Omelia XVI TO Anno C

 

Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta. Queste parole di Gesù hanno fatto storia, e sono state utilizzate spesso nella Chiesa per stabilire una sorta di superiorità delle vocazioni alla vita consacrata rispetto alle vocazioni laicali -e forse anche oggi quando parliamo di vocazione pensiamo subito al prete, al monaco, al frate o alla suora.

Alla lunga questa applicazione ecclesiale della parola di Gesù ha finito per distorcerne il senso e ribaltare il significato del rimprovero di Gesù a Marta.  Gesù non rimprovera Marta per il suo servizio, come se l’azione concreta sia meno dell’ascolto della parola. Gesù rimprovera Marta per la sua pretesa che anche Maria faccia come lei, pretesa che svaluta totalmente l’ascolto di Gesù. Ella vede una contrapposizione netta tra il pregare e il fare attribuendo all’ultima parte di questi binomi il suo favore. È una forma di orgoglio, di narcisismo dell’azione, che è incapace di fare unità tra contemplazione e azione, di vivere una vera spiritualità dell’agire.

Allora Gesù è provocato ad affermare che Maria ha scelto la parte migliore, non perché l’agire concreto sia inferiore all’ascoltare, ma perché l’agire, ogni agire, se non nasce da un ascolto profondo di Dio, se non è informato dal desiderio di servire Dio e di contemplarlo proprio dentro la proprio azione, alla fine non riceve l’eredità eterna, quella che non può essere tolta. La parte migliore non è altro che questo: l’eredità che ogni figlio riceve dal padre, quell’eredità che come figli riceviamo dal Padre, Dio, e che nessuno ci può togliere. Le opere sono segni transitori deposti nella storia di questa eredità che solo la fede, intesa come ascolto, può rendere eterna.

Gesù non intende stabilire una superiorità delle vocazioni religiose, anzi, vuole stigmatizzare ogni contrapposizione tra consacrazione e laicità, tra spiritualità e azione. È il senso profondo dell’incarnazione, che già risplende in quella splendida prefigurazione che è l’apparizione di Dio a Mambre ad Abramo. Per Abramo servire l’ospite e ascoltare la parola della promessa è un unico, inseparabile atto!

Anche noi siamo spesso tentati come Marta di contrapporre spiritualità e servizio. Quando ci sono tante impegni quotidiani, come trovo il tempo di pregare? La fretta, l’ansia, il desiderio di chiudere uno dei tanti files aperti , su cui stiamo lavorando contemporaneamente , ossia  idee, progetti, scadenze, incombenze, imprevisti da risolvere ecc…ci portano a vivere la giornata nel perenne inseguimento di un obiettivo raggiunto. Ma quando e come ci godiamo tutto quello che stiamo vivendo? Come e quando contempliamo con gusto la nostra vita, con le cose belle, facendole risuonare dentro di noi per evitare che un nuovo evento, una nuova impressione sostituisca l’altra, senza più creare memoria, lasciare traccia? Ecco la preghiera, ecco quel respiro improvviso di Dio dentro di noi che ci ossigena lo spirito e ci fa vivere da figli e non da schiavi la nostra giornata… può essere un’ora, può essere una mezz’ora, possono essere dieci minuti, può essere una intercessione richiesta a Maria mentre sono in macchina, può essere un breve pensiero di ringraziamento, può essere una frase del vangelo che mi è rimasta impressa in memoria…anche questa è preghiera.

A questo punto possiamo chiederci: le nostre parrocchie sono scuole di ascolto, di preghiera, luoghi di ristoro spirituale dove posso stare ai piedi di Gesù oppure sono ambiti dove all’ansia delle cose da fare per la famiglia e il lavoro si aggiunge l’ansia ulteriore dei servizi pastorali? Qui non sto dicendo che non ci devono essere i servizi pastorali, perché torneremmo a fraintendere la parola di Gesù…  Vi invito a chiederci, insieme, come esame di coscienza:

in parrocchia imparo il servizio, anche concreto, come prolungamento del mio desiderio di incontrare Dio, della mia testimonianza di fede ? La liturgia eucaristica è per me ascolto di Dio e nutrimento spirituale? Le altre devozioni, come la recita del rosario, mi portano a vivere l’affetto materno di Maria e ad affidarmi al suo cuore per poter conoscere e seguire sempre meglio suo figlio Gesù nella mia vita?

La pedagogia di Gesù (Omelia XV TO Anno C)

 

Se la maestra della scuola elementare vuole aiutare i bambini a sviluppare le loro capacità di riflessione e di giudizio non dovrebbe rispondere immediatamente a tutte le loro domande. Soprattutto non dovrebbe farlo con risposte preconfezionate, pronte per l’utilizzo, come una buona enciclopedia da consultazione. Infatti da un lato  i più curiosi tra i bambini si abituano ad avere tutto subito, senza mettere in moto le loro facoltà, e dall’altro  i più pigri non sono sollecitati ad approfondire, perché le domande dei loro amici sono derubricate a curiosità personali che, nel migliore dei casi, non li riguardano.

La strategia pedagogica di Gesù non consiste mai nel rispondere subito alla domanda ma nell’aiutare la riflessione con un ulteriore domanda. In questo modo egli coinvolge tutto l’uditorio, anche i suoi discepoli, in un percorso di dialogo, una specie di laboratorio della fede. Anche qui Gesù alla domanda del dottore della legge: “Cosa devo fare per ereditare la vita eterna?” risponde con una domanda: ”cosa è scritto nella legge?”, per invitarlo a trovare dentro di se la risposta giusta, quella che unisce in un solo comandamento l’amore di Dio e l’amore del prossimo.

