salvezza.

Suggerimenti per la preghiera.

1. Mi dispongo davanti a Dio in preghiera. Sto in ginocchio o seduto, per entrare in colloquio con il Signore, o meditare su ciò che leggo, a seconda di ciò che voglio.

2. Leggo con attenzione il brano di Mc 15, 21 – 38 e il Salmo 22.

3. Chiedo al Signore di donarmi dolore, dispiacere e confusione, perché per i miei peccati il Signore va alla passione.

4. Osservo come Gesù si lascia fare, senza opporre resistenza ai suoi nemici e torturatori. Contemplo il dolore fisico e morale di un uomo spogliato di tutto e che è per di più oppresso dallo scherno.

5. Ascolto le parole di scherno dei nemici, che lo credono abbandonato da Dio e il grido di Gesù sulla croce, grido di supremo affidamento  al Signore e contemplo la salvezza operata da Dio.

6. Termino con un Padre Nostro

 

Omelia V Quaresima Anno C: RICONCILIARE LA SOCIETA’: come disarmare gli spiriti dalla rabbia e dalla scambio di accuse?

 

Immaginiamoci la scena: scribi e farisei vogliono incastrare Gesù e gli portano una donna colta in flagrante adulterio per vedere come si comporterà con lei. Infatti se la condanna alla lapidazione, secondo la pena prevista dalla legge mosaica, viola il diritto romano, secondo cui gli ebrei non potevano eseguire una pena di morte. Se invece non la condanna, allora trasgredisce la legge di Mosè! Come reagisce Gesù?

Scrive per terra, probabilmente i nomi dei peccatori, secondo la profezia di Geremia: “Coloro che si allontanano da me (jhwh) saranno scritti per terra” (Ger 17, 13 LXX). Secondo Geremia tutto il popolo è divenuto peccatore. L’adulterio della donna diviene così il segno di una colpa da cui nessuno si può dichiarare esente e Gesù invita  i suoi interlocutori a rendersi conto che la legge di Mosè mostra il peccato di tutto il popolo e non solo di alcuni.

Si comprende bene allora l’invito di Gesù: “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”: è l’invito a guardarsi dentro, a comprendere che chi pone in esecuzione la legge mosaica dovrebbe prima di tutto condannare se stesso, perché anch’egli ne è un trasgressore. A questo punto Gesù ribalta totalmente la logica: non si tratta di condannare, ma di salvare. Il padre non ha mandato suo figlio per condannare il mondo ma per salvarlo.

Di fronte alla donna, ormai lasciata sola dai suoi accusatori, Gesù dice: “neanch’io ti condanno”. Gesù non è venuto a rinfacciarle le colpe, ma a liberarla dalla morte. In questo modo ha salvato non solo la donna dall’imminente condanna a morte, ma anche i capi del popolo dalla loro pretesa di essere giusti davanti a Dio e il ha riportati all’umile, amorosa consapevolezza della propria indegnità di fronte a Dio e al perdono del loro prossimo, fragile e peccatore. Perdonando la donna, infatti, gli scribi e i farisei salvano loro stessi, perché entrano attivamente dentro all’amore di Dio, che da questo momento potrà agire anche nella loro vita.

Con il perdono Gesù porta l’acqua dell’amore di Dio nel deserto della vita umana. Il perdono è come un nuovo Esodo, una nuova uscita dalle acque del mare, che rappresenta il male; il perdono è come un acqua che disseta il popolo, che cammina nell’aridità del deserto. Il perdono nasce dalla fiducia in un Dio che dopo aver creato è capace di ri-creare in modo nuovo e radicale l’esistenza, la vita e le relazioni compromesse dal peccato, come afferma il profeta Isaia nella prima lettura:

<<Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa. Mi glorificheranno le bestie selvatiche, sciacalli e struzzi, perché avrò fornito acqua al deserto, fiumi alla steppa, per dissetare il mio popolo, il mio eletto. Il popolo che io ho plasmato per me celebrerà le mie lodi>>.

