Il fiume della vita (Domenica della misericordia, II Pasqua)

Il Signore offre segni perché i discepoli possano riconoscerlo. In effetti la sua presenza di risorto è talmente nuova e imprevedibile che sono necessari alcuni segni per aiutare i discepoli ad indentificarlo. Gesù compare a porte chiuse e senza alcun preavviso. Dopo la scioccante vicenda della sua morte in croce nessuno dei discepoli poteva facilmente pensare che si trattasse di Gesù e per questo egli offre i segni delle mani e del fianco, ossia le sue ferite dei chiodi alle mani e la sua trafittura nel fianco. Solo a questo punto, ci dice l’evangelista, i discepoli gioirono al vedere il Signore, ossia lo riconoscono come Gesù, il messia che era stato crocifisso e insieme, con gioia, sentono che lui è lì con loro, vivo: quelle piaghe non dicono più morte e dolore, ma vita e gioia. E lui viene riconosciuto come il Signore della vita.

Lo stesso Tommaso, non presente al primo incontro, chiederà di fare l’esperienza di quelle piaghe, per poter riconoscere Gesù e credere in Lui, con la più bella confessione di fede che vi sia nel Nuovo Testamento: “mio Signore e mio Dio”.

Proprio riflettendo su questo mistero del suo corpo risorto, delle sue piaghe e del costato trafitto da cui sono usciti sangue ed acqua, la prima lettera di Giovanni afferma che Gesù non è venuto soltanto con acqua, ma con acqua e con sangue. Ossia l’acqua dello Spirito Santo ci viene donata mediante il suo corpo, la sua vita umana, donata per noi in sacrificio sulla croce (sangue). Per dirlo ancora più esattamente: l’acqua della vita divina, dell’amore di Dio, che è il suo Spirito, viene nella carne umana, nella concreta esistenza storica di Gesù di Nazareth, che ha dato la vita per noi, simbolizzate come sangue.

Acqua e sangue sono quindi le caratteristiche della misericordia di Dio. Non a caso in questa domenica l’immagine della divina misericordia presenta i due raggi, azzurro e rosso, che scaturiscono dal fianco di Gesù. è il suo cuore, la sua umanità che donandosi per noi totalmente sulla croce (rosso), ci trasmette la potenza divina del Suo Spirito, la vita di Dio stesso (azzurro), che ci alimenta nelle difficoltà e nelle fatiche umane. La misericordia non ha quindi nulla a che fare con la compassione, essa non è un sentimento che Dio prova dall’alto del suo trono inaccessibile ma è un patire, un soffrire con noi per donarci la vita.

Cerchiamo di essere più concreti, per capire meglio.

Se chiediamo a Lui qualche segno della sua resurrezione, in una situazione di paura come quella che stiamo vivendo a causa della pandemia, egli non ci darà alcun segno, ma ci darà il coraggio dentro alle nostre paure, una più profonda sicurezza e letizia che vengono da lui, per stare in piedi dentro alle difficoltà. Ci darà l’acqua della speranza nel sangue della nostra umanità chiusa dentro le sue paure.

Se chiediamo a Lui qualche segno della sua resurrezione, in un contesto di conflitti e contraddizioni che viviamo in famiglia o al lavoro, il Signore non ci regalerà la fine magica di ogni conflitto, ma sentiremo la forza e avremo la luce per “accarezzare” il conflitto, starci dentro sapendo trarre il bene possibile da quella situazione, senza illuderci di poter cambiare le persone. Ci darà un’acqua di vita dentro al sangue della carne umana, con i suoi inevitabili limiti.

Se chiediamo a Lui la forza di continuare ad andare avanti, dentro alla percezione di fragilità e vulnerabilità della nostra vita, allora lui ci darà certamente la forza per amare di più, e cioè per trasformare la nostra fragilità, in una potenza di empatia e di comprensione per la fragilità altrui. Questa è l’onnipotenza dell’amore: non è la realtà impossibile di chi crede di non avere punti deboli, è piuttosto la trasformazione della debolezza in una forza più grande, questa sì, davvero onnipotente, la forza di amare e donarci agli altri in questo amore. Ancora una volta è lo spirito d’amore (l’acqua) che scaturisce dalla nostra debolezza (il sangue).

Essi così si uniscono e mescolano in un unico fiume di vita che non ha più confini né separazioni e che ci bagna e trasforma, e trasformandoci ci trasporta e invia dove lui stesso vuole arrivare!  

