Trama di un racconto

La trama è costituita da un passaggio, che definiamo azione trasformatrice, da una situazione iniziale che si complica improvvisamente ad una finale, attraverso un apice della tensione e uno scioglimento.

  1. Situazione iniziale
  2. Complicazione
  3. Azione trasformatrice (con un apice)
  4. Scioglimento
  5. Situazione finale

Ricostruisci la trama di Gv 2,1-11 identificando i diversi passaggi nello schema quinario

Dividere le scene di un episodio

Criterio degli spostamenti spaziali

Criterio dei salti temporali

Criterio dei cambi di personaggi

Criterio tematico

vv. 19-23: 1 scena

vv. 24-28: 1 scena

vv. 29-34: 1 scena

vv. 35-42, tre scene, che sono 35-39.40-41.42

vv. 43-51 tre scene, che sono 43-44.45-46.47-51

vv. 19-34 sono collegati dal tema della testimonianza e dal protagonismo di Giovanni

vv. 35-51 entrano i discepoli e Gesù si sostituisce a Giovanni nell’assegnare i ruoli (inversione narrativa)

Pregare con il vangelo della Domenica

Mt 5,13-16 (V TO)

Voi siete il sale della terra e la luce del mondo

Il messaggio nel contesto

Qui Gesù si rivolge con enfasi a “voi” (v. 13), indicando gli stessi discepoli perseguitati e oltraggiati  a causa sua (v. 11). Proprio loro sono il “sale della terra”, perché il sale è ciò che da sapore, condimento a tutto il cibo e veniva usato anche per conservare gli alimenti. Qui al posto del cibo è indicata metaforicamente “la terra”, per significare la destinazione universale della missione dei discepoli (cf. Mt 28,18-19). Essi quindi sono ciò che da sapore, rende buona e nello stesso tempo conserva tutta la terra: essi non vivono per loro stessi, ma sono un dono per tutto il mondo. Se perde il sapore (cosa molto difficile per il sale, ma in qualche caso possibile, a causa dell’effetto dell’umidità e della presenza di misture di sali diversi), non può essere però più utilizzato. Il peso di questo detto di Gesù cade dunque sull’avvertimento: il discepolo che dà sapore al mondo deve guardarsi dal non perdere il proprio sapore. 

I discepoli sono dunque sono anche luce del mondo, come una città visibile, perché posta in cima al monte (v. 14).  La metafora si amplifica con l’immagine del lampadario. Bisogna pensare ad una casa palestinese, dove c’era un ambiente unico, e dunque bastava solo un lampadario per tutta la casa. La luce che Cristo ha portato in mezzo al popolo che camminava nelle tenebre (cf. Mt 4,16) ora deve essere portata dai discepoli in tutto il mondo. Altrimenti sarebbe come mettere il lampadario sotto il moggio.

Come questa luce potrà diffondersi nel mondo?  Attraverso le buone opere (v. 16), che indicano non solo il rispetto dei comandamenti, ma ancor più un comportamento caratterizzata dalla gratuità del Padre, che ama senza contraccambio tutti gli uomini (cf. Mt 5,46-48). È chiaro che qui Gesù non indica semplicemente una serie di azioni, ma tutta la vita dei discepoli, la vita del popolo di Dio che cammina nella storia e diffonde la luce della sua testimonianza.   Dunque le azioni buone non hanno per fine semplicemente quello di raggiungere una finalità specifica, diversa a seconda del tipo di azione, ma soprattutto quello di trasmettere una testimonianza, perché l’amore si vive più nelle opere che nelle parole. Inoltre tali azioni non costituiscono semplicemente il frutto di una responsabilità personale, ma hanno una funzione “ecclesiale”, come segno della presenza di Gesù nella comunità che vive dentro alla storia.

Per la lettura popolare

  • Qual è il contesto spazio-temporale del racconto

-Gesù parla dal monte ai discepoli e si rivolge con il “voi” ai discepoli stessi, perseguitati per il suo nome. Mi chiedo se, quando vivo una difficoltà o sofferenza da cristiano, sono consapevole che il Signore si rivolge a me direttamente con la sua parola e mi sostiene.

Qualche domanda ulteriore

Voi siete il sale della terra, se Gesù lo dice di me significa che vuole aiutarmi a comprendere la grande dignità della mia chiamata e a comprendere bene quali sono le tentazioni da cui guardarmi, per evitare il rischio di perdere il sapore.

Voi siete la luce del mondo: il Signore mi invita a considerare l’importanza della mia testimonianza, anche senza tante parole, ma con la mia vita. Mi posso chiedere, in concreto, quale testimonianza concreta e attiva il Signore mi chiama oggi a compiere.

La città sopra un monte: mi chiedo se sono consapevole del carattere “ecclesiale” e “comunitario” della mia testimonianza cristiana, al lavoro, in famiglia, con gli amici ecc.

