L’acqua viva di Gesù (Omelia III Quaresima Anno A)

 

 

La paura ci restringe dentro i bisogni, il desiderio ci apre alla ricerca della felicità.

Infatti la paura ci restringe agli oggetti e agli spazi che ci rassicurano. Se ogni oggetto può saziarci per qualche momento, solo il desiderio va oltre, trascende, apre spazi immensi. Sono gli spazi immensi, spirituali, della felicità: la felicità non è uno stato, è una prospettiva, un orizzonte, un progressivo incarnarsi del desiderio in situazioni sempre nuove.

Questo passaggio, dalla paura, dalla diffidenza, al desiderio è l’itinerario che caratterizza la donna samaritana, al pozzo, durante il dialogo con Gesù.

Gesù incontra questa donna che aveva bisogno dell’acqua. Forse la paura la porta ad attingere a mezzogiorno, quando non c’è nessuno. Lei inizia a dialogare, in modo diffidente, perché tra lei e lui ci sono molte barriere, oltre a quella di genere anche quella etnica e culturale. Come Giovanni ci informa, tra giudei e samaritani non corre buon sangue.  Gesù ha sete e le chiede da bere, ma è poi lui a donarle l’acqua viva.  Gesù ha sete del suo desiderio e lo suscita donandole l’acqua viva, con la sua parola. Una donna divorziata cinque volte, convivente con un sesto uomo, forse aveva spento in sé tanti desideri, si era rassegnata a rimanere nel cerchio chiuso dei suoi bisogni, nella paura di essere giudicata, nella paura dell’altro.

 

Gesù le fa scaturire il desiderio più radicale: “vedo che sei un profeta, i nostri padri, hanno adorato su questo monte, voi dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogno adorare”.  L’acqua viva, ossia quella che zampilla continuamente, è la vita profonda, quella che muove il desiderio di ogni uomo oltre i propri limiti, verso una ricerca che apre nuovi orizzonti, nuove prospettive, nuove adorazioni, in una parola verso Dio.  “Né su questo monte né in Gerusalemme adorerete il padre, il padre bisogna adorarlo in spirito e verità.”: risponde Gesù.  In questo tempo in cui il culto nel luogo fisico è interdetto, possiamo comprendere tutta la portata di questa affermazione di Gesù. Non è il luogo fisico in quanto tale a costituire la Chiesa, ma le persone che, nella loro coscienza, vivono l’adorazione nello Spirito. Di cosa si tratta?

Se lui ci dona l’acqua viva, quest’acqua viva è lo Spirito, è la vita che muove i desideri profondi, veri, che apre al futuro, che spinge sempre in avanti, anche e soprattutto nei momenti difficili.

 

È qui che troviamo ciò che vale veramente, non i bisogni che fanno da specchio agli altri, di apparire, di avere, di potere… ma ciò che corrisponde ai desideri più profondi e più veri: il nostro lavoro, la famiglia, il servizio degli altri, la cura per chi soffre: non facciamoci rubare la passione per il nostro servizio quotidiano, ma attingiamo quest’acqua, che rinnova il desiderio.  Non solo, l’acqua viva dello Spirito ci dona anche una profonda consolazione, serenità, pace, e ci mette in grado di comunicarla agli altri, perché è acqua zampillante, che trabocca e fuoriesce per alimentare altri.

 

Come attingere in modo stabile a questa fonte? Solo con la preghiera possiamo attingere, in modo perseverante ogni giorno. Prima sembra un piccolo filo d’acqua, sgocciolante, poi diventa un ruscelletto che gorgoglia e alla fine un fiume navigabile. La preghiera va vissuta con tutti i mezzi e gli strumenti che abbiamo, secondo ciò che ci aiuta di più personalmente: il rosario per metterci sotto la potente protezione di Maria, che ci conduce al Figlio suo, meditando i Suoi misteri; il vangelo del giorno, per contemplare il disegno di Dio nella nostra vita; i salmi, per lodare e supplicare il Dio di Israele, nei momenti di gioia e di prova. Consiglio soprattutto i Salmi di lamento, individuale, come i Salmi 31, 39, 130 e collettivo, come i Salmi 74, 79 e 80. E tanti altri…

 

 

Ecco colui che è amato. Ascoltatelo!

 

In questi giorni ho sentito qualcuno che, di fronte alla situazione difficile dl virus, mi ha detto: “questa è una croce che dobbiamo accettare”. Mi ha fatto pensare…certo, la sua intenzione era buona, ossia quella di vivere con pazienza e accettazione un fenomeno difficile da controllare e quindi assumere tutte le necessarie disposizioni, con onestà e lucidità.

Però mi sono anche chiesto: perché utilizza questa parola, croce? Che ha a che fare davvero la croce, come simbolo cristiano, con questa accettazione paziente? Il percorso della Quaresima vuol proprio aiutarci a fare questa scoperta, capire qual è il vero senso evangelico della croce, da non scambiare con certi frutti di carattere morale, certamente importanti, ma secondari. C’è un di più di mistero, che può davvero farci fare un passo decisivo in avanti in questi giorni impegnativi.

Le letture di questa domenica ci aiutano. Anzitutto il Vangelo della trasfigurazione ci fa comprendere che prima della sua passione e morte Gesù ha portato i suoi discepoli a fare esperienza della sua gloria, della luce straordinaria e misteriosa della sua persona. In questo modo li ha educati a comprendere che prima della sofferenza e della morte di Gesù in croce e quindi dentro quella stessa sofferenza e morte della croce, si esprime la gloria trasfigurante, trasformante. Si tratta quindi di una gloria che non si ferma in un istante, in un attimo, in una splendida rivelazione di un momento, ma che entra nella storia. Infatti quel mistero di gloria di cui i profeti di Israele, come Mosè e come Elia, avevano fatto esperienza sul monte, cammina nella storia, anche faticosa e difficile, del popolo e ora cammina nella storia di Gesù con i suoi discepoli, fino alla sua passione.