Domenica della misericordia (Gv 20,19-31)

I discepoli si trovano a porte chiuse, per paura di fare la stessa fine del maestro. Possiamo immaginare la loro casa e la loro vita fatta dei gesti di ogni giorno, come svuotati di senso per la mancanza di Gesù e l’incapacità a ritessere le fila della loro esistenza comunitaria e personale senza di lui. In questa situazione Gesù si presenta, a porte chiuse, in piedi come vivente e pronuncia, in mezzo a loro, le parole “Pace a voi”, che indicano non solo un saluto ma un dono concreto e nuovo nel cuore dei discepoli. I segni della passione nelle mani e nel costato trafitto permettono ai discepoli di riconoscerlo: essi non sono più ormai solo segni di morte ma di vita e di amore. Anche per Tommaso, che non era presente, Gesù si fa vivo con le sue piaghe e gli chiede di toccarle, di farne esperienza. Tommaso passerà così dal bisogno di contatto con Gesù risorto ad una fede senza precedenti nella sua identità divina: “Mio Signore e mio Dio”. Anche noi, nella fede, possiamo toccare le sue piaghe, la sua carne, la sua umanità che è passata attraverso il mistero della sofferenza e della morte per donarci una vita senza fine.

Mi metto in una posizione comoda per la preghiera, che mi aiuta ad entrare in contatto con il Signore

Chiedo che ogni mia intenzione, azione e tutta la mia attività nella preghiera abbia da Lui il suo inizio e in Lui il suo compimento. Leggo una prima volta il Vangelo: Gv 20,11-19. Mi pongo nel luogo interiore che preferisco, per sentire la presenza di Gesù, la sua umanità che soffre per me e per il mondo. Poi gli chiedo di poterlo conoscere interiormente, per seguirlo sempre di più.


(MEMORIA) Rileggo più volte il brano di Vangelo, cercando di sostare su quelle frasi, espressioni, parole che toccano le corde più profonde della mia interiorità. Esse nel loro complesso costituiscono una Parola che Dio oggi mi rivolge personalmente.
(INTELLIGENZA) Cerco di comprendere il significato di questa Parola nella mia vita, utilizzando paragoni con il mio vissuto quotidiano e cercando di gettare qualche luce sul mio presente e prossimo futuro.
(VOLONTÀ) Oriento tutto il mio cuore a ciò verso cui mi porta la Parola e entro in una preghiera di supplica, ringraziamento, lode, a seconda di ciò che sento.

La croce non è fatta tutta d’un pezzo (Omelia Venerdì Santo)

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La croce non è fatta tutta d’un pezzo.

C’è un palo orizzontale, chiamato patibulum, che viene portato dal condannato fino al luogo dove sarà crocifisso. Qui si trova un palo verticale, chiamato stipes, alla cui sommità il patibulum viene infisso. Poi ci può essere un titulus in cui viene scritto il motivo della condanna e infine, in fondo, si può collocare un piccolo sostegno ligneo per appoggiare il piede, in modo che il condannato possa, finchè riesce, farsi forza con le gambe per tenersi su e avere un po’ di sollievo.

La croce di Gesù si trova su un piccolo monticello, chiamato Golgota, prodotto da una cava di natura artificiale. Infatti intorno i romani avevano scavato la roccia, per trarne materiale da costruzione. Li vicino alcune ulteriori escavazioni erano state utilizzate per farne anche delle tombe.

Entriamo un po’ in questa scena con la nostra immaginazione e proviamo a metterci con la nostra persona al posto o nella funzione di qualcuno di questi oggetti che costituiscono il quadro della passione.

Posso essere il patibulum, perché scelgo di mettere anche la mia sofferenza nel peso che il Signore porta, per amore mio. Posso quindi sentire le sue spalle forti, segno della sua intima e indomabile volontà di portare a compimento il disegno del Padre nel donare il Suo Spirito sulla croce: “tutto è compiuto”, dice Gesù. Così lui mi porta fino in fondo, fino alla pienezza e totalità del suo amore e trasforma ogni mio dolore in una gioia più profonda.

Posso anche mettermi in quel piccolo sostegno di legno dove Gesù appoggia i suoi piedi. Scelgo allora di dargli un po’ di conforto e di farlo ogni volta che intorno a me c’è qualcuno che soffre, che fa fatica. Non sarò in grado di risolvere le situazioni negative o di eliminare la sofferenza, ma posso offrire un certo sostegno per aiutare le persone ad andare avanti, a sostenere i pesi che portano.

Posso infine essere anche la nuda roccia, nella quale viene versato il sangue del costato trafitto di Gesù. Una roccia che grida a Dio ogniqualvolta viene versato il sangue innocente e però questa volta, dopo aver gridato, sceglie di bere, perché questo sangue è una vita che risana ogni ferita del mondo e penetra tutte le fessure, arrivando fino al cuore della roccia, al centro della Terra.