– La lampada illumina tutti quelli che sono nella casa: avverto la dimensione universale della mia chiamata ad essere annunciatore del Vangelo e testimone di Gesù. Se la mia testimonianza si gioca anche nelle relazioni piccole e quotidiane, in realtà essa va considerata sullo sfondo della missione universale di Gesù verso il Regno di Dio.  

  • Per la preghiera personale
  • Invoco lo Spirito Santo (con un canto o con la Sequenza o con un’invocazione più libera) Ad esempio: Vieni Santo Spirito, entra in me, con la tua luce, con il soffio della tua vita, aiutami a sentire il Tuo Amore, la Tua Pace e ad aprire il mio cuore a quella Parola che oggi custodisci per me, in modo che ogni mio pensiero e ogni mia azione abbiano da te il loro inizio e in te e per te il loro compimento.
  • Leggo il brano del Vangelo, almeno due volte, con attenzione.
  • Entro nel contesto del racconto, nel suo spazio e tempo particolari:.
  • Chiedo una graziaciò che desidero da questo momento di preghiera, ad esempio di fare un’esperienza profonda e intima di Gesù e del suo amore per me.
  • Cerco di comprendere maggiormente il significato del testo in sé stesso, con l’aiuto del breve commento precedente.
  • Cerco di comprendere cosa dice il testo a me, alla mia vita oggi.
  • Cerco di raccogliere tutto ciò che ho meditato sin qui, a partire da ciò che provo in me: come mi ha toccato quello che comprendo? Quale sentimento mi suscita?
  • Dialogo con Gesù e con il Padre, lasciandomi trasportare, nel chiedere, nel ringraziare, nel lodare, nel contemplare, a seconda di ciò che sento.
  • Concludo la preghiera con un Padre Nostro e saluto il Signore con un gesto di riverenza.

Cristo Alpha e Omega (IV)

Pergamo: contro la religione civile

(2,12-17): la fortuna della città di Pergamo dipende dalla dinastia degli Attalidi (282-133 a.C.) che sono successori di Alessandro Magno. A partire dal 133 a.C. la città viene dominata dai Romani con i quali conosce un tempo di grande sviluppo culturale (cf. scuola medica di Galeno). Fu sempre tenacemente resistente alla penetrazione cristiana. Come attesta Tacito (Ann 4,37), il primo tempio provinciale per il culto dell’Imperatore fu stabilito proprio a Pergamo nel 29 a.C. e fu preso a modello poi da altre città. Vi erano poi altri due altari, quello del dio soter Asclepio e quello di Zeus Soter. Non vi sono elementi per identificare l’uno o l’altro dei templi come il trono di Satana di cui parla il testo dell’Apocalisse. La morte di Antipa è secondo alcuni esegeti probabilmente frutto di un tumulto popolare dal basso e non di una persecuzione orchestrata dalle autorità romane. In realtà si deve ammettere che il conflitto di cui qui si parla ha come obiettivo proprio impedire agli appartenenti alla comunità giovannea di mescolarsi a questo sincretismo religioso caratterizzato dall’idolatria. Il riferimento a Balaam si può spiegare dal testo di Num 31,16, dove il mago moabita si fa consigliere delle donne, per adescare il popolo di Israele. Il passaggio attraverso le donne serve come arma di seduzione per portare il popolo a prostrarsi alle divinità pagane.  Questo consiglio è ritradotto in Apocalisse come un insegnamento che getta scandalo tra i figli di Israele, ossia nella comunità giovannea, e si configura come una partecipazione ai banchetti in cui si mangiano carni immolate agli idoli. Si fa dunque riferimento ad un culto che porta i fedeli della comunità messianica a mescolarsi, tramite riti civili, all’adorazione di divinità pagane come Zeus o a culto dell’imperatore.  Tutto questo è identificato poi come opera dei Nicolaiti.

La porneia di 2,14 indica quindi anzitutto l’idolatria e in secondo luogo la dissolutezza sessuale, implicata nei riti religiosi dell’età ellenistica ed imperiale (cf. Sap 14,23-28). Il problema era legato al fatto che il mestiere del commercio o dell’artigianato era accompagnato da riti religiosi e da sacrifici alle divinità patronali. I Nicolaiti, per non rinunciare ai vantaggi di queste associazioni, finivano per praticare questi riti, forse con la convinzione che l’idolo non è nulla (argomentazione dei forti di Corinto in 1 Cor 8-10), ma in realtà rimanendo profondamente condizionati dalla struttura idolatrica del commercio, che implicava il culto dell’imperatore e della divinità.