Il perdono e la riconciliazione sono un dono di Dio, non un semplice frutto della buona volontà dell’uomo. Grazie all’amore di Dio che Cristo ci manifesta sulla croce, li dove muore perdonando i suoi accusatori e carnefici, anche noi siamo resi capaci di perdonare e di operare la riconciliazione. Bisogna crederci con tutte le nostre forze, sia nelle nostre famiglie che nella società. Viviamo una società divisa in categorie, frantumata in interessi di parte e gruppi di potere, indebolita dagli odi delle fazioni e dal reciproco, quotidiano scambio di accuse. Quando re-impareremo a esercitare il dialogo, l’accordo, il buon compromesso? Ma questo non si può realizzare, se prima non si disarmano gli spiriti, per sopire la rabbia e operare la riconciliazione.

Far festa con il fratello (Omelia IV Quaresima Anno C)

 

Per riconciliarsi bisogna essere in due. Che uno faccia il primo passo, spiegando le proprie motivazioni e cercando sgombrare il campo dagli equivoci, è certamente importante, ma non basta. È infatti necessario che anche l’altro accolga questa iniziativa e disponga il cuore all’ascolto, alla comprensione e sia perfino disponibile a chiedere scusa per aver frainteso l’intenzione.  In questo modo la riconciliazione diviene anche una opportunità straordinaria per  conoscere meglio l’altro, che si rivela in modo nuovo e inatteso.

Questa dinamica umana è propria anche del nostro rapporto con Dio,  in modo del tutto particolare e unico. Siamo propensi a pensare che riconciliarci con Dio significhi che Dio è offeso con noi e noi dobbiamo chiedergli scusa. Ma non è così, Dio non si offende mai, perché non ha bisogno che noi gli chiediamo scusa per sentirsi gratificato e voluto bene.

In realtà non è lui ad essere arrabbiato con noi, ma  siamo noi ad essere arrabbiati con lui. Così è sempre lui a muovere il primo passo verso di noi  a spiegare le proprie motivazioni, a sgombrare il campo dagli equivoci, a mostrarci che se lo conoscessimo veramente non avremmo alcun motivo per arrabbiarci. Davanti al figlio maggiore che protesta per il trattamento di favore del padre nei confronti del figlio minore, per il quale egli ha addirittura fatto ammazzare il vitello grasso – mentre non ha mai dato un capretto a lui, che invece lo serve da tanti anni – il Padre risponde con una rivelazione fulminea: “Tutto ciò che è mio è tuo”. Da tanto tempo questo figlio sta con il padre eppure non ha ancora capito di essere un figlio.  Non ha ancora capito che egli non è un servo, ricompensato nella misura in cui è utile, ma una persona amata per se stessa, per la quale il padre da  tutto ciò che possiede, cioè il suo amore. Non ha ancora capito che l’amore del padre è tutto ciò di cui ha bisogno.

Ora, grazie alla parabola di conversione del figlio minore, il padre si è rivelato  come uno che ama gratuitamente e fa il primo passo – senza aspettare che il figlio chieda scusa – e lo ristabilisce nella sua dignità di figlio con il vestito, l’anello che indica l’eredità e i calzari ai piedi che contraddistinguono l’uomo libero – infatti gli schiavi erano scalzi-. Saprà il figlio maggiore accogliere questa offerta di riconciliazione, che è insieme un’inaudita rivelazione del volto del padre?  Il racconto rimane in sospeso sulla porta di casa. Non sappiamo cosa farà il figlio maggiore, ma abbiamo capito che la riconciliazione avverrà quando egli avrà l’umiltà e il coraggio di attraversare quella porta, entrando nella casa del padre, per far festa con il suo fratello; quando, abbandonata ogni accusa, si lascerà finalmente amare dal padre per condividere con lui la sollecitudine e l’amore per il fratello minore e la festa del suo ritorno; quando, terminata la recriminazione, saprà gioire con il fratello invece di calcolarne i meriti!

