Prossimo nemico

Quante volte abbiamo sentito questa sintesi, che peraltro non ha inventato Gesù, ma era già ben presente tra i rabbi ebrei del I secolo?

Eppure essa solleva sempre i medesimi interrogativi, mai risolti: fino a che punto può arrivare l’amore per il prossimo? Può essere anche il prossimo che si trova oltre i miei confini nazionali, sociali, culturali, religiosi? Può essere anche il prossimo che si qualifica come mio nemico? È possibile e concretamente realizzabile un tale amore?

Certo oggi l’interrogativo è quantomai attuale, in un tempo in cui stiamo tornando ad una guerra che non è solo politica ma anche culturale e, sembra, religiosa. Oriente contro occidente, paesi islamici contro la cultura occidentale: l’escalation militare in Israele e a Gaza, come pure in Ucraina, risolleva uno scontro potenziale di prospettive anche culturali. Noi dobbiamo essere molto consapevoli del valore che la civiltà greco-romana e cristiana ha portato al mondo, dopo secoli di lenta e controversa maturazione: il rispetto dei diritti umani e la democrazia. Ma nello stesso tempo abbiamo capito che questi valori non si possono esportare con le armi. Con le armi ci si difende, necessariamente, ma non si costruisce cultura condivisa. E allora dobbiamo tornare alle fonti del nostro patrimonio di fede e cultura e chiederci come far maturare una prospettiva di futuro e di pace in un tempo così segnato da un ritorno del conflitto, sulla scala globale. La domanda è ancora attuale: possiamo amare il prossimo lontano, nella cultura e nella religione, possiamo amare il prossimo nemico? Cosa ci dice il vangelo oggi?

La sintesi che Gesù propone, amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze e amare il prossimo come se stessi non è originale. Originale è il modo, lo stile con cui Gesù l’ha incarnata nel suo ministero e nella sua morte in croce. La vicinanza alle categorie più povere ed escluse, la prossimità ai peccatori e marginali, la guarigione  di chi è oltre i confini di Israele, la figlia della donna sirofenicia, il servo del centurione romano, dicono un cuore aperto a tutti gli uomini, senza confini, anche ai nemici di Israele, come erano i romani del tempo.

Il suo cuore, che fa scaturire l’amore per il Padre e per gli uomini senza limiti, si squarcia sulla croce lasciando rifluire lo Spirito d’amore, proprio dentro alle ferite dell’umanità.

È un amore davvero senza limiti, né confini culturali, geografici, nazionali, religiosi e si esprime nella passione, dove lui soffre con noi, con i palestinesi e gli israeliani, con le famiglie di chi sta subendo perdite, con le vittime di tutte le guerre.

Solo alla luce della sua passione possiamo trovare una strada che stia nella contraddizione del conflitto, senza risolverla in modo ideologico, senza parteggiare accrescendo l’ostilità, senza cercare necessariamente la scorciatoia della violenza, salvo la necessità di difendersi per proteggere la vita e le istituzioni democratiche del proprio paese.

È così, la democrazia e i diritti umani, tutto il meglio che abbiamo costruito in questi due millenni di cultura e civiltà ispirate dal vangelo non si salvano con le armi. Le armi sono solo uno strumento utile a produrre una deterrenza che protegge e custodisce la libertà da chi vuole distruggere. Esse possono al massimo penetrare i muri ma non i cuori.

Solo il vangelo della pace è in grado di penetrare i cuori, e trasformarli con la potenza di una parola che cambia, che fa maturare, che crea strade di futuro lì dove non sembrano esservi prospettive.

Si dobbiamo crederci fino in fondo, nella Parola della croce, lì troviamo la potenza d’amore che scaturisce dal cuore di Dio, l’unico che può trasformare l’odio e rompere la catena della violenza.

Essa si esercita nel dialogo, nel processo artigianale della pacificazione, nella forza dell’empatia, nella potenza di una vita che non si lascia intrappolare dalla spirale dell’odio e della vendetta.

Come dice san Paolo alla comunità dei Tessalonicesi: voi siete diventati modello per tutti i cristiani. Come dice la preghiera di colletta: accresci in noi la fede, la speranza e la carità. Solo da queste virtù, che scaturiscono dal cuore di Cristo, troviamo non la risposta, ma la strada da percorrere concretamente per affrontare i tempi di torbida violenza che sta imperversando nel nostro mondo.

Sono come fiumi in un deserto: li può crescere, abbondante, la vegetazione, anche quando tutt’attorno è solo aridità e terra inospitale.

Il potere della Donna

Il mistero della donna e dell’uomo e del loro itinerario verso la Vita è espresso attraverso i simboli dell’Apocalisse. 

La donna è caratterizzata dall’essere vestita di sole, ossia della potenza della resurrezione; la luna, ossia il tempo, è sotto i suoi piedi, segno che è in grado ormai di dominare il tempo. È una figura che supera la storia, che raccoglie tutta l’eredità degli uomini e insieme rivela un disegno più profondo, che proviene da Dio. Ha una corona di dodici stelle in testa, che rappresentano le dodici tribù di Israele o anche i dodici apostoli: essa rappresenta tutto il popolo di Dio, dell’Antico e del Nuovo Testamento, tutto il cammino di questo popolo che vive, soffre e spera nella storia. Infine le grida per il parto indicano che questa donna è feconda e sta per partorire, ma è un processo doloroso e molto faticoso, a cui essa collabora con tutto il suo corpo, appunto come un parto. 

L’uomo è rappresentato da questo bambino che sta per nascere, un bambino che appartiene a Dio e al suo trono: nella sua umanità egli vive una condizione di Figlio, che lo trasferisce nella sfera di Dio. Egli appartiene a Dio e nessuno potrà mai toglierlo. 

Ma c’è anche un’altra figura maschile: il drago rosso. Egli rappresenta il potere dispotico, assoluto, violento, ha sette teste con diademi, che rappresentano la regalità. Le dieci corna indicano un potere distruttivo che è all’opera, globale ma comunque limitato (il 10 rappresenta il limite umano). Questo potere ha in odio il potere fecondo della donna e del Figlio. Ma non potrà fare nulla contro di loro. 

Questi tre simboli raccontano come si svolge la storia degli uomini e le forze che sono in gioco. Da un lato c’è un potere femminile, che sta alle sorgenti della vita, che è fecondo, che soffre quando la vita è in pericolo, che vive di profonda empatia ed è alleato della crescita umana verso Dio. Dall’altro c’è un potere tipicamente maschile, che è fondato sul timore e si concepisce come distruttivo: l’unica cosa che può fare è intrappolare l’umanità in una rete di condizionamenti violenti che le impediscono di crescere (divorare il figlio maschio).  

Questi tre simboli raccontano anche la risposta di Dio in questa storia degli uomini: Dio ha scelto una donna, Maria, per entrare nella storia umana. Ha scelto il potere femminile, fecondo, aperto alla vita, connesso alle sue sorgenti, mentre non ha scelto il potere maschile distruttivo e violento. Il si di Maria a questa proposta di Dio è stato un si non facile, esposto ai dubbi, alla possibilità di dire di no, ed anche alla tentazione, perché Maria era una donna libera, più libera di noi, nelle sue scelte. Il suo sì è stato alla fine un si liberamente pronunciato, lungo tutta la sua vita, dall’annunciazione  fino alla crocefissione di suo figlio, come un sì alla vita, una vita che viene da Dio e che è più forte della morte, del potere della distruzione. Grazie a questo si, lei per prima ha potuto anche nel suo corpo sperimentare la forza della vita che viene da Dio, la potenza della resurrezione, la glorificazione della sua umanità: è il mistero che oggi celebriamo, l’assunzione di Maria. 

Penso oggi alle madri che soffrono per i loro figli morti in guerra, penso anche a tutte le donne a cui nel mondo viene negata la possibilità di studiare, lavorare, uscire di casa, sviluppare i propri talenti, penso infine anche alla terra, che è madre e quindi donna, e che soffre per le doglie di un progresso umano che sconvolge i suoi equilibri. 

Il si di Maria alla Vita vince oggi in modo definitivo sul potere della morte. Le madri ritroveranno i loro figli, le giovani donne saranno artiste e scienziate, la terra ritroverà il suo equilibrio. Maria è assunta in cielo e con lei tutta l’umanità entra nella vittoria della Vita. 