Non si trattava solo di un fatto formale, ma di una critica complessiva alla società imperiale romana che si era adattata alle forme tradizionali dell’oriente ellenistico, in cui il re veniva adorato come una divinità e il progresso economico era strettamente correlato con l’ordine complessivo, politico-religioso, della società. Il marchio del culto imperiale era infatti stampato nelle monete con cui si commerciava e diventava una politica di scambio (la bestia, controllata dalla grande prostituta, Roma). Di fatto l’Apocalisse si oppone ad un culto della persona, che “messianizzi” un uomo vivente, un politico potente. La resurrezione di Cristo è l’antidoto più potente nei confronti di un potere che si voglia esprimere come dispotico e totalizzante e voglia sottomettere a sé la dimensione religiosa propria del cuore umano. Si tratta di una critica valida per tutti i tempi nei confronti di una “santificazione” del potere umano e dell’ordine costituito attraverso una religione strumentalizzata a “scopi civili” e di puro consolidamento dell’ordine statuale e civile. Un esempio lo possiamo ricavare in questi giorni dall’atteggiamento della Chiesa ortodossa russa nei confronti del potere e delle sue scelte di guerra. Ma pensiamo anche all’alleanza tra il potere commerciale, che oggi riguarda il possesso dei dati, per profilare ogni utente e l’utilizzo che i regimi fanno di tali informazioni e tecniche per manipolare e controllare l’opinione pubblica.

Non a caso la promessa al vincitore riguarda un potere nascosto, che non emerge chiaramente a livello politico-pubblicitario ma riguarda il cuore di ogni persona: il nome nuovo che viene consegnato è colui che partecipa della resurrezione di Cristo (pietruzza bianca) e dunque vive come nuova creatura, fino alla piena manifestazione della sua identità. Infine la manna indica il nutrimento che rende possibile al cristiano di camminare anche in opposizione a queste forme idolatriche, da straniero e pellegrino in questo mondo, per giungere alla vera terra promessa, che è costituita dal Regno di Dio.

La promessa al vincitore: la prima (2,7b) riguarda l’albero della vita (cf. Gen 2,9) che tornerà alla fine del libro nella Gerusalemme celeste (cf. Ap 22,2.14). La seconda promessa riguarda la liberazione dalla morte seconda (cf. 2,11b). Entrambe sono di taglio profondamente escatologico e rinviano alle due possibilità che stanno davanti all’uomo: la morte e la vita (cf. Mt 7,13-14). La terza invece è una promessa riguardante qualcosa che è nascosto nella storia, ossia la manna e il nome nuovo. Qui si indica un’identità nuova, filiale, che viene costantemente nutrita da Dio stesso, nel cammino storico-ecclesiale. Queste tre promesse non vanno separate le une dalle altre, ma indicano la costante interpenetrazione tra la dimensione escatologica e quella storica nella vita del cristiano e della Chiesa. Se il cristo risorto è davvero il punto omega della storia e dell’evoluzione cosmica, come afferma Teillard de Chardin, ciò non può non manifestarsi all’interno della storia e del cosmo, come una misteriosa attrazione, a cui l’uomo può liberamente decidere di accondiscendere o che può anche rifiutare. La possibilità di un rifiuto però contraddice il progetto stesso di vita, che contraddistingue la stessa creazione e la storia, e quindi pone un conflitto interno al disegno di Dio che, pur essendo possibile, impedisce una piena manifestazione della vita. Esso è pertanto definito dall’Apocalisse come morte seconda. L’apocalisse ci vuole aiutare a riflettere sui temi escatologici in modo non banale e non assolutorio rispetto alla vita presente. Anzi. È proprio l’impegno fattivo e testimoniale del cristiano qui ed ora che costituisce una risposta al Regno di Dio, capace di manifestarsi alla fine della storia come vera ed appropriata.

Un’ulteriore considerazione è di natura più ecclesiologica. Il cristiano e la Chiesa sono una forma in divenire attratta dall’alto: questo significa che non vi è alcuna forma di Chiesa che possa rivendicare un valore assoluto, indipendentemente dal compimento escatologico in Cristo. Ogni Chiesa assume una sua forma storica, che dipende dalla sua relazione con il Cristo risorto, con il compimento escatologico alla fine dei tempi e non può prescinderne. In questo senso vi è come un “relativismo cristiano”, che è a livello di dottrine e di struttura ecclesiale, e che può comprendersi come una relatività della forma storica alla sua pienezza escatologica, che si identifica nel Cristo risorto, il solo che può identificare la totalità della verità. La Chiesa, con le sue strutture ministeriali, le sue formulazioni dogmatiche e catechistiche, esprime la verità che è Cristo, ma la formulazione come tale è sempre storicizzata e condizionata e quindi aperta a sempre ulteriori approfondimenti e comprensioni più piene.

Per la preghiera personale: chiedo la grazia di una conoscenza interiore di tutto l’Amore ricevuto da Cristo risorto, nella mia storia e nella storia degli uomini, perché, riconoscendolo, io possa in tutto amarLo e servire il Suo Regno.