Inoltre la risposta di Gesù non è mai una teoria astratta, ma attraverso le parabole, diventa il racconto di un’esperienza che sconvolge le abituali categorie e mentalità. Alla domanda astratta del dottore della legge: “chi è il mio prossimo?” risponde con una parabola, quella del buon samaritano e con una domanda finale, che ribalta la domanda inziale e rende concreta e pressante la risposta. Il prossimo non è l’uomo bisognoso, ma colui che può servirlo, non è l’uomo senza nome incappato nei briganti, ma colui che vi passa accanto, sia esso sacerdote, levita o samaritano. La vera questione non è:  “chi è il mio prossimo?” ma: “tu di chi sei il prossimo?”.  Chiedersi chi è il mio prossimo e se anche gli immigrati, i poveri, le persone di altre religioni sono il mio prossimo, oltre che banale è anche moralistico. È molto facile dirsi prossimo di un venditore ambulante a cui do due spicci mentre sono in macchina al semaforo: ma se poi litigo e tratto male i miei familiari sono realmente il prossimo di qualcuno?

La domanda “Chi è il mio prossimo?” è astratta che porta con se una risposta scontata. Con la parabola del buon samaritano Gesù ci spinge a ribaltare la domanda. Non chi è il mio prossimo, ma: “io sono realmente il prossimo di qualcuno”?

Se il sacerdote e il levita sono passati oltre, per non farsi contaminare dal sangue del ferito e andare al tempio a celebrare, il samaritano si è fermato, ha avuto compassione e si è preso cura di lui. Il vero culto non è quello di chi circoscrive il sacro a liturgie senz’anima, ma è quello di chi lo colloca nel cuore stesso della vita, con  le sue sofferenze e le sue gioie.  Il vero culto è quello di chi com-patisce, soffre insieme con l’altro, come Gesù, il primo buon samaritano, che ha curato e rimarginato la ferita del peccato in ogni uomo, pagando di persona con il dono totale di se stesso.Gesù è colui che per eccellenza si fa prossimo, mostrandoci che il vero culto al Padre è indistinguibile dall’amore ai fratelli.

Ritorna a questo punto la domanda che ci mette in gioco in prima persona: io sono prossimo di qualcuno, come Gesù lo è stato nei miei confronti?  Essa può costituire un bel punto di partenza per una verifica personale e anche pastorale. Mi posso chiedere: in che misura  la sofferenza e la miseria altrui ancora mi scandalizza, mi impaurisce? In che misura ancora allontano il dramma altrui come cosa che non mi riguarda, e che sotto sotto mi spinge a giudicare la persona più sfortunata come più colpevole, così da esorcizzare il male nella mia vita? Queste resistenze sono presenti in ciascuno di noi, non ce lo nascondiamo. Ma il Signore ci dona una logica nuova, un nuovo atteggiamento, quello della compassione, ossia del patire insieme con gli altri, prendere su di se le sofferenze degli altri, versandovi l’olio della consolazione e il vino della letizia. Se ci apriamo a questo dono il male non ci spaventerà più così tanto, perché vivremo anzi della sovrabbondante gioia del vangelo proprio dentro le ferite e le sofferenze, in famiglia, al lavoro, e in ogni momento della vita.

Questa domanda dovremmo farcela anche come comunità ecclesiale. Quanto ci lasciamo coinvolgere dalla vita degli uomini e delle donne del nostro tempo, con le sue eccedenze di gioia e di dolore? I nostri battesimi sono celebrazioni gioiose della vita che generata da Dio? i nostri funerali sono luoghi di accompagnamento nella Speranza di persone che soffrono per la perdita dei loro cari? O si riduce tutto a cerimonia formale, incapace di donare consolazione e di guarire le ferite? La nostra caritas è un luogo di dialogo sincero e testimonianza della fede o una semplice agenzia di servizio sociale?

Supplichiamo lo Spirito Santo che ci conduca Lui dentro la vita delle persone, con dolcezza e rispetto, per rendere ragione dell’incredibile speranza del Vangelo.

 

 

 

Omelia XIII TO Anno C (Lc 9, 51 – 62)

 

I samaritani non accolgono Gesù perché sanno che è diretto a Gerusalemme, perchè la sua missione si deve compiere in quella città. Era dai tempi della nascita del Regno del Nord nel X sec. a. C. che le tribù del nord di Israele avevano smesso di andare a Gerusalemme e avevano potenziato i propri santuari locali. Da quel momento, passando attraverso diversi stravolgimenti politici e deportazioni di classi dirigenti, si era creata una regione, la Samaria, con un culto autonomo da quello del tempio di Gerusalemme. I samaritani, all’arrivo di Gesù, reagiscono con un riflesso automatico: siccome è un profeta giudeo, il suo annuncio non li riguarda, anzi essi sono apertamente ostili. La tentazione alla quale cedono i samaritani è di interpretare Gesù nel quadro dei propri  riferimenti ideologici, politici, morali o religiosi, e quindi di rifiutarlo perché egli non vi rientra. È una tentazione molto comune oggi, in un tempo in cui la società tende a polarizzare e schematizzare in schieramenti avversi tutte le visioni culturali e politiche. È la logica mediatica, che semplifica tutto con lo schema alleato/nemico e che tenta di ridurre all’interno di queste categorie anche il vangelo annunciato dalla Chiesa. Noi cristiani siamo invitati da Gesù a non lasciarci intrappolare da queste strettoie. Un cristiano deve essere di sinistra, di destra o di centro? Un cattolico deve essere un moderato o appartenere alle ali estreme?  La Chiesa sta con i ricchi o con i poveri, è reazionaria o progressista? Ogni volta che c’è il tentativo di far rientrare il vangelo in questi schemi, dobbiamo temere una strumentalizzazione, una riduzione del vangelo, che va a discapito dell’annuncio e lo impoverisce terribilmente.