Cosa farà allora il figlio maggiore? Entrerà in quella porta? Gesù non ce lo dice, perché il figlio maggiore siamo noi e spetta a noi entrarci finalmente, sospendendo il giudizio nei confronti degli altri e abbandonandoci all’ amore sovrabbondante di Dio. Noi siamo i figli a cui Il Padre ha dato tutto, perchè  ciò che è suo fosse anche nostro. Noi siamo i figli a cui il Padre ha donato il suo figlio prediletto, innocente e umile, per prendere su di se la nostra rabbia e il nostro peccato e distruggerli con la potenza della croce. “Vi supplichiamo in nome di Cristo” grida Paolo “lasciatevi riconciliare con Dio”.“Colui che non aveva conosciuto il peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio.” Dio ci ha fatto un’offerta di incalcolabile vantaggio, spetta a noi accoglierla amando i fratelli che camminano con noi nella strada della vita, anche quelli che sprecano i loro doni in modo stupido e inaccettabile, come il figlio minore.

Per loro noi possiamo costituire il volto del padre che non giudica ma accoglie la disperazione del figlio e dona in cambio la gioia.

Lectio divina V Quaresima Anno C (Gv 8, 1 – 11)

 

Lc 8, 1 – 11

1 Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. 2Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro. 3Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e 4gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. 5Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». 6Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo. Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. 7Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». 8E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra.9Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. 10Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». 11Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più».

 

 

Lectio

Questa perla preziosa che si trova all’inizio posta nel contesto dei cc. 7 – 8 del vangelo di Giovanni, proviene da una fonte che ha molto in comune con Luca e il suo Vangelo e sembra collocarsi bene al termine del ministero di Gesù, che si trova a Gerusalemme, dormendo al monte degli Ulivi e insegnando di giorno nel tempio (cfr. Lc 11, 37). Qui i suoi avversari cercano motivi per accusarlo (8, 6).

L’innesco della trama avviene con l’improvvisa presentazione a Gesù di una donna colta in flagrante adulterio da parte di scribi e farisei. Essi la pongono nel mezzo, ed essa si trova al centro di un cerchio accusatorio, assieme con Gesù. È lui infatti il principale accusato da questi osservanti della legge: se permetterà di lapidare la donna, andrà contro la legge romana, che avoca a se la pena di morte, se invece non lo permetterà, infrangerà la legge di Mosè.

Gesù china il capo e si mette a scrivere per terra, perché sa che questa violenza che si è scatenata all’improvviso deve essere ritardata con gesti simbolici, che diano da pensare alle persone. Si tratta di un’azione profetica, come quelle di Geremia, che richiama il giudizio di Dio sull’intero Israele, peccatore: “Coloro che si allontanano da me (jhwh) saranno scritti per terra (Ger 17, 13 LXX).” Gesù invita i suoi accusatori ad abbandonare una concezione formale della legge, secondo cui ad una trasgressione  corrisponde automaticamente una certa pena. La legge rivela l’elezione originaria di Dio nei confronti di Israele e, al contempo, anche il peccato di tutto il popolo nei suoi confronti (cfr. Dt 9, 7 – 29). La legge rivela  Dio, “misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà,” che perdona la colpa di un popolo di “dura cervice”( cfr. Es 32, 1 – 9).

A questo punto Gesù può interpellare la coscienza dei suoi interlocutori di fronte alla legge: “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Dai più anziani, maggiormente consapevoli delle loro fragilità, ai più giovani, nessuno può considerarsi giusto davanti a Dio ed è la legge di Mosè ad attestarlo. Chinandosi  e alzandosi una volta davanti agli scribi e farisei e un’altra davanti alla donna,  Gesù indica simbolicamente che la sua morte e resurrezione è una parola capace di liberare il popolo dai suoi peccati. Con la sua parola infatti egli salva la donna dalla lapidazione e aiuta anche gli scribi e i farisei a prendere coscienza dei loro peccati. Sempre con la sua parola egli rimanda libera la donna, aprendola al perdono di Dio. Questa donna è la figura di Israele, sposa peccatrice e perdonata da Dio (cfr. Os 2, 4 – 25) e insieme la figura di ciascuno di noi a cui il perdono di Dio apre la possibilità di camminare nella speranza e nella libertà dei figli di Dio.

 

 

 

 

 

Suggerimenti di preghiera.

1. Mi dispongo davanti a Dio in preghiera. Sto in ginocchio o seduto, per entrare in colloquio con il Signore, o meditare su ciò che leggo, a seconda di ciò che voglio.

2. Leggo con attenzione il brano di Vangelo e riprendo i passi paralleli che mi sono stati proposti.

3. Chiedo al Signore il dono di una conoscenza interiore di lui, che ci ha rivelato il volto di un Dio d’amore che perdona il peccato, per amarlo e seguirlo sempre più.