 Alcuni punti personali:

  • Dove posso collocare il mio “primo amore” nella conoscenza di Lui (Efeso)
  • Come  integro oggi le fragilità/fatiche/conflitti, personali e comunitari, in un disegno d’amore più grande, che riguarda la “via messianica” di Gesù di Nazareth? (Smirne)
  • Come la forza del Risorto mi orienta, a smascherare idoli di potere e prestigio e a perseguire in una via di semplicità feconda (Regno)? (Pergamo)

Cristo, Alpha e Omega (III)

Smirne: il carattere gratuito e indeducibile del kerigma

(vv. 8-11): città antichissima situata in età ellenistica romana in un’insenatura nell’Egeo che la rende un porto accogliente e riparato, attraversato da intensi traffici commerciali tra il mare e l’interno della penisola anatolica. Essa sarà oggetto di due lettere scritte da Ignazio di Antiochia (verso il 110 d.C.); di Smirne parlerà anche il documento anonimo che racconta il martirio di Policarpo (prima del 170 d.C.). Qui i cristiani sono sempre stati oggetto di una fortissima resistenza, giudaica, già dai tempi dell’Apocalisse. Il Cristo risorto si presenta con gli stessi titoli che aveva mostrato il narratore in 1,17-18, ossia come il primo e l’ultimo, colui che è diventato morto ed è rivissuto, esprimendo così, tramite il riferimento al mistero pasquale, il pieno dominio sul tempo e sulla storia. Al v. 9 il risorto descrive la condizione sociale di questa Chiesa, che attraversa un tempo di sofferenza, afflizione e persecuzione continua: il termine che più caratterizza questa descrizione è ptocheia, che indica una povertà che raggiunge quasi l’indigenza e la mancanza di mezzi di sussistenza materiali. Ma questa situazione paradossalmente è descritta dal risorto come una ricchezza: si potrebbe vedere qui una ripresa delle beatitudini matteane dei poveri nello Spirito (cf. Mt 5,3). La povertà è condizione per confidare in modo più pieno e totale nell’accompagnamento e nella presenza del risorto e quindi diviene una ricchezza di fede.

La persecuzione di cui si parla qui con il termine “blasfemia” indica un parlare contro Dio, opponendosi alla sua rivelazione. Il soggetto di questa blasfemia è definita la “sinagoga di Satana”: si tratta di gruppi giudaici sinagogali che si oppongono alla comunità giovannea di Smirne. È interessante notare che il risorto nega a questi tali il titolo di “giudei”, ammettendo implicitamente che lo siano i credenti in Gesù (cf. 3,9). L’apocalisse si colloca qui in una via ancora precedente ad una definitiva separazione delle vie: essa si rivolge ad una Chiesa che si pensa come una comunità messianica giudaica, che ha colto in Gesù di Nazareth, morto e risorto, il messia di Israele. Questa attività blasfema potrebbe essere collegata alle motivazioni delle denunce che i giudei della sinagoga di Smirne presentavano all’autorità a danno della comunità giovannea, per indebolirla e minare il suo espansionismo crescente. Cristo annuncia anche una persecuzione di dieci giorni ai danni della Chiesa, con imprigionamenti di alcuni di loro: la durata ha probabilmente anche un significato simbolico, un tempo lungo ma limitato, a cui Dio porrà fine: la persecuzione non potrà durare per sempre e questo incoraggia i credenti ad affrontare l’afflizione con speranza e senza lasciarsi spaventare sino a retrocedere nel cammino della “via” cristiana.

Mi sembra qui importante sottolineare il carattere sempre nuovo e indeducibile, dal punto di vista culturale, del kèrigma cristiano, capace di imprimere una discontinuità con un giudaismo ormai molto ben inserito nel contesto culturale ellenistico. Il carattere messianico “personale” del nascente cristianesimo finisce per collidere con un giudaismo ormai profondamente impastato con l’ellenismo, al punto di identificare la sapienza stessa di Dio con la Legge giudaica e il logos filosofico greco. Il punto di discordia è esattamente la pretesa della comunità giovannea di identificare questa sapienza/logos con un uomo storico concreto, Gesù di Nazareth, attraverso la porta del mistero pasquale di morte e resurrezione. Questa novità è al contempo profondamente inserita nel contesto giudaico e assolutamente originale nel suo svolgimento. Continuità e discontinuità sono articolate insieme e determinano un salto che spiega l’opposizione e la resistenza culturale e religiosa delle comunità giudaiche, come già sperimentato da Paolo nel suo disegno teologico e missionario.

Nella prospettiva evangelizzante della comunità cristiana non si può trascurare questo aspetto: il vangelo non si comunica per semplice adattamento, ma può suscitare anche dei contrasti profondi, vediamo ad esempio il rapporto con le culture orientali, dove c’è un arricchimento reciproco tra il logos presente nelle vie religiose e mistiche orientali e il logos fatto carne rivelato dal cristianesimo. Questa reciproca “fecondazione” si è data nella storia degli ultimi 500 anni in oriente anche con conflitti che possono essere superati solo con una reciproca umiltà. Da un lato è l’umiltà da parte di culture millenarie di riconoscersi non autosufficienti ma bisognose di riscoprire il loro logos in dialogo con una forma storico-salvifica di logos, con un logos storico, un Cristo salvatore che è storicamente esistito in un luogo e in un tempo particolari, ed è Gesù di Nazareth. Dall’altro l’umiltà della via cristiana di arricchire la comprensione del Cristo totale di tutte quegli apporti, ancora in gran parte inesplorati, che provengono da queste vie di sapienza e di spiritualità.  Adattamenti parziali, unilateralismi, e conseguenti conflitti e tensioni, saranno ancora inevitabili, fuori e dentro la comunità cristiana e questo va messo in conto come un “peso” proprio del carattere gratuito e indeducibile della rivelazione storica offerta dalla via cristiana.