Si, perché il vangelo non è prima di tutto un ideale o una teoria, ma una persona da seguire, Gesù, il messia che va verso Gerusalemme.

E se seguiamo Gesù, sapremo anche evitare la tentazioni dei discepoli, che è quella di pronunciare un giudizio definitivo non solo sulle persone, e anche sui gruppi e i movimenti storici. Siccome i samaritani non accolgono Gesù per motivi politici, allora i discepoli invocano il fuoco dal cielo, secondo il modello del profeta Elia inseguito dall’esercito del re, sul quale scende il fuoco come punizione divina. Ma se Elia è una vittima del re, Gesù è ancora un uomo libero e la reazione dei discepoli ha tutta l’aria di essere una ritorsione violenta per il rifiuto che hanno ricevuto.  Anche noi siamo soggetti a questa tendenza, di inasprire il nostro giudizio verso chi sta fuori, verso chi non condivide ideali, opinioni, valori, verso chi professa apertamente una visione dell’uomo antagonista all’etica che nasce dalla fede cristiana. A volte il pluralismo di idee e visioni del mondo ci sembra una minaccia e vorremmo eliminarlo per imporre la nostra verità.

Ma Gesù è più che un profeta che annuncia il Regno di Dio, perché il Regno è la sua stessa persona, e  la sintesi di tutti i nostri valori e di tutte le verità in cui crediamo si trova,  oltre ogni ideale e ogni giudizio verso l’altro,  nella mitezza e nell’obbedienza con cui Egli si affida al progetto di Dio. Egli indurisce il volto verso Gerusalemme, ossia affronta con decisione la violenza degli uomini, attaccati al loro potere, perché si compia un disegno più alto e imprevedibile in una logica umana, il disegno della sua ascensione, della sua salita e ingresso definitivo nel Regno del Padre, quel regno dove l’amore vince definitivamente sulla violenza e sulla morte. Quel regno il cui contrassegno definitivo è la croce, simbolo di una potenza capace di trasformare radicalmente il male in bene.

Questo ci educa ad accogliere la libertà degli altri nel disegno di Dio, a coltivare in noi una incrollabile fiducia nella Sua capacità di trasformare il male in bene, a fare dell’annuncio cristiano non un imposizione ma una proposta caratterizzata dalla gratuità e da una sovrabbondanza d’amore. Noi non annunciamo il vangelo perché il mondo si conformi ad un’unica logica, ma perché abbiamo conosciuto la potenza dell’amore che scaturisce dalla croce, e non possiamo trattenerla in noi stessi. Una logica, se volete, c’è, è la logica paradossale del dono!

Lectio XIII TO Anno C (Lc 9, 51 – 62)

Lc 9, 51 – 62

51Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme 52e mandò messaggeri davanti a sé. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. 53Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. 54Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». 55Si voltò e li rimproverò. 56E si misero in cammino verso un altro villaggio.57Mentre camminavano per la strada, un tale gli disse: «Ti seguirò dovunque tu vada». 58E Gesù gli rispose: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo». 59A un altro disse: «Seguimi». E costui rispose: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». 60Gli replicò: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio». 61Un altro disse: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». 62Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio».

Lectio

Come già in a Nazareth (4, 16 – 30) Gesù è respinto dai Samaritani perché il suo messaggio di salvezza è rivolto altrove, verso Gerusalemme, e rifiuta qualsiasi identificazione etnica o politica. Gesù non accetta di essere strumentalizzato o “usato” da chi vuole farlo “suo”, perché chiede di entrare nel mistero della sua persona, che a Gerusalemme deve compiere l’assunzione, cioè la sua salita al cielo, attraverso la passione e la morte.  Anche i discepoli Giacomo e Giovanni devono compiere questo cammino di fede, imparando a seguire Gesù nella sua mitezza di servo umile e obbediente del Padre piuttosto che a proporre iniziative di giustizia troppo umana (v. 54), anche se ispirate al profeta Elia (2 Re 1, 10. 12. 14). In effetti Gesù propone una radicalità molto maggiore di quella del profeta Elia, che aveva permesso al suo discepolo Eliseo di salutare quelli di casa (v. 61 – 62, cfr. 1 Re 19, 20).  Il Regno di Dio è una priorità assoluta, anche al di sopra delle prescrizioni legali più sacre (v. 59 – 60, cfr. Tb 1, 17), e si concretizza nel seguire la persona di Gesù. Tutta la legge si compie in Lui, che dunque è al di sopra anche degli affetti più cari, rappresentati dalle immagini delle tane delle volpi e dei nidi degli uccelli del cielo (v. 58).