Il pane della pace – Omelia per I comunione

Quante guerre esistono nel mondo oggi?

Le guerre ufficiali sono 59  come conflitti ad alta intensità, mentre i conflitti a bassa intensità non si contano…sono migliaia…

Non lo dico per rendervi tristi nel giorno della prima comunione, ma per farvi capire che se tutti gli uomini comprendessero davvero chi è l’uomo Gesù, colui che ha dato il suo corpo per voi e di cui vi nutrite, non ci sarebbero più guerre. Quindi oggi voi siete molto fortunati a poterlo conoscere così da vicino.

Chi è Gesù e perché ci ha dato il suo corpo da mangiare? E che rapporto ha il suo corpo con la pace?

Gesù è un uomo che ha vissuto solo per amore e non ha mai agito per una ricerca di potere personale, per dominare sugli altri, ma solo spinto dall’amore, che è lo Spirito del Padre. Lui ci ha insegnato che si vive come Figli di Dio, Figli del Padre, solo lasciandosi avvolgere e trasportare dallo Spirito Santo.  L’uomo Gesù ci ha fatto capire che solo guardando Lui noi conosciamo il volto di Dio, che è un padre che ci vuole bene: chi vede me, vede il Padre, ha detto Gesù al suo amico e discepolo Filippo.

Nello Spirito Santo l’uomo Gesù ha compiuto segni di guarigione, con una Parola potente, che dava la vista ai ciechi, l’udito ai sordi e le gambe buone ai paralitici.

In questo Spirito l’uomo Gesù ha vissuto pieno di felicità, beato, e ha insegnato a tutti noi a vivere felici, beati.

In questo Spirito l’uomo Gesù ha condannato l’ingiustizia e il potere fine a sé stesso, come quello dei capi religiosi e politici che puntano ad avere soldi e influenza e trascurano di aiutare i poveri.

In questo Spirito l’uomo Gesù ha rinunciato all’uso della violenza, quando è stato tradito e catturato. Non ha permesso ai suoi discepoli di usare le armi. Ha capito invece che solo l’amore vince l’odio e tutte le guerre; e per amore ha donato tutto sé stesso, senza sottrarsi agli schiaffi, agli sputi, al disprezzo, alla flagellazione, alla crocefissione. Ha costantemente pregato per coloro che lo maltrattavano e ha consegnato nelle mani del Padre la sua vita, per poi riceverla da Lui cento volte più forte e potente, con l’energia della resurrezione.

L’uomo Gesù, risorto, ha cambiato il mondo per sempre. Nulla è più come prima: l’amore vince l’odio, e la vita sconfigge la morte. Da questo momento in poi è possibile credere nella potenza di un amore che vince tutte le guerre, perché vince l’odio che è nel cuore dell’uomo e vince la paura della morte, con una vita più grande.

Gesù infatti ha scelto di concentrare tutto questo amore e questa vita in un segno tanto piccolo quanto potente, un pezzo di pane e un po’ di vino: lì Gesù si dona a noi e ci dona la vita che viene dal Padre suo; lì c’è concentrata l’energia più grande di tutto l’universo, mille volte più potente di una bomba atomica, perché non distrugge, ma ri-costruisce, l’unità dentro la divisione, la comunione dentro le liti, la pace dentro la guerra.

Nutrendoci di questa vita, mangiando questo pane e questo vino, che sono Gesù stesso, il suo corpo donato per noi, il suo sangue di vita versato per noi, noi possiamo costruire la pace perché Lui ce la dona nel profondo del nostro cuore.

E anche voi, bambini e ragazzi, si, proprio voi, se vorrete continuare a nutrirvi di Gesù, nell’Eucarestia, diventerete sempre più simili a Lui, sarete uomini e donne felici, sarete costruttori di pace, costruttori di un mondo migliore, più bello, più vivibile, più sostenibile.

Già da ora potete farlo. Come possiamo aiutare i nostri amici che si trovano in mezzo alla guerra? Noi che celebriamo per la prima volta l’Eucarestia, che è uno strumento di pace, vogliamo chiediamo ai nostri capi di Governo o di Stato di aiutare i popoli in guerra a fare la pace! Come possiamo fare? Semplice…facciamo un disegno, scriviamo una poesia o una lettera sulla pace. E poi mandiamola al nostro capo di governo. Chiediamo ad altri nostri 5 amici di fare lo stesso, e di mandarla ciascuno ad altri 5 amici…quanto fa 5 per 5? Ciascuno di noi in due soli passaggi può raggiungere 25 amici. Noi siamo 70. In due soli passaggi diventiamo 70*25 = 1750…non c’è male, non è vero?

Dai segni alla realtà, la forza dell’amore

Il discepolo che Gesù amava, che tradizionalmente è identificato con l’apostolo ed evangelista Giovanni, corre insieme con Pietro verso il sepolcro, dopo l’annuncio di Maria di Magdala.

Immaginiamo i pensieri che attraversano la mente e il cuore dei due discepoli: avranno rubato il corpo del maestro? Chi potrebbe averlo fatto? E per quale motivo? Oltre all’immenso dolore della morte dell’amico e del maestro, essi immaginano anche la beffa di non ritrovare più il suo corpo, dopo che è stato unto secondo tutte le consuetudini ebraiche: una vera profanazione.

Tra i due c’è una sorta di competizione. Corre più veloce il discepolo amato, perché è quello che per primo intuisce e riconosce l’identità del Signore. Ma egli lascia che entri per primo Pietro nel sepolcro a constatare i segni, perché Pietro ha un primato tra gli apostoli.

Ciò che è particolare è che Pietro vede le stesse cose del discepolo amato, ma le conclusioni che essi traggono sono diverse. Pietro osserva il tessuto del sudario piegato in un luogo a parte e si domanda, probabilmente, se un ladro abbia avuto il tempo o il motivo per fare una cosa del genere. Pietro rimane in questa interrogazione della scena, senza poter accedere dal segno al suo significante nascosto.

Il discepolo amato invece vede più intensamente: poiché egli è amato e si nutre di questo amore e delle parole del suo maestro, che aveva detto di voler dare la propria vita per poi riprenderla, egli vede questo dono nei segni dei teli e del sudario, ed è quindi in grado di accedere a ciò che il segno realmente significa, che è una realtà più profonda e decisiva per la sua vita: il Signore è risorto, è vivo.

In questo modo il discepolo amato ricava dal suo essere amato la possibilità di vedere la realtà in modo più vero, anche dentro alle situazioni più difficili e contraddittorie, come la morte del suo maestro. Egli è in grado di ribaltare le interpretazioni più negative, desolanti e false (hanno rubato il suo corpo!) per accedere alla parte più profonda e vera della realtà, ossia che il male non ha l’ultima parola nella nostra vita ed è trasformato dalla potenza dell’amore in un bene infinitamente più grande e totale.

Questo discepolo ci offre l’indicazione più autorevole per leggere nella nostra vita i segni della presenza di Dio, proprio lì dove spesso vediamo solo buio e desolazione. Si tratta di lasciarsi aprire il cuore e gli occhi da un amore gratuito, infinito e senza condizioni: se entriamo un poco per volta in questo amore, che Dio ha per noi, riconosciamo dentro alla vita questa dinamica di resurrezione che ci attraversa già, dentro alle nostre morti.

Questa potenza d’amore ha effetti concreti nella nostra vita, di risanamento, di guarigione, di consolazione, che ci permette di attraversare anche le zone oscure, i mari profondi ed approdare all’altra riva in modo nuovo. Se ci guardiamo indietro ci chiediamo: ma come abbiamo fatto? Chi mi ha dato la forza di affrontare e superare tutto questo?