Cristo Alpha e Omega (II)

Chiesa di Efeso: ritrovare l’amore di un tempo

Si tratta di una fondazione da parte di coloni ateniesi, centro commerciale attivo, grazie al suo celebre porto, centro religioso attivissimo, collegato al culto della dea Artemide. Capitale della cultura e della filosofia (cf. Ipponatte, Eraclito, Artemidoro). In contesto cristiano essa è collegata, secondo la testimonianza di Policrate, all’apostolo Giovanni, figlio di Zebedeo.

Qui il risorto si presenta come colui che ha nella mano destra (simbolo di potere) le sette stelle che corrispondono ai sette angeli e che cammina in mezzo ai sette candelabri che corrispondono alle sette Chiese (cf. 1,20). Con il verbo “oida” il risorto indica quattro meriti della Chiesa: tutto scaturisce dal suo sguardo onnisciente, capace di penetrare l’intimità del cuore delle sue Chiese (cf. 2,23). Cosa vede? Le opere della Chiesa e lo stile con cui vengono portate avanti, caratterizzato da tre ulteriori elementi: fatica, costanza e capacità di discernere il vero dal falso. Quest’ultimo aspetto è descritto da due verbi, provare e trovare.  Al versetto 3 si riprendono le medesime caratteristiche, lette nel presente e nel passato: la perseveranza e costanza (ypomone) presenti si basa sull’aver sopportato (ebastasas) e non aver ceduto per l’affaticamento (kekopiakes). Questa fatica ha poi una causa e insieme una finalità e uno strumento/sostegno: il nome del risorto. In questo nome, secondo la mentalità ebraica, è contenuta tutta la potenza di Dio (cf. Fil 2,10).

Con la formula dell’accusa (“ho contro di te che”): si indica una caduta, un peccato, che riguarda l’amore di un tempo, l’amore originario, da cui la Chiesa è come precipitata. Potrebbe riferirsi al fatto che la lotta contro i falsi apostoli ha lasciato delle ferite nella comunità: rabbia, risentimento, tristezza, disillusione, scoraggiamento ecc., sono tutte tendenze desolanti che, se lasciate penetrare a lungo nel cuore, finiscono per allontanarlo da Dio, raffreddando l’amore.

Per quanto riguarda l’odio dei Nicolaiti, bisogna sottolineare anzitutto che si tratta di un odio rivolto verso le opere e non verso le persone, ossia verso il peccato e non verso il peccatore. Sulla questione dei Nicolaiti ci soffermiamo nella trattazione riguardante la Chiesa di Pergamo.

Colui che vince è un combattente che ha già la vittoria in mano ma deve completarla conservandola (cf. 2,26): questa prima promessa costituisce l’atrio per tutte le altre e si realizzerà con la presenza della città escatologica della Gerusalemme del cielo, con l’albero della vita al centro. Questo albero avrà foglie terapeutiche, che nutrono e guariscono (cf. 22,2 e Ez 47,12)

Lo Spirito parla attraverso il Cristo: come nel QV (cf. Gv 16,13-14): egli conduce la Chiesa alla retta forma della carità, la “discreta caritas”, che permette di comprendere come vivere l’amore nel contesto concreto, sia smascherando i falsi apostoli, sia guardandosi da atteggiamenti compromissori e mondani, sia avendo cura di costruire la comunione al suo interno e di coltivare atteggiamenti di speranza e consolazione.

In particolare mi sembra decisivo per questa Chiesa il richiamo all’amore: esso si rivolge non all’intelletto, perché questa Chiesa non sembra mancare di discernimento, ma alla volontà, ossia alla capacità di tradurre in atto ciò che essa comprende come valido e vero per la propria vita. I conflitti e le fatiche “gestionali” delle risorse umane di questa Chiesa sembrano aver rallentato e messo sabbia nel “motore” relazionale dell’annuncio e della vita cristiana. Il richiamo è decisivo anche per noi, in un momento in cui il “motore” del cammino sinodale sembra essersi un po’ arenato non solo per mancanza di percezione della sua importanza nel nostro cammino di Chiesa in Italia, ma per le difficoltà organizzative, la fatica di articolare una sinodalità effettiva e non soltanto “affettiva” e rendere pienamente partecipi le strutture di corresponsabilità ecclesiale. Il timore del conflitto e la carenza di risorse umane porta all’attendismo e ad un certo atteggiamento di fatalismo e rassegnazione. Si tratta, ancora oggi, di ritrovare l’amore di un tempo, ossia la prospettiva di speranza radicale alla quale siamo chiamati, per rinnovare l’energia volitiva della nostra Chiesa. Questo significa ritrovare l’amore delle origini, quell’apertura senza preclusioni al futuro mosso e preparato dallo Spirito Santo.