Ma di che gloria esattamente si tratta, quale mistero propriamente viene rivelato qui sul monte della trasfigurazione? Lo rivela la voce che esce dalla nube: “Questi è il mio figlio amato, ascoltatelo”. Si tratta della gloria di un Padre che dona il figlio, e di un figlio che, in obbedienza al Padre, si dona agli uomini. È un amore tra Padre e Figlio che è “costitutivamente” aperto all’altro, alla periferia, “in uscita” verso il mondo.

Cos’è allora la croce? È la forma che questo amore e questa donazione assume di fronte al rifiuto, alla chiusura del cuore, alla violenza, al capro espiatorio, frutto della paura e del male. Anche i capi ebrei avevano paura di Gesù, perché i disordini a Gerusalemme avrebbero potuto scatenare la repressione romana e la distruzione della città. Meglio che muoia solo un uomo per tutto il popolo. È il principio del capro espiatorio.  Dio lo prende su di sé e lo trasforma da dentro nella forma di un dono totale, che chiamiamo croce, ossia il dono del Figlio e del Padre.

La croce può ribaltare la paura: ci dona il senso di un Dio che è amore e si rivela tanto più in quanto la violenza si scarica su di lui. È la ferita del costato di Gesù che più si apre per la violenza inferta, più riversa su di noi sangue e acqua, che energie di amore, unità, pace. La croce diventa quindi segno di unità e non di divisione, fonte dell’unità è come dono dello Spirito, capace di generare un unità maggiore e più forte, perfino della morte.

In questo tempo come Abramo nella prima lettura ha ricevuto la chiamata a diventare benedizione per tutti i popoli, anche noi, attraverso il segno della croce, siamo chiamati ad essere segno di benedizione e di unità per gli altri. Ce n’è bisogno davvero e a tutti i livelli. Pensiamo come alle dinamiche della divisione e del capro espiatorio siano reali: di fronte ad un virus che non si controlla si da la colpa ora ai cinesi, ora agli italiani e poi toccherà a qualcun altro…sento dire di vicini che si lamentano e si giudicano per i propri comportamenti, quasi una caccia all’untore di manzoniana memoria. Anche questa è una dinamica di capro espiatorio che non ci aiuta. Viviamo piuttosto il frutto dell’unità attraverso il mistero della croce. Lo possiamo vivere nella preghiera di intercessione, gli uni per gli altri. Pensiamo soprattutto a chi è solo. Possiamo anche farci vivi, se non fisicamente, con una telefonata, un messaggio, per rincuorare e sostenere. Anche noi come parroci abbiamo deciso di farci vivi, nell’unità tra di noi, con la messa in streaming, con i video-omelia. E di tenere le Chiese aperte per la preghiera personale, con l’adorazione serale.

Perché la nostra unità e comunione sia più forte della paura e della solitudine!

Innaffiare la pianticella della speranza

 

 

Una bella pianta da giardino o da balcone, come l’ortensia o i gerani, ha bisogno di un po’ di terra e va innaffiata spesso. Se ci dimentichiamo, per qualche motivo, di innaffiarla, si appassisce presto e muore.

Così è anche della nostra speranza, della nostra attesa positiva e responsabile del futuro, se ci dimentichiamo di innaffiarla ogni giorno, e rimaniamo invischiati nei nostri pensieri negativi, nelle nostre paure, nei nostri pessimismi…anche questa speranza finisce per morire.

Così facevano anche Simeone e Anna. Benchè Anna fosse avanti nell’età, 84 anni, e aveva vissuto con il marito solo 7 anni, dopodichè almeno 60 anni di vita da vedova, una vita difficile, precaria, ma sempre rivolta a Dio. Non aveva mai perso la speranza, l’attesa, ogni giorno, fatta di piccoli atti rivolti a Dio, di fiducia nella provvidenza che ogni giorno non gli ha fatto mai mancare il necessario. Non si tratta solo di un attesa personale, ma anche di un attesa collettiva. Anna incarna tutta  Gerusalemme, che è come una vedova secondo il profeta Isaia, perché è stata abbandonata da Dio, ma ad un certo punto viene riscattata, ripresa, con amore infinito da Dio e ritrova tutti i suoi figli, cioè la sua speranza, il suo futuro. Quella di Anna e di Simeone è un’attesa personale, ma anche collettiva, di un popolo intero. E se non si sono mai rassegnati, è perché hanno sempre coltivato dentro di loro il rapporto con Dio, hanno ravvivato lo Spirito, che è in grado di suscitare questa attesa, e li ha condotti a scoprire questa speranza in un segno umile e piccolo: un bambino.

Quale speranza oggi, quale attesa? Che cosa ci attendiamo dal futuro? Le nostre sono le prime generazioni che sanno che, dal punto di vista della ricchezza e della sicurezza, probabilmente saranno meno garantite che nel passato. C’è la possibilità di ripiegarsi, di far prevalere le paure, le chiusure, in qualche modo di disperare.  Allora dobbiamo partire da una risorsa che non è materiale, ma spirituale, dal Signore Gesù, che anche oggi si fa carne nella nostra storia e ci invita e vedere nella semplicità di ogni giorno tanti segni di speranza. Ogni bambino che nasce è segno di una grande speranza per il futuro, personale e collettiva, è il segno di una fiducia in Dio, che non ha ancora abbandonato l’uomo.  Da qui dobbiamo rimotivare la nostra speranza, la speranza di una vita bella, ricca di amore, ricca di prospettive di crescita, di maturazione umana e personale.

Come per Simeone ed Anna nel Vangelo, la speranza del riscatto non è solo personale, ma diviene responsabilità collettiva, politica. Servono reti di speranza, tra famiglie, comunità cristiana, scuole, polisportive, con le amministrazioni e istituzioni, per camminare tutti insieme e costruire giorno dopo giorno prospettive concrete di maturazione, di crescita del valore umano, relazionale, culturale, spirituale e quindi anche economico.