Penso alle persone anziane, a come esse vivono costantemente dentro alle fatiche fisiche e, a volte alla solitudine. Eppure possono trovare ogni giorno il coraggio di andare avanti e la pazienza e la fiducia che non sono soli. Penso ai giovani che iniziano un percorso famigliare, con bambini piccoli e lavoro per entrambi, e che faticano a tenere l’agenda un pò libera per loro e a non vivere con ansia ogni cosa. Eppure la vita cresce in loro e attraverso di loro. Penso a tante donne, bambini e giovani immigrati in Italia, quelli sbarcati e quelli giunti dalla guerra in Ucraina: penso al senso di sradicamento e alla difficoltà di inserirsi in un contesto nuovo e non sempre accogliente. Eppure anche loro lottano per costruire una vita bella e dignitosa.  Penso e mi chiedo: non sono tutti questi dei segni da interpretare, come quelli del sepolcro vuoto? Davanti a questi segni potremmo chiederci: ma chi ci ha rubato un futuro di pace e di serenità? Oppure potremmo vedere e credere. E credendo proclamare: eppure sei tu qui in mezzo a noi, come risorto, a darci la forza di vivere e sperare, di alzarci e camminare, tutti insieme: no, non siamo abbandonati e soli, siamo figli amati e custoditi!

Custoditi dal buon Pastore, che ci ha dato la vita e l’ha ripresa con la forza dell’amore!

Pregare con il vangelo della Domenica

Mt 21,1-11 (Palme)

Il Re entra a Gerusalemme

Il messaggio nel contesto

Il testo di Matteo si apre con l’arrivo di Gesù a Betfage, verso il monte degli Ulivi. Matteo a differenza di Marco e di Luca non cita Betania, ma mette in maggiore rilievo la menzione del monte degli Ulivi e di Betfage. Come mai? Anzitutto dobbiamo notare la menzione del termine “Signore”: “Se qualcuno vi dirà qualcosa, gli risponderete che il Signore ne ha bisogno”(v. 2). Questo termine indica il riconoscimento dell’autorità stessa di Dio in Gesù (cf. Mt 14,28.30). La duplice menzione del termine Signore e della notazione geografica sul monte degli Ulivi si trova in Zc 14,3-4, testo in cui si parla del combattimento finale di Dio contro le nazioni che culmina sul monte degli Ulivi dove si instaura definitivamente la Signoria regale di Dio su tutta la terra (v. 9). Tale regalità sarà adorata nel giorno di Sukkot, o festa della capanne, in cui tutti i superstiti delle nazioni andranno ad adorare il re, il Signore degli eserciti (v. 16). Inoltre a Betfage (casa del fico, secondo il Talmud) si preparavano i pani della proposizione che dovevano essere portati al Tempio di Gerusalemme. Quindi la menzione di Betfage rimanda al Tempio, dove Gesù entrerà al v. 12. Queste notazioni geografiche indicano dunque che il tempo definitivo è arrivato e il Signore prende possesso del tempio in Gerusalemme. Gesù è un messia regale che porta la definitiva presenza di Dio con noi nel suo tempio!  Non a caso la folla accoglie Gesù con le parole del Salmo 118,26a: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”. Questo Salmo viene cantato nella festa popolare delle tende (sukkot) nella quale il popolo, ricordando il cammino nel deserto e l’attesa della terra promessa, attende l’arrivo del messia regale. La liturgia di questa festa, accennata dal Salmo (cfr. v. 27b), prevede l’uso di rami frondosi in corteo, fino ad arrivare ai lati dell’altare, e richiama certamente la descrizione dei rami tagliati dagli alberi e disposti lungo la strada (v. 8). Anche il grido “Osanna” è ripreso dal Salmo 118 al v. 25, dove il testo ebraico recita: “hoshî’ah nna’” che si traduce: “dona la salvezza”.  

Quanto detto viene confermato dalla narrazione che si può suddividere in tre parti: 1. ordine di Gesù e citazione profetica (1-3) 2. esecuzione dei discepoli ed entrata trionfale (6-9) 3. reazione di Gerusalemme (10-11). Tra l’ ordine di Gesù (1-3) e l’ esecuzione dei discepoli (6-7) c’è al centro la citazione di compimento del profeta (4 -5), che ha grande importanza per chiarire la portata rivelativa dell’ingresso di Gesù. Si tratta delle citazioni esplicite di Zc 9,9 e di Is 62,11. Riguardo alla citazione di Zaccaria è interessante notare che Matteo la modifica, tralasciando le due qualifiche iniziali date al Re messia, ossia “giusto e vittorioso”. In tal modo risalta quasi unicamente l’umiltà e la mitezza di questo re che entra in Gerusalemme. L’umiltà è segnalata dall’asino, sul dorso del quale Gesù entra e che è una cavalcatura propria del tempo di pace, come conferma il prosieguo della citazione di Zaccaria: “Farà sparire i carri da Efraim e i cavalli da Gerusalemme, l’arco di guerra sarà spezzato, annunzierà la pace alle genti…” (Zc 9,10). Questi è il re mite e umile di cuore che dona pace e consolazione a tutti coloro che sono oppressi (cf. Mt 11,29). L’ingresso di Gesù a Gerusalemme è un annuncio che richiede una conversione, un riconoscimento da parte di Gerusalemme, perché la vittoria non è ancora stata ottenuta.  Come Gerusalemme accoglierà il suo re mite ed umile? È evidente l’intento narrativo di Matteo. Gesù è certamente il re-messia, ma nella forma del servo sofferente, che instaura il suo regno passando attraverso il rifiuto del suo popolo e la morte. La folla reagisce alla fine rispondendo alle domande agitate dei cittadini: “Chi è costui?”, “è il profeta Gesù da nazareth di Galilea”. (v. 11). Ma Gesù è certamente più che un profeta! In questo modo essa esprime e quasi inaugura il futuro rifiuto di Gerusalemme nei confronti nel messia regale umile e pacifico che è arrivato a lei.

  • Spazio e tempo

Gesù è ora vicino a Gerusalemme e arriva al monte degli ulivi, luogo in cui, secondo i profeti, il Signore dovrà porre i suoi piedi e stabilire il Regno di Dio a partire da Gerusalemme.  Mi rendo consapevole dell’importanza e della solennità di questo ingresso, che ricapitola fin dall’inizio tutto l’itinerario di morte e resurrezione del messia, a Gerusalemme.

  • Cosa fanno e dicono i personaggi?

Gesù invia i suoi discepoli: mettendomi nei panni dei discepoli, voglio collaborare a questa instaurazione del Regno di Gesù nel mondo. I discepoli fanno come gli ha ordinato Gesù e così si compiono le Scritture dei profeti: mi chiedo come la mia obbedienza rende possibile il compiersi del disegno di Dio, sento l’obbedienza come un gioioso ascolto dei desideri di comunione e di amore che Lui mi mette nel cuore, perché tutti possano conoscerlo ed amarlo. La folla proclama Gesù come figlio di Davide.  Mi chiedo cosa comporta per me sapere che Gesù è il re della mia vita e della storia del mondo, dentro alle guerre e alle violenze che accadono.

  • Quale rivelazione?

Gesù è un re mite e umile, che cavalca un puledro e un figlio d’asina: la sua regalità si manifesterà attraverso l’incomprensione degli uomini e la violenza dei potenti.

Per la preghiera personale

  • Leggo il brano del Vangelo, almeno due volte, con attenzione.
  • Entro nel contesto del racconto, nel suo spazio e tempo particolari: siamo in un luogo affollato, dove Gesù predica e fa miracoli.
  • Chiedo una graziaciò che desidero da questo momento di preghiera, ad esempio di fare esperienza della gioia di seguire Gesù, acclamato come Re
  • Cerco di avvicinarmi ai personaggi in gioco: discepoli, Gesù, folla
  • Contemplo cosa dicono e fanno i personaggi e ne ricavo un frutto.
  • Cerco di raccogliere tutto ciò che ho contemplato, a partire da ciò che provo in me: come mi ha toccato quello che comprendo? Quale sentimento mi suscita?
  • Dialogo con Gesù e con il Padre, lasciandomi trasportare, nel chiedere, nel ringraziare, nel lodare, nel contemplare, a seconda di ciò che sento.
  • Concludo la preghiera con un Padre Nostro e saluto il Signore con un gesto di riverenza.