Suggerimenti di preghiera

1. Mi dispongo davanti a Dio in preghiera. Sto in ginocchio o seduto, per entrare in colloquio con il Signore, o meditare su ciò che leggo, a seconda di ciò che voglio.

2. Leggo con attenzione il brano di Vangelo.

3. Chiedo al Signore una conoscenza interiore di Gesù, che per me va alla passione, per amarlo e servirlo sempre più.

4. Vedo le persone che agiscono, osservo come si comportano. Vedo Gesù non reagire di fronte al rifiuto violente dei samaritani. Entro nella sua missione di servo obbediente e sofferente e decido di seguirlo, sapendo che lui mi darà la forza di vivere la mitezza dell’apostolo (cfr. 1 Pt 3, 15 16)

5. Ascolto ciò che dicono i personaggi. Mi metto nei panni di questi discepoli di Gesù. Anch’io metto davanti a lui alcune cose nella mia vita che sento come priorità assolute. Sono disponibile a seguire Gesù senza fargli alcuna richiesta, ma accettando la mia vita così com’è, perché in essa si rivela la volontà di Dio per me?

6. Concludo con un Padre Nostro.

La preghiera di Gesù (Lectio XII TO Anno C Lc 9, 18 – 24)

Lc 9, 18 – 24.

18Un giorno Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare. I discepoli erano con lui ed egli pose loro questa domanda: «Le folle, chi dicono che io sia?». 19Essi risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elia; altri uno degli antichi profeti che è risorto». 20Allora domandò loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro rispose: «Il Cristo di Dio». 21Egli ordinò loro severamente di non riferirlo ad alcuno. 22«Il Figlio dell’uomo – disse – deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno». 23Poi, a tutti, diceva: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. 24Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà.

 

 

Lectio

Gesù si trova in preghiera, come in ogni momento importante e di svolta del suo ministero (cfr. 3, 21 – 22; 6, 12 – 15; 9, 28 – 36). Nella preghiera Gesù manifesta la profonda comunione che egli vive con il suo Padre, non in teoria ma nella scelte concrete che è chiamato a fare nella sua vita. Al momento del battesimo Gesù prega e riceve lo Spirito che lo abilita ad iniziare la sua missione. Quando chiama alcuni dei suoi discepoli come dodici apostoli, passa la notte in preghiera. Infine quando si tratta di mostrare la sua gloria sul monte a Pietro, Giacomo e Giovanni, perché essi possano interpretare gli eventi della passione come un cammino necessario verso l’esaltazione, Gesù si mette a pregare sul monte.  In tutti questi momenti Gesù fa un passo in avanti verso il compimento della sua missione e si rivela come il Figlio di Dio nella sua concreta storia di uomo: tutto nasce e si sviluppa nella preghiera.

Anche nel nostro testo Gesù sceglie di compiere un passo decisivo nella sua rivelazione ai discepoli come Cristo di Dio. Proprio la preghiera di Gesù, continuata e silenziosa, induce i discepoli a intuire qualcosa di profondo e straordinario riguardo a Gesù stesso, al mistero della sua persona. Egli infatti li sul monte rivela nella preghiera una comunione intima e unica con il Padre suo ed è per questo che Pietro, affascinato e avvolto dal modo in cui Gesù prega, può esporsi in prima persona e superare d’un tratto le ipotesi della folla a riguardo dell’identità di Gesù. Egli non è semplicemente un profeta come altri, perché il rapporto con Dio che si rivela nella sua preghiera ha qualcosa di assolutamente unico, Egli non può che essa l’Unto di Dio, il messia, colui che appartiene così radicalmente a Dio da essere definito come il Cristo di Dio, il Suo Figlio (cfr. 2, 26).

Tale unicità di Gesù si rivela pienamente nel mistero della sua passione, morte e resurrezione, che egli deve compiere a Gerusalemme. Il termine “deve” (cfr. Lc 24, 25) indica una necessità di natura divina, un disegno del Padre al quale Gesù si sottomette, nonostante esso passi attraverso la sofferenza (cfr. Is 53, 4) e il rigetto da parte del popolo (cfr. Sal 118, 22). Ma al terzo giorno (cfr. Os 6, 2) Gesù risorgerà.

Solo rimanendo in profonda intimità di vita con Gesù noi possiamo entrare nel mistero della sua persona, come hanno fatto i suoi discepoli, pur nell’inevitabile fatica ad accettare la dimensione di sofferenza e morte attraverso la quale Gesù passa volontariamente.

 

 

 

Suggerimenti di preghiera

1. Mi dispongo davanti a Dio in preghiera. Sto in ginocchio o seduto, per entrare in colloquio con il Signore, o meditare su ciò che leggo, a seconda di ciò che voglio.

2. Leggo con attenzione il brano di Vangelo.

3. Chiedo al Signore una conoscenza interiore di Gesù, che per me va alla passione, per amarlo e servirlo sempre più.

4. Vedo le persone che agiscono, osservo come si comportano. Vedo Gesù in preghiera assieme con me e rimango affascinato dalla sua intima immersione nel mistero del Padre suo.

5. Ascolto ciò che dicono i personaggi. Sento rivolta a me la domanda: “voi chi dite che io sia?”. È per me realmente Gesù il messia di Dio? Sento nella mia vita di poter donare tutto il mio cuore a lui, senza riserve, perché egli mi rivela il volto d’amore del Padre?