4. Vedo Gesù che va alla passione per i miei peccati, di cui provo dolore e confusione. Io sono nella posizione degli scribi e farisei, che accusano la donna perché pensano di essere giusti. E così finiscono per condannare anche Gesù.

5. Considero le parole e i gesti di Gesù, che mi conducono dentro al mistero del mio peccato e della misericordia di Dio per tutti.

6. Entro in colloquio con Gesù che muore portando sulla croce il peccato e il male del mondo.

7. Concludo con un Padre Nostro.

 

 

Lectio IV Quaresima (Lc 15, 1 – 3. 11 – 32)

lc 15, 1 – 3. 11 – 32

1 Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». 3Ed egli disse loro questa parabola:
11 «Un uomo aveva due figli. 12Il più giovane dei due disse al padre: «Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta». Ed egli divise tra loro le sue sostanze. 13Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. 14Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. 16Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. 17Allora ritornò in sé e disse: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; 19non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati». 20Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21Il figlio gli disse: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio». 22Ma il padre disse ai servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. 23Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». E cominciarono a far festa.
25Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; 26chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. 27Quello gli rispose: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo». 28Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. 29Ma egli rispose a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. 30Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso». 31Gli rispose il padre: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato»».

 

 

 

 

Lectio

Il contesto di questa sezione di parabole è rappresentato dalla critica che farisei e scribi facevano a Gesù, di mangiare, ossia, di entrare in una profonda comunione, con i peccatori e i pubblicani (cfr. 15, 1 – 3). I pubblicani erano per eccellenza peccatori a causa del loro mestiere di esattori delle tasse per conto di una potenza straniera, e perché resi impuri dal loro contatto con i romani. Gesù invece attua fin d’ora quella comunione dei tempi ultimi che sovvertirà le umane aspettative (Lc 13, 25 – 29).

Gesù nel discorso parabolico che segue, rivolto agli scribi e farisei, parlerà di se e del suo ministero non direttamente, ma sempre in rapporto al mistero di Dio. Il lettore si trova dunque confrontato con gli scribi e i farisei nel suo modo di seguire Gesù e nella concezione di Dio che egli ha.

Il testo liturgico dopo il v. 3 salta le due parabole, della pecora perduta e della dramma smarrita, e si ricollega all’ ultima parabola, quella del “padre misericordioso e dei suoi due figli” al v. 11. In essa il figlio maggiore, che osserva fedelmente la legge che è a servizio del padre corrisponde bene all’immagine del fariseo propria di Luca. Il figlio minore che spende le sostanze del padre con le prostitute e poi si ritrova a lavorare con i porci corrisponde al peccatore che vive nell’impurità dovuta alla lontananza con il Padre.

Se il peccato del figlio minore è più evidente, quello del figlio maggiore sembra esserlo meno, ma in realtà la parabola mostra che così non è. Entrambi partono da una distanza siderale nei confronti del Padre, e se è sicuro che il figlio minore si convertirà alla luce dell’amore del Padre, non altrettanto si può dire di quello maggiore. In effetti di lui non sappiamo come risponderà all’invito del Padre e al suo ragionamento.  Questa modalità di condurre il discorso parabolico rivela che  gli interlocutori sono sempre gli scribi e i farisei che si credevano giusti e dunque il discorso al figlio maggiore è rivolto a loro e al lettore. Per il Gesù lucano colui che corre più pericoli non è chi vive nell’aperta ribellione, ma chi presume di essere nel giusto: la sua è una lontananza da Dio più difficile da guarire, perché comporta un inganno maggiore, che si situa sottilmente nelle pieghe della concezione di Dio e della sua giustizia.

Il figlio maggiore è lontano da Dio e la parabola del figlio minore può forse aiutarlo a comprendere la sua attuale lontananza da Dio. Egli ha sempre “pensato” di essere in buon rapporto con il Padre, ma in realtà non lo è “mai” stato fino in fondo, così che questo suo ultimo rifiuto di entrare alla festa organizzata dal Padre per il figlio minore non è una crisi improvvisa nelle relazioni, ma la manifestazione improvvisa di una crisi, di un’incomprensione relazionale esistita da sempre.