Pregare con il Vangelo della Domenica

Gv 11,1-45 (V Quaresima A)

Lazzaro risuscitato

Il messaggio nel contesto

Gesù è amico di Lazzaro e delle sorelle, Marta e Maria più volte lungo il racconto questo amore di amicizia viene sottolineato, all’inizio (v. 3. 5) e nel commento che i giudei fanno quando Gesù si commuove (v. 36). Il turbamento di Gesù di fronte alla morte di Lazzaro e il suo pianto mostrano il grande legame affettivo tra Gesù e questa famiglia e ci rivelano l’intensità umana dei sentimenti di Gesù. D’altra parte però il pianto può essere considerato anche un segno di debolezza e di impotenza dell’uomo di fronte ad una realtà che lo sovrasta, come la morte. È esattamente questo il dubbio dei giudei (v. 37) e l’implicito rimprovero delle sorelle (v. 21.32): se Gesù fosse stato presente, Lazzaro non sarebbe morto. Perché non è intervenuto prima? Perché non ha agito?

Il mistero del racconto è tutto contenuto in queste domande drammatiche, che fanno eco al comportamento di Gesù, strano fino all’inverosimile. Egli infatti ha aspettato intenzionalmente due giorni ad intervenire (v. 6). Nel dialogo con i discepoli Gesù fornisce una risposta, non facilmente comprensibile per loro: se per la concezione giudaica la malattia e la morte sono segno di punizione divina, Gesù ribalta radicalmente la prospettiva: la morte accade perché il Figlio di Dio sia glorificato (v. 4). Egli non stava parlando solo della morte di Lazzaro, ma anche della sua morte. Non a caso l’accenno al fatto che Maria di Betania era la stessa ad aver unto di olio e asciugato i piedi di Gesù (cf. 12,3) rimanda alla morte di Gesù perché ella ha unto Gesù in vista della sua sepoltura (12,7). Allora come la morte di Lazzaro anticipa quella di Gesù, così anche la risurrezione di Lazzaro anticipa quella di Gesù e la gloria di cui Gesù parla è quella dell’ora del suo innalzamento nella croce, che già prelude alla sua resurrezione (cfr. 17,1.4-5).

Il racconto porta il lettore a considerare che Gesù non è un superman che evita in modo magico la morte, ma è in grado di distruggere la morte proprio attraversandola da dentro, condividendola fino in fondo nell’amore per Lazzaro, che rappresenta ogni uomo che muore.  Gesù non prende l’iniziativa da solo, ma obbedisce al disegno misterioso del Padre, secondo cui la resurrezione avviene il terzo giorno. Egli non attribuisce a sé stesso la propria gloria, ma la riceve dal Padre (v. 22). Per tale motivo egli può chiedere al Padre la cosa più importante, la resurrezione e la vita, ed essere esaudito (v. 22.42). Anche Marta ha intuito questo (v. 22) ma non ha ancora compreso che questa resurrezione non è solo un dono degli ultimi tempi (v. 24) ma è la persona stessa di Gesù, il Figlio di Dio, che dona la vita eterna (cf. 3,15; 4,14). Chi crede in lui ha già adesso la vita (cf. Gv 20,30-31). Nonostante la difficoltà a pensare che un uomo morto da quattro giorni possa risorgere ella crede a Gesù (v. 27) e con lei anche molti dei giudei presenti (v. 42. 45). Saranno poi alcuni di questi giudei a recarsi dai farisei e a causare la definitiva determinazione del Sinedrio a mettere a morte Gesù.

Nonostante questo scenario, Gesù può rallegrarsi fin d’ora per i discepoli (v. 15) e in particolare per Tommaso, perché questo segno sarà per la loro fede, che essi matureranno dopo la sua morte e resurrezione (20,28).

  • Qual è il contesto spazio-temporale del racconto

Ci troviamo a Betania, il villaggio di Maria e Marta sua sorella. Il narratore ci richiama l’episodio dell’unzione dei piedi di Gesù da parte di Maria, che tuttavia dovrà ancora accadere nella narrazione (cf. 12,1-8). Esso rimanda alla morte di Gesù. Ciò che sta per accadere ha infatti a che fare con il mistero della morte imminente del figlio dell’uomo.

  • Cosa fanno i personaggi

Gesù rimane due giorni nel luogo dove si trovava. Il miracolo accadrà nel terzo giorno. Il mistero dell’attesa di Gesù ha a che fare con un Dio che ci salva non dalla morte ma nella morte. Come dunque mi spiego questa attesa di Gesù? Come mi spiego l’attesa di Gesù nelle difficoltà della mia vita?Alla vista di Maria e dei presenti che piangono anche Gesù piange. La commozione di Gesù sembra un segno di debolezza, come la interpreto? Il morto uscì, con i piedi e le mani legati con bende e il viso avvolto da un sudario. Credo che il Signore Gesù è il Dio della vita?

  • Cosa dicono i personaggi?

Gesù afferma: “Lazzaro, il nostro amico, si è addormentato, ma io vado a svegliarlo”. Questo eufemismo di Gesù fa riferimento al mistero della resurrezione. Come mi pongo dinanzi a questo mistero? Marta e Maria dicono a Gesù: “Se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto”. Sembra un rimprovero, ma è un’attestazione di fede nei suoi confronti. Quando non vengo esaudito nel modo in cui vorrei, come reagisco? Gesù afferma: “Io sono la resurrezione e la vita”. Sento queste parole come rivolte a me, in questo momento. Quali sentimenti e considerazioni? “Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato”. Prima ancora che il miracolo accada Gesù sa di essere stato esaudito, in virtù della sua gloria, che risplenderà nella croce. 

  • Quale rivelazione?

Gesù è il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo per manifestare la gloria del Padre e generare gli uomini alla fede.

  • Leggo il brano del Vangelo, almeno due volte, con attenzione.
  • Entro nel contesto del racconto, nel suo spazio e tempo particolari: siamo in un luogo affollato, dove Gesù predica e fa miracoli.
  • Chiedo una graziaciò che desidero da questo momento di preghiera, ad esempio di fare un’esperienza profonda e intima di Gesù, del Padre e del loro amore per me.
  • Cerco di avvicinarmi ai personaggi in gioco: Gesù, Tommaso, Marta, Maria, Lazzaro e i Giudei.
  • Contemplo cosa dicono e fanno i personaggi e ne ricavo un frutto.
  • Cerco di raccogliere tutto ciò che ho contemplato, a partire da ciò che provo in me: come mi ha toccato quello che comprendo? Quale sentimento mi suscita?
  • Dialogo con Gesù e con il Padre, lasciandomi trasportare, nel chiedere, nel ringraziare, nel lodare, nel contemplare, a seconda di ciò che sento.
  • Concludo la preghiera con un Padre Nostro e saluto il Signore con un gesto di riverenza.

Gesù dona l’acqua

Viviamo un mondo diviso: tra nord-sud ed est-ovest, tra nazioni sorelle, tra poveri e ricchi, tra ideologie e dentro ogni famiglia.

Anche Gesù, umanamente, sarebbe molto distante dalla donna samaritana che egli incontra al pozzo: vi sono  barriere formatesi nei secoli, tra il popolo giudaico e quello samaritano, con profonde divergenze religiose e culturali. Al tempo di Gesù sono infatti attestati numerosi conflitti tra le due etnie. Un’ulteriore barriera tra Gesù e la donna è costituita dalla differenza di genere: nessun contatto sarebbe stato possibile tra un uomo e una donna adulti e non coniugati, da soli, presso un pozzo.

Inoltre Gesù è stanco per il viaggio e assetato: non vi è alcuna possibilità umanamente di incontro tra i due. Eppure proprio questa stanchezza di Gesù e questa sua sete sono il punto di innesco di un incontro: Gesù si fa bisognoso e chiede da bere alla donna. Una richiesta insolita, certo, ma comprensibile a partire dal suo bisogno, universalmente comprensibile, di bere. Così Gesù si fa bisognoso per scendere al livello della donna e iniziare con lei un dialogo in cui sarà lui a darle l’acqua viva da bere.

A partire dal suo “corpo” e dalle sue necessità fisiche Gesù si fa portatore di un messaggio che oltrepassa le differenze e le distanze culturali e diviene un’opportunità per la trasformazione di questa sete: non più di acqua materiale, ma di dare l’acqua viva, l’acqua dello Spirito Santo a questa donna, rendendola un’adoratrice di Dio, in Spirito e verità.