Prendiamo un minuto e scegliamo: chi sono in questo momento? Il patibulum sulle spalle di Gesù, il pezzettino di legno su cui appoggia i suoi piedi o la nuda roccia impregnata del suo sangue? Penetriamo così, ognuno dalla sua angolatura, la ricchezza della croce, mistero che ci attraversa e ci trasforma nell’ amore!

Domenica delle Palme (Anno B)

Mc 11,1-10

Gesù entra a Gerusalemme in mezzo ad una festosa accoglienza della folla, che getta davanti a lui mantelli e rami tradizionalmente associati all’albero di palma. Il Salmo 118, che la folla cita acclamando Gesù, riporta un’esclamazione che è divenuta importante anche nella liturgia eucaristica: “Osanna”. Significa “Salvaci Signore!”. Gesù è riconosciuto come il messia, figlio di Davide, che porta la pace universale nel cuore del mondo, nella città di Dio, Gerusalemme. Egli infatti non viene nel suo nome, ma nel nome di Dio e la sua regalità non è un privilegio che lo rende superiore agli altri, ma una potenzialità d’amore, che lo spinge a donarsi fino alla morte di croce. Posso così accoglierlo anch’io, sentendo come lui entri con soavità nel mio cuore, per servirmi e regnare nella mia Gerusalemme interiore, negli abissi del dolore e della gioia.

Mi metto in una posizione comoda per la preghiera, che mi aiuta ad entrare in contatto con il Signore

  • Chiedo che ogni mia intenzione, azione e tutta la mia attività nella preghiera abbia da Lui il suo inizio e in Lui il suo compimento. Leggo una prima volta il Vangelo: Mc 11,1-10. Mi pongo nel luogo interiore che preferisco, per sentire la presenza di Gesù, la sua umanità che soffre per me e per il mondo. Poi gli chiedo di poterlo conoscere interiormente, per seguirlo sempre di più.
  • (MEMORIA) Rileggo più volte il brano di Vangelo, cercando di sostare su quelle frasi, espressioni, parole che toccano le corde più profonde della mia interiorità. Esse nel loro complesso costituiscono una Parola che Dio oggi mi rivolge personalmente.
  • (INTELLIGENZA) Cerco di comprendere il significato di questa Parola nella mia vita, utilizzando paragoni con il mio vissuto quotidiano e cercando di gettare qualche luce sul mio presente e prossimo futuro.
  • (VOLONTÀ) Oriento tutto il mio cuore a ciò verso cui mi porta la Parola e entro in una preghiera di supplica, ringraziamento, lode, a seconda di ciò che sento.
  • Gv 12,20-33

    V Quaresima Anno B

    Giudei di lingua greca, che credevano nel Dio di Israele ed erano in ricerca del messia, vogliono prendere contatti con Gesù. Filippo e Andrea sono i mediatori di questo incontro. Gesù vede in tale richiesta un primo segno di quel frutto missionario che egli realizzerà con la sua morte in croce, descritta dal Vangelo di Giovanni come una glorificazione. Come il piccolo seme che muore cadendo in terra poi porta frutto, così anche Gesù è destinato a far frutto proprio attraverso la sua morte. Servire Gesù significa seguirlo in questo luogo della croce, che è il mondo con tutte le sue vittime, discriminazioni, sofferenze, fatiche. Ogni luogo umano è una periferia in cui Gesù può giungere con il suo cuore attraverso la nostra presenza. Non si tratta di fare grandi cose o di risolvere i problemi del mondo, ma anzitutto di stare, condividere, vivere, divenendo canali della sua umanità glorificata.

    Mi metto in una posizione comoda per la preghiera, che mi aiuta ad entrare in contatto con il Signore

    • Chiedo che ogni mia intenzione, azione e tutta la mia attività nella preghiera abbia da Lui il suo inizio e in Lui il suo compimento.
    • Leggo una prima volta, lentamente, il Vangelo: Gv 12,20-33
    • Mi pongo nel luogo interiore che preferisco, per sentire la presenza di Gesù, la sua umanità che soffre per me e per il mondo. Poi gli chiedo di poterlo conoscere interiormente, per seguirlo sempre di più.
    • (MEMORIA) Rileggo più volte il brano di Vangelo, cercando di sostare su quelle frasi, espressioni, parole che toccano le corde più profonde della mia interiorità. Esse nel loro complesso costituiscono una Parola che Dio oggi mi rivolge personalmente.
    • (INTELLIGENZA) Cerco di comprendere il significato di questa Parola nella mia vita, utilizzando paragoni con il mio vissuto quotidiano e cercando di gettare qualche luce sul mio presente e prossimo futuro.
    • (VOLONTÀ) Oriento tutto il mio cuore a ciò verso cui mi porta la Parola e entro in una preghiera di supplica, ringraziamento, lode, a seconda di ciò che sento.
    L’albero della croce è gloria di Dio

    Carissimi amici di san Lorenzo

     

     

    Carissimi amici della parrocchia di San Lorenzo,

     

    sta correndo rapido questo tempo di cambiamento estivo e presto, verso i primi di ottobre, sarò in partenza da Riccione per entrare nel Noviziato della Compagnia di Gesù.