Poi serve la responsabilità della politica a creare consenso e fiducia, non con gli slogan, ma creando percorsi credibili, che possano portare dei frutti per il futuro, soprattutto per i giovani e per il creato. Non chiediamo alle istituzioni il tutto subito, i miracoli, ma di innaffiare la pianticella della nostra speranza non con illusioni ma con piccoli passi coerenti con grandi orizzonti. Se noi oggi consumiamo tutte le risorse, economiche e ambientali, e non creiamo lavoro, opportunità, crescita sostenibile, cosa rimane per i nostri figli domani? Siamo o non siamo disponibili anche a qualche sacrificio oggi, purché sia fonte di percorsi di sviluppo coerenti e sostenibili per i nostri figli e nipoti?

Giovani e poveri: due scelte coraggiose per una parrocchia

Parrocchia crocifisso dei miracoli, via Umberto, pieno centro storico di Catania. Il titolo della parrocchia nasce da un immagine sacra del crocifisso, che situato lungo la strada, ha generato fin dai primi del novecento una devozione popolare. Essa è sempre stata amministrata dai gesuiti.

Oggi vi fanno riferimento non solo gli abitanti del territorio parrocchiale, circa 4000, ma anche molte persone che frequentano il centro storico, per lavoro o per la scuola dei figli, e che hanno scelto questa come la loro parrocchia di adozione. Ciò mostra, se mai vi fosse bisogno di ulteriori prove, che oggi la mobilità è, anche nei territori a forte tradizione culturale cristiana, come quello catanese, un elemento decisivo, che condiziona la scelta e l’appartenenza ad una comunità cristiana, sia essa di movimento/associazione o parrocchiale. La mobilità non va intesa solo in senso funzionale, ossia secondo la comodità del servizio alle persone, per orari e geografia, ma anche e soprattutto in senso vocazionale, ossia per il fatto che le persone sono disponibili a spostarsi, dove si sentono accolte e percepiscono un guadagno interiore e spirituale.

Si tratta indubbiamente di una comunità fortunata, per la presenza di 6 padri, di cui 5 sacerdoti, tra giovani e anziani, in grado di coprire una vasta gamma di attività pastorali, da quelle ordinarie, come le messe, le confessioni, i sacramenti e le visite agli anziani e ammalati, a quelle specifiche, come il cammino degli esercizi per le famiglie, gli evo (esercizi spirituali nella vita ordinaria) per i giovani, la pastorale giovanile e la catechesi con il Meg (Movimento eucaristico giovanile). Ogni settimana ci sono due diversi appuntamenti per la lectio divina (il lunedì sul vangelo domenicale, il venerdì come lectio continua di un libro biblico). Una volta al mese ci sono incontri per il discernimento spirituale. Accanto ai padri un buon numero di laici sembra coinvolto e partecipe, a vari livelli di protagonismo. Al cuore di tutta la pastorale emerge l’ascolto della Parola e il discernimento spirituale.

Due scelte mi sono sembrate particolarmente sagge e forti, per questa comunità, perché aprono un orizzonte pastorale che, come direbbe Papa Francesco, è di periferia. La prima scelta è stata quella di offrire alcuni spazi parrocchiali, almeno tre sale grandi, ai giovani studenti universitari (qui molto presenti per via dell’importanza dell’ateneo catanese), per lo studio. Un gruppo di circa 40/50 persone vi si ritrova abitualmente per studiare e fare pausa insieme e altri girano intorno e si aggregano. Una persona, uno dei padri, una sorella, qualche laico formato, sono disponibili per colloqui personali.

 

L’altra scelta è quella di aver aperto un ulteriore spazio per la mensa e per il dormitorio dei persone senza fissa dimora, chiamato Spazio Erwin, dal nome di un clochard morto assiderato in pieno inverno nei pressi della parrocchia.

Giovani universitari e poveri: i primi se ne andranno al termine dell’università, i secondi passano e vanno a seconda delle necessità e della possibilità di trovare un lavoro e uscire dalla marginalità. Sembrerebbe quindi un dare senza alcun ritorno per la comunità parrocchiale… invece il guadagno è enorme. Si tratta di periferie, ossia di luoghi in cui si può incontrare la vita, nel suo sorgere e formarsi e anche nel suo ferirsi, nella passione per il futuro e anche nella passione della fragilità. In questi luoghi, in cui pulsa la vita, la comunità è chiamata a stare e ad accompagnare. A stare per interpretare il proprio essere comunità cristiana, chiamata a seguire Cristo nelle periferie e nelle ferite della città. Ad accompagnare per favorire l’incontro con Cristo, la guarigione del cuore, le scelte secondo Dio.

Credo che oggi ogni comunità cristiana e specialmente quelle parrocchiali, sono chiamate a questo discernimento e a questo coraggio. Se una periferia è presente, visibile, accanto alla porta della parrocchia, sia essa di giovani, poveri, immigrati, famiglie ecc. si tratta di capire come “starci”. Ma per starci bisogna “darsi” e “dare” spazi, tempi, risorse, accettando anche di affrontare la contrarietà di chi vuole che tutto funzioni come si è sempre fatto e non avere troppi problemi…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Katanè

 

Katanè è il nome greco di Catania.

L’origine greca di Catania è ancor oggi evidente nella città. Se si percorre la via etnea verso piazza duomo, con alle spalle il colosso dell’Etna che fa capolino dietro ai palazzi, ad un certo punto si arriva a piazza Stesicoro, dove un ampio anfiteatro compare all’improvviso sotto il livello della strada. Proseguendo attraverso via dei crociferi, con tante belle Chiese barocche, si giunge lungo via Vittorio Emanuele al teatro greco. Vi si accede pagando il biglietto. Ne vale la pena: si tratta di una stratificazione che corre lungo 5 secoli, dall’epoca ellenistica al tardo impero romano, con successivi ampliamenti, ma ancora in gran parte integra.

 

Secoli di storia separano queste opere dal celebre castello Ursino, costruito da Federico II di Svevia, e abitato dai cadetti aragonesi negli anni del dominio spagnolo, dal XIII secolo fino alla fine del medioevo e oltre. La costruzione è davvero imponente, le sale sono ampie e caratterizzata da una mostra permanente sia di materiale storico catanese (dalle anfore greche alla numismatica romana) sia di pittori importanti, per la gran parte imitatori cinque-seicenteschi del Caravaggio.  I palazzi più belli appartengono all’Università, una delle più antiche d’Italia, fondata dai re aragonesi nel XV secolo: mi riferisco soprattutto alla splendida Villa Cerami, dove si trova la facoltà di giurisprudenza e al fastoso complesso dell’abbazia benedettina, ora sede di varie facoltà universitarie.