6. Concludo con un Padre Nostro.

 

 

Sancta meretrix (Omelia XI TO Anno C)

Il vangelo di oggi ci parla di conversione, parola troppo abusata nel passato e oggi facciamo fatica ad afferrarne il senso.  Ci si converte  a nuove tecnologie a cui prima non si era abituati, a nuove mode nell’abbigliamento o a stili di divertimento. Ci si converte a nuovi modelli di pensiero, nel lavoro, nell’economia o nella politica. In quest’ultima in particolare sembra che le conversioni da una parte all’altra siano piuttosto frequenti…

Ma cosa significa convertirsi dal punto di vista religioso? Non si tratta unicamente di rivedere il proprio pensiero su una determinata realtà, fosse anche su Dio, altrimenti basterebbe la legge di Mosè per renderci giusti. Prima che nell’ambito intellettuale la conversione attraversa gli strati più profondi del nostro essere e della nostra esistenza, è una trasformazione nell’amore che avviene alla radice di noi stessi e che è unicamente dono di Dio. Afferma San Paolo:“questa vita, che vivo nel corpo, la vivo nella fede del figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me”. Questo amore del figlio di Dio è all’origine di un dono radicale,  che produce la nostra conversione, ossia che passa attraverso la nostra libertà per operare in essa le Sue meraviglie d’amore.  Se prima c’è il dono di Dio vuol dire  che il merito è sempre suo, è lui che ha l’iniziativa, e la nostra libertà è sempre ulteriore e subordinata alla sua.

D’altra parte però la conversione è anche opera dell’uomo, oltre che di Dio. Se Lui ha l’iniziativa col suo dono d’amore che si compie nel Figlio di Dio, a quel punto però Egli non vuole bypassare la nostra libertà, ma anzi valorizzarla e ci chiede una personale appropriazione di quei sentimenti profondi, di quell’abbandono amorevole e sereno che sentiamo prodursi in noi.

Convertirsi allora vuol dire sentire la propria fragilità e miseria davanti all’amore di Dio e attivare un percorso di rigenerazione. Quale? Quello dell’amore. Sono i gesti della donna, come gesti d’amore, che indica la conversione personale, insieme dono di Dio  e frutto di un’intenso percorso personale:  lavare i piedi, per giunta con le lacrime, baciarli e cospargerli di profumo. Nell’AT l’espressione “lavare i piedi” è un eufemismo per indicare l’atto sessuale (cfr. 2 Sam 11, 8), il profumo che si espande è caratteristica dello sposo del Cantico dei cantici (Ct 1, 3), il bacio è la manifestazione dell’amore tra uomo e donna (Ct 1, 2). Allora Gesù può dire: le sono perdonati i peccati perché ha molto amato. Ma come, il perdono, la remissione del debito nella parabola raccontata da Gesù, non era forse stato gratuito e il debitore non aveva forse amato in conseguenza della remissione dei suoi debiti? Certamente il perdono di Dio è gratuito, ma esso si rende attivo nella vita della persona quando essa compie i gesti dell’amore, quando attiva un percorso di rigenerazione che la apre al mistero di Cristo e della sua persona, fino  a percepire simultaneamente la propria miseria e l’amore di Dio. L’amore concreto e reale attiva il perdono dei peccati da parte di Dio.

La donna e il fariseo Simone sono contrapposti: l’una piange e bacia, l’altro giudica. L’uno è rappresentante del religioso benpensante, che non ha conosciuto Dio, l’altra è rappresentante del popolo ignorante e peccatore, ma capace di amare.

Anche la Chiesa per essere se stessa deve passare dall’atteggiamento del giudizio a quello dell’amore.  Tanti chiedono il battesimo dei figli in situazioni di irregolarità, tanti fanno il cammino verso il matrimonio già conviventi, tanti portano i figli a catechismo senza venire a messa la domenica. La prima tentazione dell’uomo religioso è di creare separazione, differenziando l’interno e l’esterno della comunità attraverso regole umane. Ma il dentro e il fuori sono affare di Dio e dello Spirito Santo, non di uomini che costruiscono muri artificiali, capaci di cadere sulla gente al primo soffio di vento. La Chiesa è opera di Dio è prostituta divenuta sposa è sancta meretrix.  Solo se recupera questa umile femminilità redenta, la Chiesa può conservare il suo carattere popolare e non ridursi ad una gelida elite fuori dal tempo e dalla storia.

Il dolore originario della partenza (Omelia X TO Anno C)

 

Immaginiamo una folla silenziosa, si ode soltanto il pianto di una donna, pianto sommesso e disperato segno di un dolore senza speranza che rievoca e supera tutti i dolori precedenti.  Una donna, che ha già perso il compagno della sua vita, ora perde anche il figlio. Privata dell’affetto e della dolce consuetudine di chi le era stato al fianco per tanto tempo, ora viene privata anche del suo futuro, di colui nel quale riponeva le speranze, la sua ultima ragione di vita. Ora è una donna sola e senza protezione, perché in Israele una vedova senza figli, non avendo né casa né eredità, è praticamente ridotta alla mendicità.