    Tanti di voi mi hanno ascoltato e hanno offerto i loro pareri, punti di vista, insieme ad auguri e preghiere condivise. Da tutti ho ricevuto ringraziamenti e l’impressione generale di un bilancio ricco e positivo per gli anni trascorsi qui in parrocchia, insieme alla naturale tristezza per l’imminente separazione.

    Da nessuno di voi ho ricevuto un messaggio negativo e di sconforto per il futuro della parrocchia, nonostante la certezza che non vi sarà alcuna sostituzione nel ruolo di vicario parrocchiale. Anzi, la prospettiva di una mancanza ha portato molti di voi, dopo un momento iniziale di domande e di disorientamento, a sentirsi più corresponsabili e a mettersi in movimento per servire la comunità parrocchiale. Ci sono state ben due assemblee e sei gruppi di lavoro, che hanno fatto un buon discernimento per il futuro, sia nelle linee generali che nelle scelte particolari. È stata avviata anche una promettente collaborazione con l’unità pastorale Albamater, in vista di una maggiore integrazione pastorale tra le parrocchie, iniziando dalla formazione degli adulti e degli educatori e dalla pastorale giovanile. Ci si è interrogati sulla formazione alla fede e sull’importanza di una comunità di famiglie che crescono aiutando altre più giovani a crescere nella fede.

    In questo fermento, sicuramente generato e accompagnato dalla grazia di Dio, traspare qualcosa della Chiesa che sta emergendo e che si manifesterà pienamente nel futuro: una Chiesa in cui la responsabilità dei battezzati sia pienamente riconosciuta, attraverso carismi e ministeri che non agiscono per delega del ministro ordinato, ma hanno piena dignità di servizio e di discernimento, in comunione con i diaconi e i preti. Una Chiesa che ha al cuore la Parola di Dio, vissuta, condivisa e annunciata e che è costantemente inviata ai piccoli e poveri che incontra, siano esse famiglie, anziani, adulti, adolescenti, bambini. Una Chiesa in cui il prete non è il centro o il factotum, ma un punto di riferimento la cui autorevolezza si gioca nel dare libertà, favorire la responsabilità e accrescere la comunione e il fervore missionario.

    Vedo questa Chiesa che emerge, pur con gli inevitabili limiti umani, nella comunità parrocchiale di San Lorenzo e oso affermare di avere molta fiducia nel suo cammino futuro insieme all’unità pastorale Albamater e alle altre parrocchie di Riccione.

    Vorrei concludere questo saluto con un breve riferimento più personale. Nel 2012, terminando gli studi a Roma, avevo già iniziato un discernimento per la Compagnia di Gesù, che però si era risolto con la decisione di rientrare in Diocesi e chiedere al vescovo la nomina di vicario parrocchiale di San Lorenzo, comunità che già conoscevo per averla servita nei finesettimana, in compagnia del parroco don Tarcisio. Quelle intuizioni ignaziane che già c’erano nel mio cuore non avevano ancora sufficiente chiarezza e sentivo l’importanza di far esperienza come prete in parrocchia. Pensavo anche di essere in debito con la Diocesi, perché per otto anni, sei di seminario e due di Licenza al Pontificio Istituto Biblico, ero stato sostenuto e formato per la Chiesa di Rimini. Come Giacobbe con lo zio Labano, pensavo di dover ripagare il debito. Ma il Signore aveva altri pensieri. Non si trattava di restituire un debito, ma di ricevere tanto altro. Ho ricevuto sostegno, collaborazione, affetto, amicizia e i vostri desideri hanno plasmato la mia personalità di prete. Leggendo la storia di questa comunità attraverso lo specchio della Parola di Dio, ogni domenica nell’omelia mi sono ritrovato arricchito dai desideri di Dio per voi. Condividendo la Parola nei gruppi di preghiera, mi sono sentito sostenuto dalla vostra fede. Accompagnando gli adolescenti nella loro crescita, ho percepito la passione educativa di tanti di voi e ne sono stato edificato. Vivendo accanto ai giovani, ho goduto della loro bellezza e vivacità e sono stato arricchito dai loro cammini. Tutti voi mi avete insegnato cosa significa essere prete e vi ringrazio. Ho tanto amato questa comunità parrocchiale e ciascuno di voi. Mi sono speso generosamente e senza timore di spendere energie. Anche i miei limiti sono stati occasione di crescita nell’umiltà e nella semplicità del servizio. Se in qualche caso posso aver ferito o offeso qualcuno chiedo scusa. Quello che vi ho dato in questi anni non è però la mia persona, ma solo Gesù. Tenete Lui! Lui e solo Lui in tutte le eucarestie celebrate, in tutte le omelie, nella Parola di Dio condivisa, in tutte le esperienze, io ho voluto darvi soltanto Lui. E Lui rimarrà sempre, tra me e voi, come una Parola fissata da sempre e per sempre nell’amore.