Cristo Alpha e Omega (I)

Prospettive di Speranza in tempi apocalittici

Lo schema del settenario delle lettere è già anticipato al c. 1, che può essere considerato come una visione introduttiva del settenario stesso (cf. 1,4-5.9-11). L’incontro domenicale (giorno del Signore, cf. 1,10) caratterizza la vita delle Chiese locali a cui Giovanni scrive, per conto del “figlio dell’uomo”. Non si tratta quindi di un’esperienza mistica personale, ma di un incontro “liturgico”, che vuole reinnescare il contatto diretto con il Cristo risorto, nella vita della Chiesa. Giovanni, compartecipe dell’amore fraterno ma anche delle prove e tribolazioni della comunità, vive questa comunione ecclesiale e liturgica, pur trovandosi in esilio a Patmos.

In queste lettere il Cristo risorto parla in prima persona, con un’efficacia immediata e diretta.  Il numero sette è un simbolo di totalità: in altri termini l’universalità della Chiesa viene raggiunta tramite una “tipizzazione” e “simbolizzazione” di una qualunque delle sette Chiese, con le quali si può identifica il lettore e quindi la Chiesa di tutti i tempi. Anche attraverso questo meccanismo narrativo e pragmatico si può notare un’articolazione tra Chiesa locale e Chiesa universale: l ‘esperienza universalizzante è scritta nel locale, ossia in storie ben definite a livello spazio-temporale.

Lo schema di ciascuna lettera è il seguente:

C’è dunque un passaggio interno dal giudizio (indicativo) all’esortazione (imperativo). Questo passaggio è modellato secondo lo schema giuridico del rib. Si tratta infatti di un itinerario di conversione: Cristo vuol far sapere alla sua Chiesa che la ama, ma proprio per questo chiede a lei di perfezionare la sua unione con Lui. Ma questi imperativi sono anche Parola di Dio, si attuano come disposizioni attive, portatrici di un’efficacia immediata. Inoltre si parla di un protagonismo dello Spirito in questi messaggi: lo Spirito aiuta la Chiesa a leggere il suo percorso nella storia, la consola e rafforza, le fa percepire la necessità di convertirsi ed aggiornare le sue strutture pastorali, per appartenere sempre più strettamente al Suo Signore risorto.

Un’ultima questione: chi sono gli angeli delle Chiese?

  1. Sono angeli veri e propri. Ma come è possibile che per scrivere a degli angeli il Cristo risorto si serva di un uomo, di Giovanni? È possibile che gli angeli siano fallibili e il Cristo li censuri? È vero che l’angelo si presenta in Ap come un “conservo” (cf. 19,10b).
  2. Gli angeli delle Chiese sono la controparte celeste delle Chiese (come nelle tradizioni egizia, cristiana e greco-latina). Ma non accade mai in tutto l’AT e il NT che una comunità terrena sia identificata con un angelo.
  3. Gli angeli delle Chiese sono uomini, i loro leaders e vescovi. Nel giudaismo il termine angelo può riferirsi a colui che è inviato da Dio ad essere rappresentante della comunità. Di contro nell’ecclesiologia delle comunità giovannee non si è ancora affermato l’episcopato monarchico, tipico del tempo di Ignazio di Antiochia.

In 2,16 l’angelo deve convertirsi sulla questione dei Nicolaiti: mi sembra che questa sia un’ulteriore prova dell’ipotesi 3. Si tratta di una questione pastorale a cui il leader o i leaders devono porre attenzione.

Sbilanciarsi oltre il “perfetto equilibrio”

La logica delle beatitudini

Perfetto equilibrio: con questa espressione pensiamo particolarmente ai corsi di yoga o di zen, che ci aiutano ad uscire da pensieri troppo stressanti e a ritrovare un certo equilibrio interiore, forse un certo benessere.

Certamente l’equilibrio è necessario e questi strumenti di meditazione possono aiutarci a prendere maggiore consapevolezza del nostro corpo e della necessità di tenere un certo equilibrio nei nostri impegni e nei nostri pensieri.

Ma c’è un pericolo: ed è quello che la nostra società tecnoscientifica ci porta a pensare di utilizzare buone pratiche, per tenere “sotto controllo” la nostra vita, mantenendoci in una sorta di autosufficienza, di benessere perfetto.