 

Passeggiando in questo periodo per piazza duomo, potrebbe accadervi di vedere una “candelora“: si tratta di imponenti steli fiorite, arricchite di simboli religiosi e statue di santi, che camminano lentamente, accompagnate da bande che suonano musiche, non sempre di tipo religioso. Nel periodo di Sant’Agata infatti, ossia da fine gennaio per tutto il mese di febbraio, la città celebra la sua grande patrona, la martire sant’Agata, iniziando con le candelore, e proseguendo con una processione che percorre nell’arco di più giorni tutta la città, con la statua della martire. Se le candelore sono eventi civili e gestiti dal comune, attraverso la collaborazione delle “corporazioni” (fiorai, macellai, falegnami ecc.), invece la processione è gestita dalla Diocesi e coinvolge le parrocchie del centro. C’è grande afflusso di gente e forte devozione, in qualche caso da purificare: qualche anno fa il parroco della cattedrale ha impedito che i portatori facessero di corso la via San Giuliano in salita, gesto tradizionale ma fortemente pericoloso. Ne seguirono grandi proteste e forti resistenze, soprattutto da alcune “famiglie”.  Ogni palazzo importante o Chiesa, alla finestre o al balcone, mostra uno stendardo rosso con la lettera A, iniziale di Agata.  Difficile capire quanto vi sia di sincero e genuino in questa devozione popolare. In alcuni tratti può infastidire e sembrare eccessiva. In realtà si tratta di uno straordinario patrimonio di religiosità “naturale”, che va accolto, integrato e trasformato dall’annuncio del Vangelo, in ogni stagione della storia.

 

Dentro al duomo mi ha colpito il feretro del beato cardinale Dusmet, che è stato vescovo di Catania nel XIX secolo. Egli veniva dal monachesimo benedettino, e ha amato profondamente il suo popolo e il suo presbiterio, riformandone i costumi, a partire da una rigorosa testimonianza di ascesi personale. Ancora oggi è celebrato e amato dai catanesi, che lo chiamano affettuosamente in dialetto, lo “sdummet”.

Tutto a Catania fa pensare ad una fede incarnata nella storia, con tanti ordini religiosi presenti, i Benedettini, i francescani, i gesuiti e più recentemente i salesiani, che hanno lasciato testimonianze d’arte e cultura, ma che ordinariamente non sono più presenti in questi palazzi simbolo del loro fasto. Ciò fa pensare ai cicli di ascesa e decadimento che vi sono nelle varie epoche del cristianesimo e come l’avventura della fede sia davvero da ricominciare ogni volta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quartiere Librino

Catania, quartiere Librino, situato a sud-ovest della città, avrebbe dovuto essere, nell’intenzione urbanistica originaria, un modello di pianificazione e di edilizia popolare, con grandi strutture condominiali e ampie aree verdi. Progettato nel 1970 da un architetto giapponese, Kenzo Tange, in modo da diventare un quartiere funzionante e indipendente dal centro di Catania, con tutti i servizi necessari, poi in realtà si è trasformato, dopo alcuni decenni, in una periferia degradata, come è accaduto in altri quartiere di grandi città Italiane, come Scampia a Napoli.

I motivi per cui ciò che dovrebbe essere modello di sviluppo diviene poi emblema di degrado sono profondi e radicati non solo in carenze di programmazione urbanistica e politica, ma anche in una cultura dominante, che si accontenta del controllo del territorio e non lavora per la sua trasformazione positiva. Ciò che i palazzi dicono, con la corrosione dei loro pilastri, da cui emergono alla luce i cavi arrugginiti di acciaio, con i vani delle condutture fognarie aperti in vari tratti, con le aree verdi incolte e piene di rifiuti bruciati, con il campetto da calcio inutilizzato e con l’erba altissima… ciò che questi palazzi ci dicono è una cultura in cui marginalità sociale e arretratezza economica impediscono di aspirare a quel decoro, che è segno di una cultura che tiene a sé stessa, al proprio ambiente e lo vuole bello.  Appartamenti occupati, ragazzi che girano, a piedi o con i motorini, apparentemente senza un lavoro, sguardi che dalle finestre occhieggiano agli estranei con un implicita domanda: “che fai qui? Cosa vuoi o cerchi?”, lasciano immaginare un controllo per ricavare risorse e denaro attraverso attività che nulla hanno a che fare con uno sviluppo ordinato del territorio. Commercio di droga con aggravante di metodo mafioso: così l’ordinanza cautelare del GIP che a luglio 2019 ha portato i carabinieri ad arrestare 25 persone appartenenti ad un clan, proprio in questo quartiere.

Ma ciò più rattrista è  l’assenza dei servizi: non un bar come si deve, non un centro dove gli anziani possano trovarsi per giocare a carte, non un parco dove i bambini possano giocare: certo qualche area verde c’è, ma con l’erba alta e con la spazzatura gettata a mucchi. Non un supermercato, non una farmacia, in mezzo a palazzi che possono contare forse anche un migliaio di residenti…non un ufficio postale, non una stazione dei carabinieri…almeno non vicino.  E la Chiesa? Quella si c’è. Ma forse sarebbe meglio non ci fosse: l’edificio, un prefabbricato, appare sciatto, grigio, triste: non un immagine, non una statua, non una pianta ad abbellire la Chiesa e il suo cortile di cemento…

Sembra che la parrocchia non abbia neppure dei locali, dove poter fare attività…la Chiesa così investe sulle sue periferie, proprio li dove dovrebbe essere più presente? Proprio li dove dovrebbe sorgere il sole di Gesù, nelle tenebre di tanta gente disorientata, di tanti bambini che crescono in questo contesto sociale e non possono immaginare qualcosa di diverso?  Ci sarebbe tanto da fare qui…dov’è la Chiesa? Dove siamo? Chi annuncia Gesù a questa gente? Chi indica una speranza, una possibilità di riscatto, di vita buona, felice, onesta? Chi offre una prospettiva a questi bambini, adolescenti, giovani, facile preda di guadagni disonesti?