     

    Alla fine di ogni anno, nel colloquio con il Vescovo, don Francesco mi chiedeva se per me andasse bene a San Lorenzo. Probabilmente sarebbe stato pronto a cambiarmi destinazione, se avessi lasciato trapelare qualche difficoltà: si sa che i vicari parrocchiali si possono spostare più facilmente. Ma siccome vedeva che ero contento, penso che si sia convinto che era meglio non cambiare. Altrimenti, se mi fossi trovato peggio, mi sarebbero potute tornare strane idee…per questo motivo forse sono rimasto un po’ di anni a San Lorenzo.

    Alla fine sono diventati otto gli anni vissuti come vicario parrocchiale, uno per ogni anno di formazione sostenuta dalla Diocesi: così, senza volerlo, ho ripagato il debito.

    Ringrazio quindi tutti voi, e con voi ringrazio i parroci, don Tarcisio prima e poi don Agostino, con cui ho sperimentato una fruttuosa collaborazione e amicizia e ho potuto apprezzare quanto, al di là del cognome in comune, il Signore si diverta a non creare un fratello uguale all’altro. Ringrazio anche i preti con cui ho collaborato in questi anni, in vari aspetti, e sono tanti. Ho capito che lavorare insieme, sperimentarsi insieme, mettersi in gioco con gli altri, è il segreto del Regno di Dio e permette di crescere come persone e come preti. Altrimenti si rimane statici e alla fine ci si annoia. Uno violino può suonare divinamente, ma se è solo finisce per stancare, invece nell’orchestra può armonizzarsi con altri suoni e contribuire ad una sinfonia che dura molto di più, con tante variazioni. Ringrazio tutti i preti che si sono avvicendati negli ultimi anni a Riccione e, in particolare, don Franco, don Marco e don Valerio, per essersi messi in gioco con San Lorenzo, soprattutto in questo ultimo tratto di strada. Mi mancheranno anche i nostri pranzi insieme e i nostri momenti di dialogo e condivisione. Ringrazio i diaconi, Raul, Paolo e Lino: mi mancheranno le colazioni con l’immancabile dettatura della preghiera dei fedeli. Ringrazio il Vescovo Francesco, per l’attenzione umana che mi ha sempre riservato e per essersi messo in ascolto del Signore, per il mio cammino e per quello di ciascuno dei suoi preti. Lo ringrazio anche della stima che ha sempre riposto in me e degli incarichi e collaborazioni diocesane a me affidate.

    Ringrazio tutti voi, educatori, catechisti, ministri, famiglie, amici, con cui abbiamo condiviso tante esperienze e momenti insieme.

    È stato bello e proprio per questo non finirà. Ciò che è seminato nello Spirito, come dice San Paolo, non può che portare frutto.

     

    Un abbraccio a tutti e buona festa di San Lorenzo!

     

     

     

     

     

     

     

     

    La Sapienza ebraica di Gesù di Nazareth

     

    Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha. Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono. (Mt 13,12-13)

     

    Che senso ha una parola in parabole che non viene compresa da quelli di fuori? Oggi ci si sforza di avere una comunicazione comprensibile, capace di ottenere l’effetto giusto sull’ascoltatore: sembra invece che le parabole vogliano fare il contrario.

    In realtà dobbiamo capire meglio il senso della profezia di Isaia a cui Gesù fa riferimento, per motivare il suo parlare in parabole: “perché non vedano e non si convertano e io li guarisca”. Sembra che, per Gesù, come in fondo è stato per tutti i profeti in Israele, la guarigione del cuore passi attraverso la non comprensione. Cosa significa questo?

    La sapienza profetica, ebraica, non è come quella greca, centrata sull’argomentazione logica. Essa infatti procede per intuizioni, immagini, simboli, che tengono insieme realtà apparentemente opposte, con fortissime tensioni di significato, perché intende collocare all’interno di questi simboli e immagini anche il processo della libertà umana, in modo che essa vi si rispecchi e rimanga coinvolta da dentro. Allora se la persona non comprende e accetta con libertà di non comprendere, lì si comincia ad aprire il cuore ad un mistero più grande, dove agisce la grazia di Dio. Finché la libertà non è coinvolta da dentro, il seme seminato non porta frutto, ma rimane sempre la possibilità di un’azione gratuita dell’amore onnipotente, che trasforma il cuore, che lo apre, dopo averlo spogliato della propria superbia e chiusura. È il mistero della parabola, che produce frutto dialogando con la libertà dell’ascoltatore.