Interessante comprendere la strategia missionaria di Gesù: non giudica la situazione della donna, divorziata e risposata 5 volte e attualmente convivente con un sesto uomo, non parte da una classificazione “giuridica” o “morale” della sua situazione ma, facendosi bisognoso, attiva un dialogo per far nascere in lei un desiderio profondo. La mette in contatto con la parte più profonda di sé stessa. Anche se ancora la donna non comprende, però desidera: “dammi sempre di quest’acqua”. E passando attraverso la ferita della sua esistenza, una ferita d’amore, questa donna può giungere a sintonizzarsi con la parola “profetica” di Gesù e ad aprirsi ad una nuova modalità di entrare in rapporto con Dio, non più solo nello spazio ritualizzato e fisico del tempio, ma nello Spirito.

I veri adoratori adorano in spirito e verità, in quello Spirito che conduce alla verità di Cristo, messia figlio di Dio. Così si entra nello spazio di relazione con il Padre, che è costituito dal nostro essere figli: la donna è invitata a trovare la sua struttura più profonda e vera di relazione con Dio, il suo essere figlia. È proprio solo un contatto intimo e personale con Gesù, che può portare la donna a entrare in questo spazio d’amore. È il cuore di Gesù che la avvolge nel suo amore e le permette di entrare in un circuito di nuove relazioni, con Lui, con il Padre, con i suoi fratelli e concittadini, che lei andrà subito a chiamare.

Accade qui quanto San Paolo ha detto nella sua lettera ai Romani: l’amore di Dio è stato riversato in noi, per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. È proprio l’azione del “riversare” che è interessante evidenziare: si tratta di una fuoriuscita di liquidi, di un dono di sangue ed acqua, che rappresentano la morte di Gesù come consegna dello Spirito. Anche lì, sulla croce, Gesù aveva sete, e anche lì Gesù ci ha dato da bere l’acqua del suo amore fino alla fine, fino alla sua morte e resurrezione.

In questo suo dono Gesù ha definitivamente superato tutte le barriere e si è rivelato come “salvatore del mondo”, non di un solo popolo, giudaico o samaritano, ma di tutti i popoli e di tutti gli uomini.

Continua così, in questa Quaresima, il nostro impegno per la pace, con la certezza che questo dono ci è già stato fatto in anticipo da Gesù e si rivela nella storia, proprio dentro alle sue difficoltà e contraddizioni. La proposta è, ancora una volta, quella di vivere cinque minuti al giorno di preghiera per la pace. Potremmo farlo tutti insieme, all’ora nona, le 15 del pomeriggio, l’ora della morte di Gesù sulla croce.

Paolo, Timoteo e la ministerialità nella Chiesa

Lectio Azione Cattolica, Diocesi di Cesena

La lettera a Timoteo si colloca nel contesto di una chiesa che, al termine della vicenda apostolica, sta maturando e si sta configurando come una comunità che nasce dal vangelo e che necessita di essere custodita in questo deposito di verità costituito dal vangelo stesso, anche dopo la fine della generazione apostolica.

Una delle parole più importanti, infatti, in questa lettera, è proprio la parola “deposito”, che potremmo tradurre anche con altri termini: “forziere”, “riserva”, “dispensa”. Un luogo, in altri termini, in cui è mantenuto un tesoro prezioso (forziere v. 14), come luogo a cui attingere in ogni situazione diversa con adattamenti (riserva) per nutrire le persone con il buon alimento della fede (dispensa).  Non si tratta di un insieme di dottrine già sistemate e preconfezionate, come una sorta di catechismo ante litteram, ma, come vedremo di una “vita”, caratterizzata da esperienze, parole, ritualità, che è profondamente attraversata dalla potenza dello Spirito, per il compimento del disegno di Dio (prothesis). Perchè questa custodia venga assicurata Paolo ricorda e richiama a Timoteo l’istituzione del ministero, per l’imposizione delle sue mani: possiamo certamente pensare al ministero ordinato, episcopale e sacerdotale, ma, più ampiamente possiamo pensare anche ad ogni forma di ministero istituito nella Chiesa, che, anche senza il gesto liturgico dell’imposizione delle mani, è reso possibile come corresponsabilità piena dei battezzati al cammino della comunità ecclesiale. Da questo punto di vista mi sembra interessante declinare alcune caratteristiche della ministerialità, che valgono per tutti i battezzati, e che questa lettera contribuisce ad evidenziare.

  1. Il vangelo come una promessa di vita che si mostra nelle relazioni umane

Nel mittente di questa lettera Paolo si definisce come apostolo per volontà di Dio, secondo le attribuzioni di lettere a lui precedenti. Qui però l’ulteriore indicazione è che questa designazione è avvenuta attraverso la “promessa della vita” che è in Cristo Gesù (2Tm 2,1). Ci possono essere almeno due modi di intendere questo genitivo “della vita”: come una vita che è stata promessa da Dio, e che è contenuta in Cristo Gesù. Oppure come una promessa che è essa stessa vita, e che si identifica con la persona di Gesù, il messia. Dal momento che l’agente divino non è esplicito, preferisco questa seconda ipotesi: la promessa risuona come un vangelo (epanghelìia ha al suo interno la parola vangelo) che è vita, vita che certamente proviene di Dio e che si identifica con la persona stessa di Gesù di Nazareth il messia.

Questa vita si riflette nelle relazioni ecclesiali, di amore e paternità, che caratterizzano il rapporto tra Paolo e Timoteo. Paolo lo chiama figlio prediletto (agapetòs). Se volete è anche il modo con cui Gesù viene definito dal Padre, nella voce dell’evento battesimale (Mc 1,11). Si tratta di relazioni profondamente informate, trasfigurate dall’azione dello Spirito, perché l’affetto che le caratterizza le configuri in una chiave trinitaria. Senza esagerare, si può affermare che tra Paolo e Timoteo il rischio di un rapporto di possessività o di dipendenza sia superato dalla qualità evangelica della loro relazione, in cui il discepolo non solo non è “schiacciato” dalla figura prominente dell’apostolo ma, anzi, le sue qualità e i suoi doni vengono valorizzati, stimolati, dalla cura dell’apostolo stesso. Paolo, in questo senso, è “generativo”. Lo stesso termine utilizzato, “figlio”, non è “yios”, ma “teknos”, che fa riferimento ad un “parto” generativo. Paolo usa spesso questa metafora, si veda ad esempio la Lettera ai Galati, in cui afferma di averli nuovamente partoriti nel dolore. Paolo è una persona fortemente sensibile e connotata affettivamente: i termini indicanti emozioni sono molto presenti nelle sue lettere e anche qui non v’è eccezione. Egli prova desiderio di vedere Timoteo, ricordandosi delle sue lacrime: quasi pregusta la gioia del loro futuro incontro.  Paolo non si vergogna delle sue emozioni e non le considera una debolezza: anzi esse sono, per così dire, a servizio di una “generazione”, quella al vangelo. Il processo stesso del vangelo è sentito da Paolo come una “generazione”, in cui la relazione affettiva, paterna, con l’apostolo diviene stimolo per una rinnovata libertà, per un più pieno protagonismo, pienamente umano e “cristico” da parte del discepolo.

Questo criterio di generatività nelle relazione dovrebbe essere una caratteristica portante di ogni ministero nella Chiesa: non quindi una funzione intraecclesiale di aiuto al governo, all’amministrazione, alla liturgia, ma una forma di corresponsabilità piena all’evangelizzazione della Chiesa, per mezzo delle relazioni. Come può accadere questa generatività? Una questione di cui poco si parla è l’affettività nelle relazioni umane, che scaturisce dal vangelo.

  • L’affettività nelle relazioni pastorali

Nelle nostre pastorali abbiamo timore dei sentimenti, dei legami con le persone, come se essi per forza dovessero generare delle dipendenze. In realtà siamo noi a proteggerci e a non metterci in gioco nella relazione, per paura di soffrire o essere “rifiutati”. Ma mantenendo questa distanza, finiamo per togliere al vangelo quel carattere di generatività che lo rende pienamente umano e vero, per ridurlo a forme e funzioni: preparazioni, percorsi, sacramenti ecc. che rischiano di essere senz’anima. Questa importanza degli affetti e delle relazioni è, ovviamente, tutt’altro da un coinvolgimento che crea dipendenza e tende a manipolare l’altro. È piuttosto un coinvolgimento empatico nella vita dell’altro che ne rispetta e promuove pienamente l’umanità, mostrando le buone caratteristiche e la dignità del cammino esistenziale dell’altro.