Mentre con padre Gianni ci confrontavamo su queste cose, nel mio cuore si agitavano domande, desideri, quasi un grido: Gesù tu sei la luce che illumina, anche qui. Fa che qualcuno ti porti, nel cuore che ama e nelle mani che servono…

 

 

 

 

 

 

La luce vince le tenebre

 

 

Le tenebre, come chiusura e mancanza di speranza, non sono solo uno stato del nostro cuore, di mancanza, di vuoto, ma anche una potenza attiva nel mondo, che causa ostilità, guerra, tenebra appunto. Pensate solamente in questi giorni alla guerra che è ripresa tra Iran e Stati Uniti, come in pochi anni si sia interrotto un processo di pace e di denuclearizzazione e come la strategia militare, da una parte all’altra abbia preso il sopravvento.

Di fronte ad un mondo così, siamo costretti a riconoscere che le tenebre sono davvero una forza attiva nel mondo.

Contro le tenebre vi è però la luce della vita, che è più forte della morte, perché essa illumina ogni uomo e le tenebre non l’hanno vinta, ci dice il prologo del Vangelo di Giovanni. Cosa vuol dire questa frase così sintetica e potente ma anche misteriosa? Vuol dire che al cuore della creazione, di ogni particella di materia, del cosmo, della natura vivente e dell’uomo c’è una sapienza, che è parola, vita e luce. Dio ha parlato fin dall’inizio e la sua parola è azione, processo, creazione, vita, e al contempo luce, più forte delle tenebre, perché essa è originaria. Qui non si parla tanto della luce creata, della luce del sole, per intenderci, che è un simbolo. Piuttosto si parla della luce come quella caratteristica di Dio che vince il caos originario del nulla, delle tenebre, e che è portatrice di essere e di vita.

Allora certo che le tenebre sono anche una potenza attiva nel mondo, un male all’opera che porta con sé la morte, ma la luce, essendo una parola originaria di Dio è più potente e le vince. Noi poi siamo testimoni del fatto che questa luce della Parola si fa carne, entra nella nostra vita umana. Essa ha abitato prima in un tempio di tende nel deserto, poi nel tempio di pietre a Gerusalemme, poi in un tempio di corpo umano, il corpo stesso di una persona, di Gesù di Nazareth. In lui noi tutti riceviamo quella luce originaria che è in grado di sconfiggere le tenebre nel nostro cuore, e veniamo trasformati nella sua immagine luminosa, come ci dice la lettera agli efesini: “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato.”

Abbiamo dunque in lui la possibilità di sconfiggere definitivamente le tenebre del nostro cuore: le tenebre della fatica che diventa scoraggiamento, della delusione e addirittura pessimismo e rassegnazione. Fino a chiudersi nell’egoismo e in atteggiamenti autoconsolatori. Il cristiano non si rassegna mai, perché la luce che è nel suo cuore, è una risorsa infinita, che, di fronte alla sfida delle tenebre, lo trasforma sempre più ad immagine del Cristo stesso.  Noi abbiamo un’eredità, l’eredità che è il nostro essere Figli, che ci spinge ad abbandonarci sempre più al Padre, senza timori e ogni volta con maggiore convinzione e determinazione.

Mi viene un esempio: il babbo di Greta Thunberg ha testimoniato che Greta prima di iniziare il suo sciopero scolastico per l’ambiente soffriva fortemente per la sua forma di autismo lieve. Aveva una sorta di depressione, di buio, di tenebra nel cuore: è stato a quel punto che, misteriosamente, una luce ha brillato nel suo cuore e l’ha portata a sentire in sé la potenza, la luce, la forza che ha aperto in lei una nuova missione. Così accade quando Dio agisce: nel cuore dei poveri, dei piccoli, di coloro che si sentono esclusi Dio agisce trasformando le tenebre in luce e creando testimoni di luce. Così accade anche in ciascuno di noi, con la potenza della fede.

Ce lo dice sempre, con parole bellissime la lettera agli efesini: “vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi.”

 

 

Il Natale per Francesca, Giovanni, Ernesto e Pasqualina (Omelia notte Natale)

Nelle trame sfilacciate delle nostre esistenze familiari c’è ancora la possibilità di sentirsi comunità, se ritroviamo nella nostra fede, radicata nella saggezza degli anziani, implicita nel desiderio e nel cammino dei giovani, riscoperta come novità dagli adulti, ciò che ci rende uniti, che ci rende popolo. Si tratta di un popolo che, come i pastori al tempo di Gesù, con la concreta umiltà del suo cammino, testimonia l’attesa del messia Gesù ed è in grado di accoglierlo anche oggi. Questa umiltà è proprio la mangiatoia in cui il bambino viene ad abitare e ad alimentarci con l’amore di Dio. Questa umiltà è ciò che regge le sorti del Paese e ci fa ben sperare per il nostro futuro!

 

 

Vorrei descrivere questo Natale con gli occhi di Francesca, Giovanni, Ernesto e Pasqualina. Francesca è un’adolescente di 14 anni, che in questi mesi, oltre a sognare un futuro come ballerina di danza classica – si allena infatti tutti i pomeriggi ed è un impegno notevole che si aggiunge a quello della scuola superiore che ha appena iniziato – ha anche incominciato ad interessarsi al futuro del mondo e si è impegnata a scendere in piazza in alcuni venerdì dell’anno, non per perdere la scuola, ma per costruire insieme ad altri giovani, come dice lei, una possibilità di sopravvivenza all’umanità del futuro. Francesca frequenta la parrocchia in un gruppo di ragazzi della sua età: nonostante non abbia ancora tutte le idee chiare su Dio, sente che quella parte di sé che lei chiama Dio la porta ad aprirsi agli altri e a dare il meglio di sé.