    Ripetiamo ancora meglio: le parabole sono un linguaggio della libertà, che si adatta al cuore della persona, e producono comprensione a seconda delle disposizioni del cuore. Se c’è disponibilità personale a farsi delle domande, ad entrare in una narrazione che coinvolge e suscita interrogativi allora inizia un processo di comprensione, se invece la lettura rimane ad un livello esclusivamente esterno e la libertà non è coinvolta, le parabole producono una non-comprensione, un rifiuto, in attesa dell’azione della grazia di Dio nel cuore, di una guarigione la cui origine può situarsi solo in un punto misterioso e inaccessibile, Dio stesso. Le parabole ci raccontano anche di un’onnipotenza d’amore, che rispetta fino all’ultimo la libertà umana e dicono un mistero in atto, quello di una semina e di un frutto che dipendono dall’azione correlata di un Dio onnipotente nell’amore e di una libertà in atto da parte dell’uomo.

    Le parabole di Gesù, e soprattutto quella del seminatore, ci ricordano che l’annuncio del vangelo non è trasmissione di contenuti, ma esperienza di gratuità, nella quale si apre il mistero di Dio. Esso attiva la fede elementare nella vita, che c’è in ogni uomo, per mezzo dell’incontro con il testimone, il seminatore.

    Se applichiamo queste considerazioni ad un contesto religioso pluralistico, come quello in cui viviamo, ci rendiamo conto che il fine del dialogo per noi cristiani non è la conversione dell’altro, ma la gratuità della semina: dal dialogo emerge la grazia, l’amore, che favorisce l’incontro con Dio.  La conversione può essere solo frutto di tale azione. Essa può agire, ad esempio, anche in un contesto così drammatico come quello di Silvia Romano, rapita per più di un anno nelle mani di fondamentalisti islamici. Non sono sicuro che la sua conversione sia esclusivamente frutto della sindrome di Stoccolma, che unisce la vittima ai suoi carnefici, malgrado il contesto di reclusione non sia ovviamente in grado di favorire un cammino di libertà interiore. Ritengo vi possa essere abbastanza profondità nel cuore dell’uomo, per pensare che il suo atto di conversione all’Islam non sia semplicemente il frutto di una costrizione o di una situazione estrema, ma qualcosa in cui è implicata la libertà di una donna e che l’ha condotta a trasformare una situazione orribile in un’opportunità di approfondimento personale. Dobbiamo avere grande rispetto di questa giovane donna e del suo travaglio spirituale! D’altra parte però l’interpretazione del rapimento come punizione di Dio, per i suoi peccati, che lei offre in una recente intervista, ci pone davanti la questione di un’immagine di Dio che richiede di essere problematizzata. È proprio questa immagine, che le parabole di Gesù ci spingono a trasformare, convertire, cambiare.  Il Dio di Gesù è un Dio paziente, gratuito, sovrabbondante che punta a guarire e trasformare il cuore. Egli non punisce, ma trasforma continuamente ogni difficoltà e sofferenza in occasione per fare esperienza del Suo amore.

    Lo Spirito ci doni di “essere” una missione

     

     

    Comunicazione a parrocchia San Lorenzo

    Carissimi amici,

    molti di voi in questi giorni mi hanno fatto capire che erano in attesa di questa riunione e della comunicazione promessa. Ogni anno è così, in questo periodo, c’è il timore di cambi e spostamenti, in un contesto diocesano in cui la coperta dei preti è così corta rispetto ai bisogni pastorali. E ovviamente, ben sapendo che il più a rischio spostamento è il viceparroco, ogni anno in questo periodo mi sento ripetere la stessa domanda, forse fatta anche per esorcizzare davvero la partenza: “Allora dove ti manda il Vescovo?”. Se io avessi voluto, in questi anni, se avessi anche solo accennato al Vescovo di una mia difficoltà, per cercare di essere spostato, credo che sarei stato accontentato. Ma la verità è che in questi ormai 8 anni in cui sono vicario parrocchiale a San Lorenzo, ho sempre interpretato questo incarico ricevuto come una volontà e un desiderio del Signore, e ho goduto la bellezza e il piacere della responsabilità pastorale di una comunità, in collaborazione prima con d. Tarcisio e poi con d. Agostino. Non ho mai avuto motivi per “andare via” e anzi, ogni anno, facendo il bilancio della mia presenza a San Lorenzo, riconoscevo la grazia di questo ministero a me affidato e la grande ricchezza di umanità che questa comunità mi ha permesso di sperimentare. Anche quest’anno è così. Non ho alcun motivo personale per essere scontento o frustrato o per cercare altre cose né il Vescovo mi ha chiesto alcunché, finora. E allora, mi direte voi: “cosa cambia?”.