In particolare la cosiddetta “captatio benevolentiae” fatto da Paolo a Timoteo (vv. 3-4) è una lode della sua persona, che scaturisce da una lunga consuetudine di rapporti tra Paolo e Timoteo, che affonda le sue radici fin dai primi viaggi missionari di Paolo, in cui Timoteo è divenuto fin da subito un giovanissimo collaboratore dell’apostolo, pienamente corresponsabile della sua missione. Paolo ha conosciuto bene questo giovane e le sue buone radici familiari. Timoteo ha conosciuto il vangelo grazie alla prima evangelizzazione di Paolo a Listra (cf. At 16,1) anche se gli Atti non ci riferiscono di un incontro diretto tra Timoteo e Paolo, prima della loro collaborazione che è iniziata nel contesto del secondo viaggio missionario. Sta di fatto che quando Paolo si riferisce alla fede della nonna e della mamma di Timoteo (v. 5), implicitamente afferma che la fede in Cristo si è trasmessa all’interno del contesto familiare di Timoteo, che è un contesto giudaico per parte materna. Ciò significa che il vangelo si è trasmesso per via familiare nel caso di Timoteo e proveniva da un legame vero ed autentico con la sua famiglia, al momento in cui essi sono venuti a contatto con la prima comunità cristiana fondata da Paolo. Non è quindi necessario ipotizzare un’evangelizzazione diretta di Paolo a Timoteo, ma bisogna invece ipotizzare una “fede” ebraica autentica della famiglia, a cui Timoteo ha partecipato e che è culminata con l’adesione della famiglia al vangelo.

  • L’evangelizzazione paolina e il popolo di Dio

Questo aspetto mi invita ad una riflessione. Il rapporto di paternità di Paolo nei confronti di Timoteo non si configura come un’evangelizzazione diretta, ma come un’influenza evangelica, che è giunta attraverso vie familiari e, per così dire, tradizionali, ossia dentro ad una sana tradizione religiosa, di chiara appartenenza ebraica.  Ci potremmo porre la domanda se Paolo quando si riferisce alla fede della mamma e della nonna intenda la fede cristiana o la fede ebraica. A mio parere questo interrogativo è interessante e non ha una risposta netta: è chiaro che la “pistis” nell’epistolario paolino è sempre la fede cristologica ma, al contempo, non si può negare che essa affondi in un contesto di tradizione ebraica che, nel caso di Timoteo, viene a più riprese lodato dall’apostolo.  Più avanti si dirà che Timoteo ha appreso fin dall’infanzia le sacre Scritture, ossia l’Antico Testamento, certamente prima dell’evangelizzazione paolina. Quindi ciò che è importante è che l’evento “spirituale” del kerigma evangelico sia preparato da una lenta maturazione, che affonda le sue radici in una fede di popolo, trasmessa in questo caso per via materna. 

Credo che stiamo vivendo anche noi oggi la tentazione di pensare la fede come un processo disincarnato e soprattutto fortemente individualistico, che rischia di non avere più alcuna connessione con la vita del popolo di Dio. Il magistero di papa Francesco ci riporta continuamente alla categoria teologica e spirituale del “popolo di Dio”, per fuggire le tentazioni dell’elitarismo e, in fondo, anche di un certo gnosticismo, che riduce la fede ad una “conoscenza” sofisticata ed elitaria, a cui pochi chiamati possono accedere, i cosiddetti “spirituali”. È la tentazione perenne della Chiesa, a cui si contrappone anche questa Lettera, quando parla di questioni oziose e inutili, cavilli e dispute teoriche, o favole profane, che sono mosse da vano orgoglio (cf. 1Tm 6,4). Si avverte ad esempio spesso nelle nostre posizioni ecclesiastiche un certo fastidio nei confronti della catechesi ordinaria, quella dell’iniziazione cristiana, come se fosse un peso inutile da mantenere. Certo essa si deve evolvere nella forma di una catechesi familiare, che coinvolge i genitori, che aiuta a comprendere la fede come un cammino adulto. Ma, mi chiedo, se certe posizioni un po’ dure, un po’ nette, contro il battesimo dei bambini, non siano in fondo anche frutto di tendenze elitarie. Esaltando Loide ed Eunice Paolo ammette quindi che la fede di Timoteo non dipende da lui…il loro rapporto di paternità-figliolanza è libero dal dover ammettere una dipendenza spirituale nei confronti dell’apostolo.  C’è generatività, certamente, ma non dipendenza. E questa è una conferma di quanto abbiamo già affermato in precedenza.

Così anche nella ministerialità ecclesiale ci sono rischi di elitarismo, paternalismo, clericalismo: solo una continua immersione di questi ministeri nella vita ordinaria del popolo di Dio rende possibile questa trasmissione della fede, per via ordinaria e familiare.

  • Il charisma di Dio come istituzione del ministero

Il rapporto tra apostolo e discepolo è giocato soprattutto nella chiave profetico-ministeriale.

Il dono di Dio, a cui Paolo fa riferimento, è descritto come “charisma”, termine che ha una connotazione relativa all’azione dello Spirito nella comunità e nella persona (v. 6). Esso è configurato come una chiamata, avvertita chiaramente nel contesto della comunità cristiana, che proviene da Dio (carisma di Dio come genitivo di provenienza) e che costituisce una particolare configurazione a Cristo del discepolo. Come vedremo oltre infatti Paolo parlerà subito dopo di una chiamata santa secondo un disegno particolare (prothesis) che fin dall’inizio della storia Dio ha su ciascuno di noi in Cristo (cf. 1,9).

Questa chiamata si concretizza per Timoteo in un charisma, ossia un dono di Dio, che si è trasmesso anche ecclesialmente e ritualmente attraverso il gesto dell’imposizione delle mani, che avvicina il rapporto tra Paolo e Timoteo a quello tra Mosè e Giosuè nell’Antico Testamento (Dt 34,9). Il gesto dell’imposizione delle mani, quindi, non è solo un gesto liturgico, ma anche profetico, ma caratterizza il passaggio dello Spirito profetico e un dono che si fa istituzionale, ossia capace di condurre il popolo, la comunità, la Chiesa. È essenzialmente un dono che si manifesta nella parola (v. 13): non è però un insieme di contenuti teorici, ma una parola che da vita e che risana (sani insegnamenti) con la fede e l’amore in Cristo Gesù (v. 13).  Questo aspetto ci porta tra l’altro a relativizzare la vecchia contrapposizione ecclesiologica tra carismi e ministeri, che si sono espresse nella storia come conflitti tra carismi di consacrazioni religiose e istituzioni legate agli ordini sacri, e più di recente, tra movimenti ecclesiali e associazioni laicali più “istituzionali”. Già l’istituzione apostolica e postapostolica è un dono dello Spirito, che porta con sé almeno due caratteristiche, che sono facilmente estendibili a tutti i ministeri nella Chiesa. 

  1. Questo dono opera attraverso lo Spirito, che è spirito di potenza, di amore e saggezza (v. 7). Due sono le polarità dell’azione dello Spirito: la prima una forza d’amore, un’energia che infonde coraggio e perseveranza, particolarmente nelle difficoltà e conferisce all’azione di Timoteo una peculiare autorevolezza; la seconda è la saggezza o prudenza, intesa come la capacità di commisurare i mezzi ai fini. Questa carità non giunge agli estremi di affezionarsi unilateralmente a certe iniziative missionarie, irrigidendo l’azione apostolica; ma le vede sempre come mediazioni opportune, che necessitano di essere sempre riformate e adattate. Si tratta quindi di una discreta caritas: una carità pastorale che accade nel discernimento continuo delle situazioni e delle opportunità. A noi spesso capita l’opposto: nelle nostre comunità prevale l’affetto per certe forme (si è sempre fatto così) o l’esagerata importanza attribuita a certi dettagli (una processione, un modo di fare certe feste parrocchiali, una certa preghiera carismatica, un modo di organizzare la comunità parrocchiale, con messe e funerali) che spesso bloccano un sano discernimento pastorale.
  2. La seconda caratteristica di questo dono (carisma) è la testimonianza, vista come partecipazione alle sofferenze dell’apostolo stesso. In realtà si tratta di una configurazione cristica dell’apostolo stesso che chiede imitazione, per via di partecipazione al vangelo stesso. La sofferenza di Paolo è infatti una configurazione a Cristo e si mostra come una modalità di annuncio del vangelo stesso (cf. 2,9-10). Le catene che caratterizzano la prigionia di Paolo non si oppongono alla mobilità del vangelo, anzi la moltiplicano. E Timoteo è invitato a non vergognarsi, ma a partecipare anche lui di questa umiliazione, per entrare di più nel mistero di un disegno di Dio che si compie vincendo la morte con il dono della vita (cf. 2Tm 1,10). Allora in questa chiamata fatta a Timoteo c’è la discreta caritas e c’è una progressiva trasformazione del discepolo in Cristo stesso, attraverso la partecipazione al suo mistero di morte e di resurrezione. La lettera chiama questo mistero come una “epifaneia” o “manifestazione”. Intendendo così una testimonianza reale, storica, con effetti di carattere pubblico e sociale, che passa attraverso la persona stessa dell’apostolo e del discepolo.
  • Il carattere storico e comunitario del deposito e quindi del ministero