Giovanni è un giovane di 23 anni. Sta facendo un erasmus in Svezia ed è molto contento di poter imparare meglio l’inglese e conoscere una realtà diversa dalla sua. Nonostante quest’anno sia stato fuori dall’Italia, mantiene molti contatti con i suoi amici e si aggiorna costantemente su ciò che accade in Italia. Infatti non vorrebbe rimanere all’estero, ma desidera poter spendere le sue competenze per servire il proprio Paese. Assieme a tanti giovani coetanei e anche più grandi di lui sogna un Paese dove le competenze e lo studio vengano premiati e dove chi ha responsabilità politiche sia sobrio e puntuale nelle sue dichiarazioni e preparato per le grandi e complesse sfide della nostra società. La fede è per lui un combattimento quotidiano, tra mille dubbi, e con un rapporto ormai un po’ distante dalla comunità parrocchiale frequentata da adolescente.

Ernesto è un uomo sposato, di 55 anni, che lavora come impiegato e riesce a dedicare parte del suo tempo, tra i figli, la famiglia e il lavoro, per la sua passione: il servizio delle famiglie e persone povere nella Caritas parrocchiale. Dopo anni di preparazione, ha ricevuto il ministero del diaconato e ha spinto i parroci, nella sua zona pastorale, ad offrire una delle vuote canoniche della zona ad una famiglia di siriani immigrati in Italia, di religione islamica. Nonostante le proteste di alcune teste calde del paesino dove era situata la canonica, la famiglia siriana si è ben integrata e i bambini hanno cominciato ad imparare l’italiano e ad andare a scuola, grazie anche ad un servizio di volontari, coordinati da Ernesto, che hanno accompagnato i primi passi e favorito l’inserimento della famiglia  nel paese. Ernesto sente che per trasmettere la fede ai propri figli è necessario anzitutto testimoniarla, più con le opere che con le parole, e con uno stile di gratuità e servizio intelligente ai più poveri.

Pasqualina è una nonna, anzi bisnonna, di 86 anni. Nonostante gli inevitabili acciacchi, conserva uno spirito vigile e la parola pronta. In gioventù ha studiato poco, a causa della guerra, ma la sua intelligenza si è nutrita di una costante riflessione a partire dalla vita. Con una battuta sa fotografare persone e situazioni, ed è in grado di dare buoni consigli a figli e nipoti. In particolare, visto che ormai di forza fisica ne ha poca, la sua principale missione è pregare: per la fede dei figli e nipoti, per i bambini poveri del mondo, per le nazioni che vivono in guerra. È una riserva di saggezza e spiritualità e con la sua presenza tiene unite famiglie e generazioni di figli e nipoti, che durante le feste di Natale si ritrovano con lei.

A Natale nonne come Pasqualina, giovani come Francesca e Giovanni e adulti come Ernesto possono ritrovarsi insieme e sentire che nei loro sforzi e desideri quotidiani non sono soli, ma appartengono ad una famiglia allargata, ad una comunità che cammina insieme. Nelle trame sfilacciate delle nostre esistenze familiari c’è ancora la possibilità di sentirsi comunità, se ritroviamo nella nostra fede, radicata nella saggezza degli anziani, implicita nel desiderio e nel cammino dei giovani, riscoperta come novità dagli adulti, ciò che ci rende uniti, che ci rende popolo. Si tratta di un popolo che, come i pastori al tempo di Gesù, con la concreta umiltà del suo cammino, testimonia l’attesa del messia Gesù ed è in grado di accoglierlo anche oggi. Questa umiltà è proprio la mangiatoia in cui il bambino viene ad abitare e ad alimentarci con l’amore di Dio. Questa umiltà è ciò che regge le sorti del Paese e ci fa ben sperare per il nostro futuro!

Giuseppe e la cultura dell’onore, Omelia IV Avvento

 

 

In tutte le epoche di decadenza, la società perde la capacità di elaborare culturalmente il rapporto tra l’uomo e la donna ed emergono gli istinti peggiori, spesso perfino giustificati da apparenti ragioni culturali. Quando oggi molti italiani ritengono che la violenza sessuale sulle donne è dovuta agli abbigliamenti provocanti delle donne stesse, siamo dentro a questa giustificazione assurda propria di una cultura decadente, in cui il rapporto uomo-donna si gioca sul dominio e sulla violenza. Paradossalmente si tratta di un segno di enorme debolezza dell’uomo, che si sente minacciato dal protagonismo e dalla libertà della donna, dalla sua capacità di pensare e progettare in autonomia, dal fascino e dal potere che essa esercita e che mette in discussione il suo “onore” maschile e quindi non trova altra via che riaffermarlo con la violenza, fisica o morale. Quante donne ancora oggi accettano di vivere per anni rapporti in cui sono vittime dell’egoismo e della possessività dei loro partner! Quante donne ancora oggi accettano di passare attraverso degradanti servizi al potente di turno, pur di avere in cambio un’opportunità di ascesa sociale e lavorativa! Per poi magari metterlo alla berlina dopo anni…Tutto questo oggi sembra non lenito ma acuito da una crisi dell’uomo, da un senso di inferiorità latente che si traduce in una riaffermazione violenta.

Credo che gli uomini di oggi possano guardare a Giuseppe, per ritrovare il vero senso e la vera vocazione dell’essere uomo.  Giuseppe è ben lontano da una cultura dell’ “onore”, frutto dell’orgoglio e di un malinteso senso di superiorità e di dominio. Di per sé la legge di Mosé era molto restrittiva: considerando l’adulterio come una rottura del legame stesso di Alleanza con Dio, prevedeva la lapidazione degli adulteri. Quindi un uomo offeso nel suo onore avrebbe trovato di che soddisfare gli impulsi di un orgoglio ferito. Ma Giuseppe, come dice il Vangelo di Matteo, era uomo giusto, ossia un uomo che sapeva bene che la Legge di per sé non basta a ordinare la vita, perché la si deve interpretare e incarnare nelle circostanze della vita, con l’amore. Essa infatti è anzitutto un segno di amore, di tenerezza, di scelta preferenziale da parte di Dio, sposo, nei confronti di Israele, sua sposa.