    Cambia tutto, perché a partire dalla fine di settembre 2020 io mi trasferirò a Genova, nel noviziato della Compagnia di Gesù, a cui sono stato ufficialmente ammesso qualche settimana fa dal provinciale della Compagnia.

    Ecco ve l’ho detto e non mi sembra vero e nemmeno a voi sembrerà vero. Eppure è così. E allora mi chiederete: “Cos’è la compagnia di Gesù? Perché questo improvviso cambiamento, se tutto andava bene e sei contento?”. Ciò che solo pochi di voi sanno (forse qualcuno in passato può aver avuto qualche dubbio, per le esperienze particolari fatte in questi anni, per i percorsi ignaziani di spiritualità che ho organizzato in parrocchia ecc..) è che da circa dodici anni nella mia coscienza è cresciuta una particolare affinità con la spiritualità ignaziana, di Sant’Ignazio di Loyola, che plasma la congregazione religiosa chiamata compagnia di Gesù. Sono i cosiddetti gesuiti, da cui viene anche papa Francesco. Proprio dodici anni fa, in un tempo prolungato di silenzio e preghiera, chiamato mese ignaziano, in cui avrei preso la decisione di diventare prete, una voce soave e misteriosa, molto profonda, ma anche estremamente delicata e rispettosa, mi ha fatto percepire un primo “richiamo” della compagnia di Gesù. Mi spaventai molto. In fondo, pensavo, avevo accettato la proposta del rettore di vivere il mese ignaziano per verificare se diventare o no prete. Ero in seminario, mi stavo preparando, la Diocesi contava su di me. Se il Signore mi voleva prete, dovevo essere prete diocesano: nemmeno sapevo cosa fosse un gesuita. Quella voce, delicata e semplice, non tornò e io quasi la dimenticai. Una volta diventato prete, dieci anni fa tondi, alla lettura di una biografia spirituale di un gesuita mi sentii infiammare da improvvisi desideri. In quello stesso periodo, una mia amica, mentre eravamo in una semplice conversazione, mi disse: “perché non ti fai gesuita?” E nuovamente sentii quella voce! Ancora mi spaventai, ma quella volta tornai dal padre che mi aveva dato il mese ignaziano, per capire qualcosa. Lui si mise un po’ a ridere, mi disse che non avevo ancora un’esperienza pastorale per capire bene ma accettò di accompagnarmi per qualche mese. Era l’ultimo anno che ero a Roma a studiare e ogni week-end venivo in parrocchia a San Lorenzo. Nacquero subito tensioni forti, mi sentivo in colpa con la Diocesi e il Vescovo ed ero confuso sulla differenza che poteva esserci tra il ministero diocesano e quello in una congregazione religiosa. Nonostante quel desiderio fosse reale, non riuscivo a vederci con chiarezza dentro e così decisi di rimanere prete diocesano e chiesi al vescovo la nomina ufficiale a vicario parrocchiale di San Lorenzo, per coadiuvare don Tarcisio. Il Vescovo oltre a questo mi diede anche l’incarico di direttore dell’Apostolato Biblico Diocesano e di insegnante all’Istituto di Scienze Religiose, cose che ho portato avanti in questi anni.

    Sono stati anni molto belli in cui mi sono interiormente convinto che il Signore voleva da me questo, che io fossi prete diocesano. Sono cresciuto umanamente e pastoralmente grazie a questa comunità di San Lorenzo, grazie al contatto con tanti giovani, adulti e con tante persone che hanno bussato alla porta del mio cuore, perché io li aiutassi ad attingere dell’acqua viva che viene da Gesù, l’acqua della Sua Parola e del Suo Spirito. Ho goduto della celebrazione eucaristica in questa comunità, cercando di condividere il tesoro della Parola di Dio. Ho goduto delle tante occasioni di preghiera, nei piccoli gruppi, in cappellina e nelle case, come pure dei ritiri e dei percorsi spirituali, che abbiamo vissuto in questi anni. Ho goduto di accompagnare e veder crescere tanti ragazzi in questa comunità, iniziando con il catechismo e vivendo con loro occasioni di crescita umana e spirituale, come convivenze e campeggi e di collaborare alla loro formazione assieme all’equipe dei catechisti e degli educatori dell’ACG. Con alcuni di questi ragazzi, diventati ormai grandi, abbiamo condiviso due splendide “missioni” in Africa, che non dimenticherò mai. Il percorso con i giovani si è anche arricchito di un’associazione culturale, Nuovagorà, e di una partecipazione sentita alla vita della nostra comunità. Ho visto in questa parrocchia la frontiera degli adolescenti e giovani, molto presenti nella nostra piazza, con il loro rumore, il loro vandalismo, i loro eccessi ed anche la loro richiesta di attenzione.  Li abbiamo intercettati, in parte con i gruppi, in parte con la nostra semplice presenza ed è stato bello vedere la loro fiducia e la loro risposta positiva di fronte ai nostri inviti. Mi sono convinto che non c’è nulla, né alcool, né droga, né disastri familiari, né bullismo, che possa realmente nuocere ai ragazzi, se essi trovano qualcuno che abbia fiducia in loro.