La vedova che ha perso la protezione del suo sposo è simbolo di Israele che è vedova abbandonata dal suo sposo-Dio nel tempo terribile dell’esilio, in cui l’eredità della terra e del tempio in Gerusalemme non ci sono più. Ma la vedova è anche figura della Chiesa, comunità che ha perso il suo sposo, Gesù, morto sulla croce. C’è un dolore originario e misteriosamente fecondo nella Chiesa, il dolore della perdita dello sposo, che si rinnova ad ogni distacco che la comunità subisce nella sua storia, a causa della partenza di coloro che le sono stati pastori e padri. Eppure senza questo dolore la Chiesa non è Chiesa: gli apostoli non avrebbero incendiato il mondo con il vangelo, se Gesù non fosse partito da loro e la comunità cristiana non cresce nella fede e nella speranza senza passare attraverso il distacco da coloro di cui crede di non poter fare a meno.

Inoltre questo dolore è fecondo perché verrà riscattato. Infatti Gesù è risorto e un anticipo della potenza di questa resurrezione si ritrova nella potenza con cui ordina al figlio della vedova: “Ragazzo, dico a te,alzati”. La parola potente di Gesù non solo richiama alla vita, ma anche rigenera la parola del ragazzo e spezza il silenzio muto della folla. Nuove parole si accavallano e si espandono: “Dio ha visitato il suo popolo. Dio ha suscitato un grande profeta tra noi”. La parola della resurrezione vince il silenzio della morte. La vedova ha ritrovato il suo figlio e contemporaneamente il suo sposo: Dio che da la vita senza fine nel suo Figlio Gesù. E la folla, ormai non più divisa tra chi seguiva Gesù e chi seguiva il corteo funebre, tutta insieme proclama la sua fede nel Signore.

Questa folla è figura della Chiesa, invitata a ritrovare la fiducia nella parola di Dio, parola potente. Il suo sposo è sempre vivo perché è risorto e guida la sua Chiesa. I papi cambiano ed ogni volta sembrano dominare paura ed incertezza eppure lo Spirito ci sorprende con energie nuove e con personalità ogni volta tanto diverse. I parroci cambiano ed è un dolore grande, più ancora che per i meriti pastorali, per quell’affetto umano che segna i nostri rapporti e che li vorrebbe eterni. Poi ci sono i dubbi per il futuro, le sfide che sembrano insuperabili senza la guida a cui ci si appoggiava fino a ieri. Come fare senza di lui?

Come hanno fatto gli apostoli senza Gesù? Hanno avuto fiducia nella parola di Gesù risorto, che gli aveva promesso lo Spirito Santo, quello Spirito che sempre ci accompagna, ci consola e ci da la forza. Che rinnova per noi quella parola che il Signore ha pronunciato per la vedova: “Non piangere”. Il Signore invita anche noi a non piangere, ma ad avere fede nella sua parola potente che cambia la realtà e apre una nuova fecondità alla Chiesa. È Gesù a riconsegnare il figlio guarito alla vedova, è Gesù a rendere feconda la nostra comunità, a renderla missionaria e capace di generare la fede nei ragazzi, nei giovani e nelle tante persone che incontriamo nella vita pastorale della nostra comunità. È Gesù a darci la speranza e la forza di non mollare, a rialzarci nei momenti di svilimento, a non avere paura delle sfide che il futuro riserva. Le difficoltà, come sempre, non mancheranno. Ma una vita senza difficoltà e senza sfide che vita è? Certo non è la vita cristiana. Noi siamo cristiani e sappiamo camminare con fiducia anche nelle svolte spesso improvvise che la vita riserva.

 

 

La sposa sconveniente (Lectio XI TO Anno C Lc 7, 36 – 8, 3)

 

 

Lc 7, 36 – 8, 3.

36Uno dei farisei lo invitò a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola. 37Ed ecco, una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, portò un vaso di profumo; 38stando dietro, presso i piedi di lui, piangendo, cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo. 39Vedendo questo, il fariseo che l’aveva invitato disse tra sé: «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi è, e di quale genere è la donna che lo tocca: è una peccatrice!».
40Gesù allora gli disse: «Simone, ho da dirti qualcosa». Ed egli rispose: «Di’ pure, maestro».41«Un creditore aveva due debitori: uno gli doveva cinquecento denari, l’altro cinquanta.42Non avendo essi di che restituire, condonò il debito a tutti e due. Chi di loro dunque lo amerà di più?». 43Simone rispose: «Suppongo sia colui al quale ha condonato di più». Gli disse Gesù: «Hai giudicato bene». 44E, volgendosi verso la donna, disse a Simone: «Vedi questa donna? Sono entrato in casa tua e tu non mi hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. 45Tu non mi hai dato un bacio; lei invece, da quando sono entrato, non ha cessato di baciarmi i piedi. 46Tu non hai unto con olio il mio capo; lei invece mi ha cosparso i piedi di profumo. 47Per questo io ti dico: sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato. Invece colui al quale si perdona poco, ama poco». 48Poi disse a lei: «I tuoi peccati sono perdonati». 49Allora i commensali cominciarono a dire tra sé: «Chi è costui che perdona anche i peccati?». 50Ma egli disse alla donna: «La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!». 1 In seguito egli se ne andava per città e villaggi, predicando e annunciando la buona notizia del regno di Dio. C’erano con lui i Dodici 2e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demòni; 3Giovanna, moglie di Cuza, amministratore di Erode; Susanna e molte altre, che li servivano con i loro beni.

 

 

Lectio

La liturgia unisce l’episodio della donna peccatrice in casa del fariseo Simone (7, 36 – 50) con un breve sommario sulle donne che seguivano Gesù come discepole (8, 1 – 3). La donna peccatrice, divenuta credente, è simbolo della Chiesa stessa, sposa di Cristo, la cui femminilità si manifesta chiaramente per la presenza di tante donne come discepole.