Quest’ultima affermazione ci spinge a riflettere sul carattere storico e comunitario del “deposito” che Timoteo è chiamato a custodire. Esso è la manifestazione del nostro salvatore Gesù Cristo (in sottile sostituzione con il “salvatore” come titolo imperiale), resa possibile dall’azione dello Spirito in “noi” (v. 14). Non è quindi solo un patrimonio dottrinale ma ancor più  un “noi”, ossia la vita della comunità, la tradizione vivente, che si pone come segno e strumento della manifestazione del salvatore.

Ancora una volta questo “noi” ecclesiale che esplicita l’inabitazione dello Spirito mostra che il dono passato attraverso l’imposizione delle mani di Paolo non configura un percorso carismatico individuale, ma un servizio alla comunità, alla sua vita, al suo cammino vivente.  La discreta caritas di Timoteo non potrà allora giocarsi in modo solitario o avventuristico, ma dovrà esplicitarsi in un discernimento comunitario, che coinvolge tutti. Essa diviene quindi “sinodalità”, ossia un camminare insieme per la stessa strada, mettendo insieme i carismi e le capacità singolari di ciascuno. In un tempo di fretta, in cui dobbiamo abbreviare i processi per vedere l’efficienza delle nostre azioni, il cammino sinodale ci obbliga a rallentare, a camminare con il passo di tutti, ad andare avanti insieme come presupposto per avere la certezza che sia proprio lo spirito di Gesù, lo spirito di unità, a soffiare e condurre il nostro cammino pastorale. Tutta la ministerialità nella Chiesa è dunque chiamata a ripensarsi in una chiave sinodale e comunitaria: essa chiede un approfondimento della qualità delle relazioni comunitarie e una capacità di partecipare ad un cammino che supera l’iniziativa del singolo e si connette continuamente con l’intera comunità cristiana, a vari livelli, come Chiesa locale e universale.

Pregare con il vangelo della domenica

Gv 9 (IV Quaresima Anno A)

Il cieco dalla nascita

Il messaggio nel contesto

Il racconto si può suddividere come segue: prima scena (9,1-7): Gesù, l’uomo cieco e i discepoli; seconda scena (9,8-12): il cieco coi vicini e quanti lo avevano visto in precedenza; terza scena (9,13-17): il cieco e i farisei; quarta scena (9,18-23): i giudei e i genitori del cieco; quinta scena (9,24-34): il cieco e i giudei; sesta scena (9,35-38): il cieco e Gesù; settima scena (9,39-41): Gesù e i farisei. Dopo la descrizione del miracolo, la narrazione evolve secondo lo schema di un processo contro Gesù riguardante la Legge. I farisei sono i giudici, il cieco e i genitori sono testimoni e Gesù è l’accusato assente. Fin dall’inizio del racconto è presente la questione della Legge e del peccato, perché i discepoli si chiedono chi ha peccato se il cieco si trova così dalla nascita. Forse i suoi genitori? (v. 2). Con il termine “peccato” qui si intende non dei peccati particolari, ma l’intera condotta di un uomo che si pone contro la Legge di Dio. La stessa questione del peccato sarà posta nei riguardi di Gesù (v. 24) e poi dei farisei (v. 41).  Gesù nega che ci sia un legame tra la malattia e il peccato (v. 3-4) e afferma piuttosto che questa malattia costituisce un’opportunità perché siano compiute le opere del padre che lo ha inviato, ossia i segni di salvezza (cf. v. 16). Egli è infatti la luce del mondo, che sconfigge le tenebre (cf. 8,12; 1,4 -5).  Detto questo compie il miracolo sul cieco, con gesti che ricordano l’atto creatore di Dio nel libro della Genesi (cf. Gn 2,7) e il cieco obbedisce alla sua parola di andarsi a lavare alla piscina di Siloe, senza porre domande, con una fiducia totale (v. 7).

Da questo momento in poi inizia la serie di domande poste da vicini e conoscenti e l’interrogatorio dei farisei, che aiuta noi lettori a comprendere la portata simbolica di quanto avvenuto. Noi siamo infatti invitati ad identificarci nel cieco ormai guarito, che attraverso successive scene di interrogatorio, approfondisce la sua conoscenza di Gesù, passando da un’iniziale incomprensione dell’identità del guaritore (v.12) ad una affermazione sulla qualità profetica del ministero di Gesù (v. 17) fino ad arrivare ad una professione di fede in Gesù fondata sugli eventi accaduti (v. 38). Egli è invitato a riflettere dal dialogo con i farisei, che sono disorientati da segno compiuto da Gesù in giorno di sabato. Se infatti il segno è chiaramente positivo, aver fatto del lavoro di sabato (fare del fango e spalmare gli occhi indicano un lavoro) costituisce un’infrazione della Legge. Come è possibile che un miracolo sia accaduto attraverso l’infrazione della Legge? Essi, scelgono di mettere in dubbio l’esistenza del miracolo, prima interrogando i genitori del cieco per verificare se vi fosse uno scambio di persona (vv. 18-23), poi interrogando nuovamente il cieco guarito (vv. 24-34).  Non si interessano di Gesù, della sua identità, ma solo del “come” ha realizzato il miracolo, per poter notificare l’infrazione della Legge (v. 26). Essi hanno scelto le tenebre, che impediscono loro di conoscere chi è Gesù, la sua provenienza ultima da Dio (v. 29).    Sono loro i veri ciechi, proprio perché credono di vedere e di sapere che Gesù è un peccatore (v. 24) a partire dalla loro conoscenza della Legge di Mosè (v. 29; cf. 5,46) e invece sono immersi nella tenebra del peccato (v. 41). Il cieco invece constata l’incontrovertibilità del segno straordinario operato su di lui e argomenta a partire da una considerazione di fondo: è impossibile che Dio esaudisca un uomo, se l’esaudimento di tale preghiera comporta di per sé un peccato. Dunque quest’uomo non ha peccato e non può che provenire da Dio! (v. 33). Il cieco dalla nascita, colui che i farisei affermano essere nel peccato, è invece colui che vede. La guarigione fisica che egli ha ricevuto diviene il segno di una guarigione spirituale, di una conversione alla fede in Gesù. Egli ha visto e dunque crede in lui, diventando suo discepolo (vv. 37-38 cf. 20,8).

  • Qual è il contesto spazio-temporale del racconto

Gesù si trova attorno al tempio di Gerusalemme, da cui era dovuto uscire a causa del contrasto con i Giudei. Il contesto è relativo all’incomprensione di Gesù da parte dei suoi. Anche nel prologo il narratore diceva: “venne tra i suoi e i suoi non l’hanno accolto” (1,11). Come mi pongo davanti al mistero dell’incomprensione di Gesù?

  • Cosa fanno i personaggi

Gesù sputa per terra, fa del fango con la saliva e lo spalma negli occhi del cieco. Sono gesti che indicano una nuova creazione dell’uomo. Mi chiedo cosa significa per me vivere il dono di essere un uomo rinnovato? L’uomo guarito si prostra per terra davanti a Gesù, figlio dell’uomo disceso dal cielo per dare la vita. L’adorazione fa parte dei miei atteggiamenti nei confronti di Gesù?

  • Cosa dicono i personaggi?