Giuseppe trova nella stessa Legge gli anticorpi per vincere una cultura dell’”onore”, che non rispondeva all’amore ma all’orgoglio ferito, che avrebbe potuto “strumentalizzare” la Legge, per affermare una propria superiorità. Egli non intende esporre Maria pubblicamente, ma pensa di gestire le cose per salvaguardare la sua vita, con tenerezza, tutto in segreto. La famiglia avrebbe potuto tenere nascosta la cosa e attribuire il bambino ad una delle sorelle, già sposate…forse avrà pensato che si sarebbe potuto trattare di una violenza e Maria poteva non avere alcune colpa… forse se ci sarà stato dialogo tra i due…o più probabilmente no, perché in quella cultura non c’era davvero possibilità di dialogo intimo e personale, tra un uomo e una donna, prima che andassero a vivere insieme. Giuseppe probabilmente non aveva alcuna possibilità di chiarire bene la causa e l’eventuale colpevolezza o meno di Maria.  Una parola imbarazzata sarà corsa di bocca in bocca fino ad arrivare a Giuseppe, e lui, accertatosi meglio della cosa, avrà cominciato a ragionare in questo modo, con una certa angoscia, ma anche con grande delicatezza e sensibilità verso questa giovanissima donna, che ancora non conosceva, lui giovane uomo, ma già grande di animo.

 

È in questo contesto di angoscia, ma anche di grande rispetto e pudore, che Giuseppe riceve la comunicazione dell’angelo in sogno. Come il suo predecessore, patriarca, Giuseppe, uomo dei sogni, anche lui è in grado di interpretare, attraverso i propri sogni tracce di desiderio profondo, che lo conducono a conoscere il disegno di Dio. Lui voleva una famiglia, un figlio, sognava una felicità domestica e Dio gli risponde, affidandogli un Figlio che, pur non essendo il suo, diverrà inequivocabilmente anche il suo.

In Maria Giuseppe è invitato a cogliere la libertà di un disegno che appartiene a Dio stesso. Egli è in grado di mettere da parte il proprio “onore”, per valorizzare il particolare “carisma” della donna, che lungi dal togliere a lui una paternità, gliene darà una ancora più bella e piena.

Gesù, il messia Figlio di Dio, avrà qualcosa di Giuseppe, suo babbo umano. Imparerà da lui ad essere un uomo giusto, ad amare con delicatezza le donne, specialmente quelle più deboli, tormentate, possedute, perse. Per restituirle alla loro dignità di donne.

Lettura popolare per immacolata concezione

 

 

Lc 1,26-38

L’Annunciazione

Il messaggio nel contesto

 

IMPORTANTE: questa breve contestualizzazione e spiegazione del brano evangelico serve da preparazione remota per l’accompagnatore, prima dell’incontro. Si tratta di mettersi in preghiera personalmente, leggere il brano evangelico e poi approfondirlo con attenzione. Le considerazioni svolte sotto non sono da ripetere”  ai partecipanti, ma da tenere presente durante l’incontro.

La visita dell’Arcangelo Gabriele a Maria evoca le visite di Dio a diverse donne dell’AT : Sara, madre di Isacco (Gen 18,9-15); Anna, madre di Samuele (1 Sam 1,9-18) e la madre di Sansone (Gde 13,2-5). A tutte loro fu annunziata la nascita di un figlio con una missione importante da realizzare inserita nel piano salvifico di Dio.

La narrazione inizia con la menzione temporale del “sesto mese”: il racconto dell’annunciazione intende agganciarsi al precedente episodio che ha per protagonista Zaccaria ed Elisabetta Il “sesto mese” è infatti riferito al mese di gravidanza di Elisabetta, una donna in età avanzata che ancora aspetta il suo primo figlio. Elisabetta è menzionata all’inizio del brano (Lc 1,26) e alla fine della visita dell’angelo (Lc 1,36-39). Anche l’invio dell’angelo Gabriele richiama quanto accaduto a Zaccaria (v. 26). Cambia però lo scenario: non siamo più nel tempio di Gerusalemme ma in una borgata semisconosciuta della Galilea, totalmente ignota all’Antico Testamento, Nazareth. L’angelo appare ad una giovane donna, definita vergine e insieme promessa sposa, condizione particolare di quelle ragazze tra i 12 e i 15 anni che, pur avendo stipulato un contratto di matrimonio, non sono ancora andate a convivere col marito e pertanto sono in condizione di verginità. Il marito, Giuseppe, è della famiglia di Davide, cosa che rende possibile, legalmente, la discendenza del nascituro dalla stirpe regale da cui germoglierà il messia (cf.  Is 7,14). L’angelo saluta Maria con l’imperativo: “Rallegrati”, che non corrisponde al normale saluto ebraico (shalom: pace).  Esso riprende infatti l’invito di Dio nell’AT rivolto alla figlia di Sion (Gerusalemme) di gioire per la salvezza operata da Dio in modo inaspettato nel giorno del suo intervento (cf. Sof 3,14). L’espressione “piena di grazia” viene da un verbo (charitòo) che indica il risultato di una trasformazione, resa possibile dallo sguardo di favore e di amore di Dio.  Dio l’ha vista bella e questa bellezza l’ha pienamente trasformata e colmata. Anche il saluto dell’angelo: “il Signore è con te” richiama racconti di vocazione di importanti personaggi della storia della salvezza (cf. Gn 26,3.24; Gn 28,15; Es 3,12; Gdc 6,12). Come già Zaccaria, anche Maria è turbata, ma non dalla visione dell’angelo, bensì dalle sue parole. Essa, infatti, è pronta a chiedersi il significato di un così eccezionale saluto. L’angelo la invita alla fiducia: “Non temere” e le dice che “ha trovato grazia presso Dio” (v. 30). Questa grazia trasformante è in vista del meraviglioso evento del concepimento verginale (v. 31). Questo bambino si chiamerà Gesù e al contempo sarà chiamato figlio dell’Altissimo (v. 32). Tale particolare duplice identità viene descritta sia come compimento della profezia riguardante il messia davidico (v. 32-33), destinato a governare per sempre sul trono di Davide e sia come rivelazione del Figlio di Dio (v. 34-35) per opera dello Spirito Santo.