Questo sfondo sponsale emerge dai gesti della donna peccatrice. Sono tutti gesti d’amore: lavare i piedi, per giunta con le lacrime, baciarli e cospargerli di profumo. Nell’AT l’espressione “lavare i piedi” è un eufemismo per indicare l’atto sessuale (cfr. 2 Sam 11, 8), il profumo che si espande è caratteristica dello sposo del Cantico dei cantici (Ct 1, 3), il bacio è la manifestazione dell’amore tra uomo e donna (Ct 1, 2). Al fariseo Simone non sfugge il significato di questi gesti, scandaloso in quanto questa donna era una peccatrice di quella città e pertanto comincia a dubitare della qualità profetica Gesù. Ma Gesù mostra di essere un profeta non solo perché sa benissimo chi è questa donna, ma ancor più perché conosce i pensieri di Simone e a lui si rivolge con un’accusa in forma di parabola, come fanno i profeti nell’AT (2 Sam 12, 1 – 4). Attraverso la parabola il profeta porta l’interlocutore ad un giudizio che poi viene rovesciato su di lui. Secondo la parabola la donna è colei che ama di più perché le è stato condonato di più, mentre Simone ama poco perché gli viene perdonato poco.   Tuttavia Gesù si esprime in modo apparentemente contraddittorio, dicendo: “Le sono perdonati i suoi peccati perché ha molto amato”  (v. 47). Cosa viene prima l’amore o il perdono dei peccati?

La donna fa parte di quel popolo peccatore che ha riconosciuto la giustizia di Dio con la penitenza chiesta da Giovanni (cfr. 7, 29). L’iniziativa è di Dio che perdona il peccato (il perdono di Dio viene prima ed è gratuito!), ma al peccatore spetta rendere attivo questo perdono con gesti di conversione. Proprio i gesti d’amore verso Gesù rappresentano la conversione del peccatore nel tempo del Messia/sposo Gesù. E questo amore rende attivo e reale il perdono di Dio.

E il fariseo Simone? Non sappiamo come risponderà all’accusa di Gesù, perché Luca vuole che ci identifichiamo con lui. La sua risposta sarà la nostra risposta all’appello profetico di Gesù.

Suggerimenti di preghiera

1. Mi dispongo davanti a Dio in preghiera. Sto in ginocchio o seduto, per entrare in colloquio con il Signore, o meditare su ciò che leggo, a seconda di ciò che voglio.

2. Leggo con attenzione il brano di Vangelo.

3. Chiedo al Signore una conoscenza interiore di Gesù, profeta dalla parola potente e sposo della Sua Chiesa, per poterlo amare e seguire sempre più.

4. Vedo le persone che agiscono, osservo come si comportano. Vedo i gesti provocatori e scandalosi della donna e entro nei pensieri di giudizio dei presenti. Immagino l’amore intimo e sofferente della donna per Gesù.

5. Ascolto ciò che dicono i personaggi. Sento rivolte ame le parole che Gesù rivolge a Simone. Sono disponibile ad amare Gesù come la donna, fino al punto da apparire sconveniente o disonorevole o pazzo agli occhi del mondo?

6. Concludo con un Padre Nostro.

 

Lectio divina X TO Anno C (Lc 7, 11 – 17)

Lc 7, 11 – 17

11In seguito Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla. 12Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei. 13Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: «Non piangere!». 14Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Ragazzo, dico a te, àlzati!». 15Il morto si mise seduto e cominciò a parlare. Ed egli lo restituì a sua madre. 16Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio, dicendo: «Un grande profeta è sorto tra noi», e: «Dio ha visitato il suo popolo». 17Questa fama di lui si diffuse per tutta quanta la Giudea e in tutta la regione circostante.

 

 

 

Lectio

Gesù si sposta fino a Nain, a una decina di Km a sud – est di Nazareth, ed è accompagnato dalla folla numerosa (cfr Lc 7, 1. 9) e dai suoi discepoli (cfr. 6, 17). Questo gruppo di persone si incontra con un corteo funebre che sta uscendo dalla città, e che accompagna una vedova e il suo figlio morto (cfr. 1 Re 17, 17 – 24).  Luca usa il termine “Signore” per indicare Gesù (v. 13) e i suoi sentimenti di compassione. È un termine forte, che si riferisce a Dio stesso: in tal modo i sentimenti di Gesù, sui quali Luca è ordinariamente molto riservato, esprimono l’amore stesso di Dio, la sua misericordia verso il suo popolo (cfr. Ger 31, 20; Is 54, 7; Lc 15, 20). Senza aver paura di contrarre l’impurità (cfr. Num 19, 11. 16) Gesù tocca la bara del morto e con la sua semplice parola (“Alzati”: è il verbo della resurrezione di Gesù, cfr. Lc 24, 46) provoca la resurrezione del ragazzo, che si alza a sedere e incomincia a parlare. Come il profeta Elia Gesù fa risorgere il figlio di una madre vedova e lo ridà a sua madre (cfr. 1 Re 17, 17 – 24); più di Elia Gesù non ha bisogno di compiere tanti riti e preghiere, ma basta la potenza della sua parola a realizzare il miracolo.