La proposta che Gesù oggi ci fa intende andare oltre, superare questa concezione di benessere come puro equilibrio…va bene infatti l’equilibrio, ma se non sappiamo dove andare, a che cosa serve? Dovremo pure sbilanciarci verso qualcosa…

Gesù ci propone le beatitudini, come un sano sbilanciamento, in verticale e in orizzontale. Beati i poveri di Spirito è lo sbilanciamento in verticale, ossia la capacità di lasciarsi andare, abbandonarsi, mollare il controllo, per comprendere come la vita in realtà sia nelle mani di un Altro, che la accompagna e conduce secondo una logica perlopiù misteriosa e nascosta, ma sempre caratterizzata dall’amore. No la vita non è in mano nostra, ma in mani molto migliori, anche se a volte è difficile comprenderlo.  I poveri di spirito sono coloro che sono usciti dalla loro pretesa di autosufficienza, per entrare con tutte le mani e i piedi dentro alle contraddizioni della vita e della storia, coloro che sanno di non poter bastare a loro stessi e che sentendosi profondamente amati da uno sguardo libero e liberante, lo sguardo del Padre, cercano di gustare ogni giorno la libertà dei Figli di Dio.

L’altro sbilanciamento delle beatitudini viene di conseguenza ed è quello orizzontale, che caratterizza tutte le altre: beati coloro che piangono, i miti, coloro che hanno fame e sete della giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati per la giustizia.  

Commentiamo, per brevità, solo le prime due.

Beati coloro che piangono. Chi si apre alla Vita e a Dio, sbilanciandosi verso l’Altro, è pronto ad aprirsi all’altro con la a minuscola, al suo bisogno, con il pianto e con la consolazione. Non è il gusto del soffrire, tutt’altro: è stare dentro alla storia, che scorre in noi e accanto a noi e a lasciarsi toccare da essa, in modo empatico.  Siamo chiamati a soffrire e gioire insieme, a non avere paura della nostra umanità e questo ci porta a vivere fino in fondo, ad essere uomini e donne vere.

Beati i miti. Bisogna saper stare nella gioia e nel dolore, nostro ed altrui, con la capacità di esprimere tutto se stessi, con la propria passione, rilanciando in avanti, anche quando vi sono fatiche e scoraggiamenti, ritessendo legami e relazioni, quando vi sono lacerazioni. Questa è la beatitudine di chi si mette al servizio, senza lasciarsi condizionare dal passato, da ferite e risentimenti, per rilanciare continuamente, con speranza, fili di comunione e di progettualità.

Abbiamo tanto bisogno, nella nostra società e nel mondo, di questa logica sbilanciata delle beatitudini. Come portare pace in un mondo dominato da logiche di simmetria violenta, che rischia l’autodistruzione? Ci vuole qualcuno che dica, forte e chiaro, che la logica degli equilibri violenti porta solo alla morte e che proprio questo è il momento di credere alla follia di proposte di pace, di nuove tessiture di dialogo.

Le società che si chiudono in loro stesse, nella loro pretesa autosufficienza – pensiamo alle chiusure dei lockdown cinesi – non hanno futuro. Solo lo sbilanciamento verso la vita, proprio della beatitudine, è in grado di costruire un progetto di “uomo” realmente sostenibile.

Pregare con il vangelo della Domenica

Mt 5,1-16 (IV TO)

Beati i poveri di spirito

Il messaggio nel contesto

Mt 5,1-16

Le beatitudini sono la legge di coloro che vivono nei cieli già in questa terra, ossia la legge del regno dei Cieli (3.10.12.16). Non si tratta di un Regno puramente spirituale, contrapposto alla materialità del mondo, anzi è un Regno profondamente legato alla terra e al mondo, perché è il Regno dei figli, gli unici in grado di ereditare le ricchezze del Padre (5.9), costituite dalla creazione e dalla storia. Essi infatti sono il sale della terra (13) e la luce del mondo (14), come testimoni del Padre. Poveri di spirito perché spogliati di sé stessi per essere arricchiti dal Padre (v. 16) sono capaci di far risplendere la Sua luce nelle loro opere. Essi scalano le altezze dello spirito, imparando attraverso le limitazioni e le umiliazioni, la vera e gioiosa umiltà dei figli di Dio.

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La povertà di spirito non indica quindi una carenza materiale, ma una capacità di affidarsi totalmente al Padre, con un atteggiamento di umiltà nei Suoi confronti, che implica una serie di conseguenze descritte nelle successive beatitudini, ossia la mitezza, la capacità di affrontare le sofferenze, la purezza di cuore, la ricerca della pace, l’amore misericordioso (5-9). Al centro la fame e sete di giustizia indicano sia la sfera dei rapporti umani sia l’agire di Dio nella storia, ossia la realizzazione definitiva del suo progetto di salvezza e di comunione nei confronti del suo popolo (6). I Figli del Padre celeste saranno saziati nella loro fame più radicale, la fame dell’amore di Dio, di un amore in grado di realizzarsi anche nei rapporti con il prossimo e nella società, un amore che si compie definitivamente in Cristo e nella sua giustizia. Testimoni di tale amore essi saranno perseguitati (10a.11b), ma proprio in questa assimilazione ai profeti dell’Antico Testamento e a Cristo essi troveranno la loro gioia (12). Le beatitudini rappresentano la carta costituzionale del cristiano che vive nella storia come testimone di un progetto escatologico di Dio, che si è già compiuto in Cristo, ma che proprio grazie al cristiano deve ora diffondersi in tutti i tempi e in tutti i luoghi: il progetto dei Figli di Dio.