Questa potenza infatti viene su di lei con una presenza gloriosa, simile a quella della nube sul monte Sinai (cf. Es 40,35). Quest’ultima spiegazione dell’angelo è una risposta alla domanda di Maria (v. 34), che non va interpretata come un’obiezione ma come una richiesta di maggiore comprensione, a causa dell’ostacolo della verginità. Per il narratore ciò che importa è sottolineare l’onnipotenza di Dio nel contrasto tra il concepimento della sterile Elisabetta (v. 37) e il ben più straordinario segno del concepimento di una vergine. Risalta dunque maggiormente la differenza tra l’incredulità di Zaccaria, che si scandalizza del messaggio dell’angelo, e la fede di Maria, aperta a comprendere la Parola di Dio e disposta a far sì che essa si compia in lei (v. 38).

 

 

 

 

 

 

Come realizzare concretamente l’incontro?

 

Collocazione spaziale: è bene curare particolarmente la collocazione spaziale dei partecipanti all’incontro. È opportuno scegliere configurazioni geometriche che favoriscano la percezione dei partecipanti di trovarsi coinvolti allo stesso livello e senza distinzioni gerarchiche con gli accompagnatori (meglio un cerchio di sedie che un tavolo “da relatore” con le file di sedie davanti)

 

durata: 1h (tutte le indicazioni temporali sono puramente indicative dei rapporti che dovrebbero stabilirsi tra le fasi dell’incontro, ma non sono da prendere alla lettera)

 

  1. Ricordiamo la vita.  Nella mia vita c’è presenza di gioia, ma anche di dubbi. Mi esercito a fare della buone domande a Dio? Sono capace di ascoltare quando qualcuno mi pone delle domande?(15 minuti)

 

Questa domanda ha l’obiettivo di coinvolgere i partecipanti al gruppo di preghiera a partire dalla loro vita. Deve essere posta in modo molto informale e quasi naturale, come se l’incontro non fosse ancora iniziato realmente. L’accompagnatore sa invece che con questa domanda i partecipanti iniziano a condividere le loro esperienze dentro al contesto interpretativo del racconto evangelico.

 

  1. Leggere con attenzione il brano del Vangelo (almeno due volte) e soffermarsi su una parola che colpisce:  Lc 1,26-38 (10 minuti)

 

La lettura può essere condivisa, un versetto a testa, perchè il tesoro della parola sia concretamente partecipato da tutti, allo stesso livello. Poi si danno cinque minuti per scegliere una parola che colpisce l’attenzione e la curiosità di ciascuna persona e per condividerla, uno dopo l’altro.

 

 

  1. Iniziare un dialogo un pò più approfondito a partire dalla lettura (30 min)

Partendo dalla condivisione della parola si può invitare qualcuno, che sembra un pò più estroverso e a suo agio nel gruppo, ad esplicitare il “perchè” ha scelto quella parola. A questo punto si aiutano anche gli altri, ponendo delle domande, a condividere le loro impressioni e valutazioni.

Alcune domande possono essere poste, senza pretendere di seguire un ordine logico preciso, ma seguendo le intuzioni condivise dai partecipanti.

Può essere utile partire da domande riguardanti luoghi, personaggi, verbi. Si tratta non solo di aiutarli a comprendere il testo, ma anche a condividere la loro vita, identificandosi nei personaggi.

Ecco uno schema possibile di domande:

 

  • Quale tempo e luogo?

Siamo nel sesto mese dall’apparizione dell’angelo a Zaccaria.  Le due scene sono dunque collegate, anche per contrasto. Il tempio di Gerusalemme contrasta con l’ignota Nazareth così come un umile adolescente con il sacerdote Zaccaria nell’esercizio delle sue funzioni. La Parola di Dio si compie nelle “periferie” nascoste ed umili. Nella mia vita coltivo una mentalità legata al potere umano o sono disposto ad accogliere un Dio che si rivela nell’umiltà e nel nascondimento?

  • Come agiscono i personaggi?

-L’angelo saluta Maria con espressioni legate all’AT. Essa rappresenta la figlia di Sion, trasformata e colmata dalla grazia di Dio. Sento anch’io su di me lo sguardo di Dio che mi dona favore e bellezza? C’è in me la consapevolezza di un progetto misterioso e originario, che riguarda anche la mia persona? Sento la gioia di un dono di Dio che si rinnova nella mia vita ogni giorno?Sono capace di pregare fidandomi di Dio, senza chiedere un segno?

-Il turbamento di Maria indica la straordinaria grandezza della Parola di Dio in rapporto alla creatura umana. La sua domanda all’angelo indica anche la disponibilità a comprendere una Parola che oltrepassa i limiti della natura. Turbamento di fronte alle sfide della vita, ma anche  disponibilità a mettersi in ascolto di Dio: mi ritrovo in questo atteggiamento di Maria o mi lascio travolgere da preoccupazione e percezione di disordine e disorientamento?La paura di ciò che scopro di fronte a me accentua la mia attenzione verso questa nuova circostanza o mi porta a fuggire in altre direzioni?Ho timore di ciò che non conosco o mi fermo a guardare ed ascoltare per capire cosa di nuovo ho di fronte?

 

  • Quale rivelazione è qui contenuta? Nella trama dell’umanità si compie la Parola di Dio. Gesù, uomo della stirpe di Davide, è anche il Figlio di Dio per opera dello Spirito Santo. Sono consapevole che anche nella mia umanità, umile e peccatrice, prende carne la Parola di Dio, sul modello del Figlio?Sono consapevole di essere uno strumento nelle mani di Dio? Lo lascio operare in me oppure mi chiudo nella mia paura?

 

 

 

Condivisione della vita nella preghiera (5/10 min). L’ultimo passo, dopo la condivisione della vita, è invitare ad una breve preghiera, magari formulata inizialmente dall’accompagnatore. Qualche minuto di silenzio può autare a far risuonare la vita e la Parola condivise e raccogliere alcuni elementi che possono essere stimoli per una preghiera. Il partecipante che non intende pregare sentirà comunque che la propria condivisione è stata ascoltata e che la sua vita è stata messa davanti a Dio nella preghiera di altre persone.