Gesù afferma:“perché in lui siano manifestate le opere di Dio”. Il male è solo un passaggio: esso viene trasformato in un bene più grande. Medito la croce come questa radicale trasformazione.I giudei dicono:“costui noi non sappiamo di dove sia”. Di fronte al mistero dell’origine di Gesù i giudei chiudono il cuore, perché credono di vedere. Mi chiedo quali presunzioni e chiusure mi chiudano gli occhi all’agire di Dio nella mia vita. Gesù dice: “Se foste ciechi non avreste alcun peccato; ma siccome dite di vederci, il vostro peccato rimane”. I ciechi vedono e coloro che credono di vedere in realtà non vedono. Mi dispongo a “vedere” questo ribaltamento nel cuore e nella vita delle persone, questo contrasto tra apparenza e profondità.

  • Quale rivelazione?

Gesù è la luce del mondo: chi apre il cuore ai suoi segni, riceve il dono della fede. Chiedo il dono della gioia che scaturisce da questa luce e da questa guarigione interiore.

PREGHIERA PERSONALE

  • Leggo il brano del Vangelo, almeno due volte, con attenzione.
  • Entro nel contesto del racconto, nel suo spazio e tempo particolari: siamo in un luogo affollato, dove Gesù predica e fa miracoli.
  • Chiedo una graziaciò che desidero da questo momento di preghiera, ad esempio di fare un’esperienza profonda e intima di Gesù, del Padre e del loro amore per me.
  • Cerco di avvicinarmi ai personaggi in gioco: Gesù, il cieco nato, la folla, i genitori, i farisei, i giudei
  • Contemplo cosa dicono e fanno i personaggi e ne ricavo un frutto.
  • Cerco di raccogliere tutto ciò che ho contemplato, a partire da ciò che provo in me: come mi ha toccato quello che comprendo? Quale sentimento mi suscita?
  • Dialogo con Gesù e con il Padre, lasciandomi trasportare, nel chiedere, nel ringraziare, nel lodare, nel contemplare, a seconda di ciò che sento.
  • Concludo la preghiera con un Padre Nostro e saluto il Signore con un gesto di riverenza.

Pregare con il vangelo della Domenica

Mt 17,1-9 (II Quaresima)

Gesù trasfigurato sul monte

Il messaggio nel contesto

Il racconto della trasfigurazione si trova dopo l’episodio in cui Pietro proclama Gesù come il Cristo, Figlio del Dio vivente (16,16) e Gesù inizia a mostrare ai discepoli la necessità della croce e della morte del messia perché egli entri nella resurrezione (16,21). Pietro e i discepoli non possono ancora comprendere (16,22-23), sono nel panico (cf. 17,6) e proprio per questo il Signore li invita ad entrare nel mistero della sua morte e resurrezione tramite l’evento straordinario della trasfigurazione sul monte alto (17,1).

Non appena avviene la trasfigurazione e l’incontro di Gesù con Mosè ed Elia i discepoli per bocca di Pietro, si rivolgono al loro Signore (v. 4) con la proposta di costruire tre capanne per Lui e per Mosè ed Elia. Comprendono che tutta la gloria di Dio rivelata nell’AT attraverso legge e profeti (Mosè ed Elia) ora coinvolge anche Gesù. Essi sono entrati in una nube luminosa, come quella che accompagnava il popolo dentro la tenda del santuario (cf. Es 40,34-38), la nube del mistero di Dio.

La conversazione tra Gesù e Mosè ed Elia simbolizza il dialogo tra l’Antico Testamento, la storia del popolo di Israele, con le sue figure più rappresentative e Gesù come compimento messianico di questa Parola. La Parola di Dio entra nelle parole di questa conversazione e traccia un cammino di pienezza e trasformazione delle esperienze spirituali più significative della storia di Israele.

Anche i discepoli, per bocca di Pietro, desiderano entrare in questa conversazione, con i loro schemi ed esperienze, che fanno riferimento alla festa israelitica delle Capanne, in cui il popolo rivive l’esperienza dell’Esodo, con il cammino di Dio in mezzo al suo popolo, rappresentato dalla nube presente nella tenda del convegno, al centro dell’accampamento. La loro esperienza religiosa è quindi chiamata a confrontarsi con la Parola che si compie in Gesù di Nazareth, a vedere in lui il compimento dei loro vissuti di fede.  Infatti la nube ora si manifesta subito dopo le parole di Pietro, quasi a conferma della sua intuizione, ma orientandola verso Gesù stesso, attraverso la voce.

La voce del Padre, di fronte alla quale i discepoli cadono col volto a terra, pieni di paura (17,5-6) proclama Gesù come il figlio prediletto, nel quale egli si compiace (cf. Is 42,1; Sal 2,7), come già aveva fatto nella scena del Battesimo al fiume Giordano (cf. 3,17). Gesù, che aveva rifiutato sul monte alto la gloria del mondo che Satana gli prometteva (cf. 4,8-10), ora accoglie una gloria che proviene dal Padre, come Figlio obbediente. Più di Mosè ed Elia egli è colui a cui il Padre ha donato ogni cosa (11,27), perché è il Figlio obbediente fino alla sofferenza che sperimenterà al Getsemani (26,37), sempre alla presenza di Pietro Giacomo e Giovanni.

Dopo essere stati invitati ad ascoltare Gesù dalla voce (v. 5) essi alzati gli occhi vedono Gesù solo (v. 8) che li tocca e li incoraggia ad alzarsi e a non avere paura (v.7). È lui la piena e totale manifestazione di Dio in mezzo al suo popolo.

Ascoltare Gesù e seguirlo nel suo cammino verso Gerusalemme è l’unico criterio che i discepoli hanno per comprendere il senso della visione e la gloria di Dio che è stato loro manifestata.

  • Qual è il contesto spazio-temporale del racconto

Siamo sul monte alto e i discepoli sono con Gesù. Egli ha appena terminato di annunciare loro la sua prossima passione. Entro nel raccoglimento e nel fascino di stare con Gesù sul monte, in intimità.

  • Cosa fanno i personaggi

Gesù fu trasfigurato: l’improvvisa trasformazione di Gesù è segno di una improvvisa rivelazione. Entro in questo bagliore di rivelazione e mi lascio attraversare. Mosè ed Elia conversavano con lui: Gesù compie le Scritture, rappresentate da Mosè (Pentateuco) ed Elia (Profeti). Come entro in questa conversazione con Gesù, nella Parola di Dio. I discepoli furono presi da grande timore. Mi chiedo quali paure e resistenze io abbia dentro di me di fronte a Dio e alla sue sorprese.

  • Cosa dicono i personaggi?

Pietro dice: “Signore, è bello per noi stare qui, facciamo tre tende…”.Quando prendo iniziativa e organizzo…è spesso più ansia di fare che gioia di contemplare…La voce del Padre: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo”. Mi chiedo come rispondo a questo invito all’ascolto di Lui. Gesù invita i discepoli: “Alzatevi e non temete”. Mi sento incoraggiato da Gesù?

  • Quale rivelazione?

Gesù compie le Scritture come Figlio di Dio, amato dal Padre suo, nel mistero della sua morte e resurrezione.

PREGHIERA PERSONALE

  • Leggo il brano del Vangelo, almeno due volte, con attenzione.
  • Entro nel contesto del racconto, nel suo spazio e tempo particolari: siamo in un luogo affollato, dove Gesù predica e fa miracoli.
  • Chiedo una graziaciò che desidero da questo momento di preghiera, ad esempio di fare un’esperienza profonda e intima di Gesù, del Padre e del loro amore per me.
  • Cerco di avvicinarmi ai personaggi in gioco: Gesù, Pietro, Giacomo e Giovanni, Mosè ed Elia.
  • Contemplo cosa dicono e fanno i personaggi e ne ricavo un frutto.
  • Cerco di raccogliere tutto ciò che ho contemplato, a partire da ciò che provo in me: come mi ha toccato quello che comprendo? Quale sentimento mi suscita?
  • Dialogo con Gesù e con il Padre, lasciandomi trasportare, nel chiedere, nel ringraziare, nel lodare, nel contemplare, a seconda di ciò che sento.
  • Concludo la preghiera con un Padre Nostro e saluto il Signore con un gesto di riverenza.