Gesù è certamente un grande profeta, come lo definisce la folla (v. 16), ma molto più che un semplice profeta Egli inaugura i tempi messianici in cui Dio visita il suo popolo (cfr. Lc 1, 68. 78) e le antiche promesse si compiono. In Lui Dio si fa vicino a Israele, sposa rimasta vedova e priva di figli e che ora vede restituito il frutto della sua fecondità (cfr. Is 49, 21). Più che un profeta egli è lo Sposo che ridà il figlio alla sua sposa Israele/Chiesa con la vittoria sulla morte e la potenza della sua resurrezione.

 

 

 

 

Suggerimenti di preghiera

1. Mi dispongo davanti a Dio in preghiera. Sto in ginocchio o seduto, per entrare in colloquio con il Signore, o meditare su ciò che leggo, a seconda di ciò che voglio.

2. Leggo con attenzione il brano di Vangelo.

3. Chiedo al Signore una conoscenza interiore di Gesù, profeta dalla parola potente e sposo della Sua Chiesa, per poterlo amare e seguire sempre più.

4. Vedo le persone che agiscono, osservo come si comportano. Mi lascio coinvolgere dal sentimento di compassione di Gesù verso quella donna. È la compassione di Dio verso il dolore del mondo e anche il mio dolore.

5. Ascolto ciò che dicono i personaggi. La parola potente di Gesù: “Ragazzo, dico a te, alzati”. La ripeto come se la dicesse a me per farmi alzare dalle miserie e chiusure che mi portano alla morte. Lo stupore della folla di fronte al miracolo è anche il mio. Il Signore è misericordioso e compie miracoli ad ogni tornante della mia esistenza.

6. Concludo con un Padre Nostro.

 

Alzò gli occhi al cielo (Corpus Domini)

 

“Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla.” C’è una sequenza di verbi il cui soggetto è Gesù.  Prendere, il pane, recitare la benedizione su di esso, spezzarlo, darlo ai discepoli: si tratta delle azioni che Gesù farà nell’ultima cena, con quel pane e quel vino che egli istituisce come il suo corpo e il suo sangue, la sua vita interamente donata ai discepoli e al mondo, per sempre. Qui, con la moltiplicazione dei pani, viene anticipata e significata in modo misterioso l’eucarestia.

Al centro di queste azioni, c’è un gesto importante per il significato simbolico che intende trasmettere: Gesù alza gli occhi al cielo. Ciò che Gesù qui sta facendo è in profonda comunione con Dio Padre. In questo pane che egli moltiplica, e quindi nel pane dell’eucarestia, Gesù trasmette tutta la vita di Dio suo Padre, quella vita che sazia fino alla sovrabbondanza.

Non a caso dopo che i 5000 uomini hanno mangiato rimangono 12 ceste. Il numero dodici indica totalità, il dono totale che supera in modo sovrabbondante  ogni attesa e bisogno umano.   Solo Dio riempie le attese del cuore in modo assolutamente sovrabbondante e incalcolabile e Dio è tutto contenuto in questo dono semplice e povero, in questo pane in cui Gesù si offre interamente per noi. L’Eucarestia può saziare davvero il nostro bisogno di amore e di infinito, il nostro bisogno di Dio, perché è l’unica realtà di questo mondo in cui Dio sia davvero interamente contenuto, l’unica presenza concreta e materiale di Dio con noi, che ci orienta alla nostra destinazione ultima di Figli di Dio. Il pane eucaristico  è il primo segno di una creazione radicalmente rinnovata, dove Dio è tutto in tutti.

In questo modo l’Eucarestia è anche in grado di guarirci dalle ferite del peccato, che vuole trovare l’infinito nelle cose limitate e ha paura della morte.  Tutti i peccati degli uomini nascono da una ricerca ansiosa di infinito: chi la cerca nel potere, chi nel piacere, chi nell’avere. Ma questi sono tutti beni finiti e limitati che non possono soddisfare il cuore e lasciano  una sensazione di vuoto che deve essere colmata in forme sempre più estreme.  Come certi politici possono  cedere a forme di corruzione così devastante senza  rendersene conto e con la coscienza (quasi) a posto? Come si arriva alla dipendenza nei confronti della droga, del sesso? Come si può perdere tutto il proprio stipendio nel gioco d’azzardo con il miraggio di una vincita impossibile?

L’eucarestia ci guarisce da tutte le ferite e ci preserva da questi pericoli, perché ci sazia, ci consola e ci da forza. Ci fa comprendere che la vita cristiana non è uno sforzo morale freddo e triste, ma è la lieta e calda compagnia d’amore di un Dio che si fa quotidianamente nostro compagno, che entra nelle nostre ferite per sollevarci dai dolori e farci camminare speditamente nella Sua volontà.

Se gli uomini, se i ragazzi in particolare si rendessero  conto del dono grande che hanno a portata di mano ogni domenica! Come introdurli a questo mistero? Prima delle regole e delle parole contano i fatti. Dobbiamo riscoprire noi adulti l’eucarestia come un appuntamento bello e desiderato. Come un incontro con Dio di cui non possiamo più fare a meno. Come di un oasi di serenità e fiducia in mezzo al deserto delle prove. Come una fonte d’acqua fresca in una giornata assolata d’estate.  Solo con la testimonianza umile e semplice di non poter vivere senza domenica e senza eucarestia,  figli e nipoti potranno intuire la posta in gioco di questo dono, l’esperienza dolce e profonda, quasi fisica, di un Dio che entra in noi.