Attualizzazione

Beati i poveri di spirito. Il povero di spirito sa vivere delle cose senza dipendere da esse, perché è consapevole che la vera ricchezza è quella del cuore. Egli sa dare, ricevere e condividere e sente la vita come un dono ricevuto da Dio.  Sa accettare la propria debolezza e il proprio limite quando essi sono un modo attraverso cui il Signore si manifesta. Non si deprime e non si abbatte di fronte alle difficoltà, perché sa accogliere e promuovere ogni possibilità di bene contenuta anche nelle esperienze più difficili.

Beati i miti. La mitezza evangelica è quella di chi non si mette al di sopra gli altri, ma è capace di delicatezza, rispetto e tenerezza. Il mite è capace di esserlo anche verso se stesso: è attento, paziente, capace di umorismo verso se stesso. Egli sa esprimere quella affabilità che conquista anche gli animi più sospettosi e induriti. E quando viene perseguitato con falsi motivi, si difende ma sa anche rinunciare alla sua difesa se essa comporta una forma di violenza. Egli condivide il cammino di Cristo, il primo ad essere “mite ed umile di cuore” (Mt 11, 29).

Beati coloro che piangono. Non è il pianto di disperazione di chi non aspetta più nulla dalla vita, o il lamento angosciato di chi si chiude nel proprio tormento interiore. Piuttosto è il pianto di chi sa mettersi nei panni degli altri e commuoversi per loro. Beato non è colui che si trincera nella propria orgogliosa condizione di vittima, ma che è in grado di uscire da sé stesso, dalle proprie paralisi interiori, per soffrire con chi soffre e gioire con chi gioisce. Questa è la beatitudine delle persone empatiche, che hanno compreso che il mondo non gira solo intorno alle loro sofferenze.

Beati coloro che hanno fame e sete della giustizia.  Questa beatitudine spinge a trovare la propria gioia nell’impegno concreto per un mondo più equo e senza sfruttamento.  Non è solo un impegno sociale e di volontariato, ma anche politico, per rimuovere le cause strutturali che determinano disuguaglianza e ingiustizia. Non è poi solo un impegno politico, ma anche una dedizione educativa, perché le nuove generazioni possano coltivare i valori più alti della cultura umana e costruire un mondo sempre più fraterno e capace di vivere in armonia con la natura.

Beati i misericordiosi. Lo stile di chi ha misericordia è quello di chi esce da una prospettiva di dare e avere nella relazione umana, ed è disposto a perdonare fino a settanta volta sette. Chi si pone in questa disposizione interiore è in grado di lasciarsi intenerire dall’altro e non lo rinchiude nel suo peccato, ma lo ristabilisce nella stima di sé e lo solleva per donargli una nuova possibilità. È l’opposto dell’orgoglioso che schiaccia l’altro e gli impedisce di recuperare.

Beati i puri di cuore. Il puro di cuore ha un desiderio e un amore liberi dalla tentazione di possedere l’altro, fisicamente o moralmente. L’aspirazione del puro di cuore è favorire la libertà e la realizzazione dell’altro e in questo è capace di porre la sua gioia. Non ha obiettivi segreti e il suo cuore non è doppio: ciò che dice è ciò che fa e desidera. Egli ispira fiducia e su di lui si può contare.

Beati i costruttori di pace. Tanti contesti civili e politici sono attaccati dal cancro della sfiducia reciproca, dell’odio, della sete di vendetta. In queste periferie umane, spesso inquinate dalle tensioni tra diversità razziali, sociali o di religione, i costruttori di pace si spingono per edificare, con grande creatività, relazioni di pace e piccoli o grandi segni di speranza. Essi non sono dei pensatori ideologici e astratti della nonviolenza, sono artigiani che con umiltà si adoperano nei gangli delle istituzioni o nel fermento della società civile e con pazienza pongono le condizioni per sciogliere asti e rancori solidificati nel tempo. Mettono in campo la loro astuzia solo per il bene.

  • Qual è il contesto spazio-temporale del racconto

Gesù sul monte vede le folle e parla di loro ai discepoli. Essi sono i beati. Riconosco la beatitudine come una condizione comune a tanti illustri sconosciuti e dunque più comune di quanto non si pensi?

Qualche domanda ulteriore.

-Cosa implica, per me, accogliere l’insegnamento delle beatitudini? Sento che la vita delle beatitudini è più felice e in fondo più umana?  

-Le beatitudini sono centrate sulla povertà di spirito. Cosa significa in questo momento, nella mia vita, fare affidamento a Dio e non a me stesso?

-Quale beatitudine sento più vicina a me?

-Quale beatitudine desidererei vivere ma mi sento ancora molto lontano da essa?