Le parola del figlio maggiore lo tradiscono: lui ha sempre “servito” da tanti anni senza mai trasgredire un comando, e in cambio non ha mai ricevuto un capretto. Egli pensa il rapporto con suo “padre” non come un figlio, ma come uno schiavo penserebbe il rapporto con il suo “padrone”. Egli ha vissuto da schiavo nei confronti del Padre, senza comprenderne affatto l’amore e senza capire che, come gli risponderà il padre: “tutto ciò che è mio è tuo”.  Si tratta di una concezione profondamente immatura della relazione, per la quale egli vale nella misura in cui fa qualcosa per il padre suo e  dunque ne riceve in cambio. Ciò significa un desiderio nascosto di divertirsi come il figlio minore, ma una sostanziale incapacità di farlo, non per aver conosciuto un amore più grande, ma solo per un attaccamento narcisistico a se stesso, e alla propria immagine di figlio “bravo”. Quindi il fatto che il padre abbia dato un capretto al figlio minore implicitamente vuole dire al figlio maggiore che egli vale meno di lui. Il padre invece vuole fargli capire che egli lo ama per se stesso, per quello che egli è e non perché è bravo a “servirlo”.

In fondo il discorso del Padre è il vero trait d’union tra i due versanti della parabola. Egli con i suoi atti rivolti al figlio minore dice esattamente lo stesso amore che proclama a parola nei confronti del maggiore: “tutto ciò che è mio è tuo”. La sua compassione (lett. Stringersi delle viscere di una madre cfr. Lc 7, 13) si mostra in una serie di atti eccessivi come correre, gettarsi al collo del figlio, baciarlo senza tener conto che il figlio non gli ha ancora chiesto scusa (cfr. 2 Sam 14, 33). Il Padre ama gratuitamente  e in modo sovrabbondante, al di la di ogni regola di giustizia umana. Solo a questo punto, alla luce dell’amore del padre, il figlio fa la sua confessione.

I tre seguenti gesti simbolici: il dono della veste lunga per la festa,  l’anello che indica l’autorità e i poteri del padre e i sandali che indicano l’uomo libero (lo schiavo camminava scalzo), sono tutti segni della ristabilita dignità di Figlio. Colui che si rende conto dell’amore del padre (cfr. Ger 31, 19), gratuito e sovrabbondante, può essere ristabilito nella sua dignità di Figlio. Riuscirà a rendersene conto il Figlio maggiore? Riuscirà il figlio maggiore ad uscire dal suo narcisismo e ad amare il fratello? In fin dei conti la sua salvezza è legata a doppio filo con quella del fratello. Se il minore non avesse sperimentato la gratuità del padre il maggiore sarebbe stato  condannato nella sua pretesa di salvarsi con la sua osservanza della legge, senza possibilità di rendersi conto della sua reale lontananza da Dio. La salvezza del fratello maggiore passa così attraverso la sua decisione di far festa per il minore. Ci si salva nella gioia e non nella recriminazione!

Suggerimenti di preghiera

1. Mi dispongo davanti a Dio in preghiera. Sto in ginocchio o seduto, per entrare in colloquio con il Signore, o meditare su ciò che leggo, a seconda di ciò che voglio.

2. Leggo con attenzione il brano di Vangelo.

3. Chiedo al Signore il dono di una conoscenza interiore di lui, che ci ha fatto conoscere il vero volto del Padre, perché più lo ami e lo segua.

4. Vedo Gesù che frequenta i pubblicani e cena con loro, ossia le categorie più disprezzate e compromettenti, e non se ne vergogna, perché li ama. Gli chiedo il dono di un amore vero per le persone, soprattutto per quelle che vivono difficoltà e sono “ai margini” della considerazione sociale.

5. Mi identifico con i due figli della parabola. Quale dei due corrisponde più nettamente al mio atteggiamento spirituale nei riguardi di Dio e del prossimo?

6. Entro in colloquio con Gesù e gli chiedo di poter amare ogni persona con finezza e delicatezza, specie quelli più “lontani” e di poter gioire di ogni loro progresso umano e spirituale.

7. Concludo con un Padre nostro