    Sono contento anche, come pastore, di aver collaborato non da solo, ma in rete con tanti altri: con tutti gli operatori pastorali, con i parroci, d. Tarcisio e d. Agostino, con cui ho stabilito un rapporto di amicizia oltre che di collaborazione, con i diaconi, Raul, Paolo e Lino, che mi hanno testimoniato un cammino umile e generoso di corresponsabilità. Vorrei fare tanti nomi, di persone che sono state fondamentali in questo tempo ma non è questo il momento né il luogo, perché rischierei certamente di dimenticare qualcuno. Aggiungo solo che per me è stato importante ciascuno di voi, per il rapporto umano e di fede che si è creato e per il lavoro condiviso, come pure la collaborazione con le altre parrocchie e parroci della zona pastorale, le istituzioni civili e il Comune di Riccione.

    Penso sia importante evidenziare il cammino che mi porta a fare questa scelta oggi, in modo molto determinato. Voi sapete bene come in questi anni io abbia portato avanti una linea pastorale di taglio più “spirituale”, ignaziano. Avevo in mente anche altri bei progetti, in questa linea, per la parrocchia e per la Diocesi. Ma lo scorso anno, in un incontro avvenuto a Bologna, a Villa San Giuseppe, proprio per un coordinamento ignaziano in Romagna, questa voce si è fatta risentire in modo molto chiaro, consolandomi per diverso tempo. Poi il popolo di Dio, incontrato nelle confessioni e a messa, mi ha dato ulteriori segnali: una signora che mi regala l’autobiografia di Sant’Ignazio, un altro che mi dice, dopo la messa, che non sarò più prete “di parrocchia”, un altro ancora che dopo, una confessione mi dice che certe scelte bisogna farle quando si è giovani, un’altra persona che, rovistando, tra i libri di don Montali, mi fa vedere il libretto degli esercizi di Ignazio ecc…Con difficoltà, riapro il file del discernimento, a febbraio dello scorso anno e programmo un anno con alcune esperienze nella Compagnia di Gesù, Bologna, Scampia, Catania, il corso guide ad agosto a Roma, gli esercizi a marzo. Che dire: sono state tante le conferme nello Spirito e le tensioni si sono via via sciolte. Certo sul piano umano sarei contento di rimanere qui, in Diocesi, a San Lorenzo, ed è costoso ricominciare in questo modo. Ma sento di non possedermi, sento che tutto dipende da Lui, anche il mio essere stato in questi anni qui, come dono per me e per voi. Un discernimento profondo mi ha portato a lasciar parlare questo desiderio e ad osservare come esso si conformi allo spirito della Compagnia di Gesù e alla sua missione.

    Vi chiedo di accompagnarmi con la vostra preghiera. So perfettamente che ci sarà una fatica da assorbire per questa partenza. Ma sono anche consapevole che lo Spirito saprà accompagnare questa comunità e susciterà carismi e doni adatti al tempo che vivremo. Io prego per questo e vi accompagno in queste settimane e in questi mesi prima della mia partenza anche con il mio personale impegno, per aiutarvi ad organizzarvi per il meglio. Sono convinto che, quando qualcuno di noi compie una scelta con la coscienza sincera di ricercare la volontà di Dio, intorno a lui si attivano dinamismi di grazia che aiutano anche gli altri a rimettersi davanti al Signore per avere da lui luce ed energia necessaria ad affrontare le sfide della vita.

    Che lo Spirito di Pentecoste sia su di voi, fratelli e amici, e vi doni tanta gioia in questo momento, nonostante la sorpresa e la tristezza per la mia prossima partenza. Sì, la gioia di vedere come il Signore opera nei nostri cuori, di come ci è vicino ed amico, di come ci incoraggia e sostiene, di come ci arricchisce di tanti doni e non permette mai che non ci allontaniamo da Lui, amenochè non lo vogliamo noi.

    Lo Spirito santo vi doni la gioia di essere una missione, come dice papa Francesco, e non di fare tante cose. Che ciascuno di voi e voi tutti insieme come comunità, possiate sempre più essere quella missione che Gesù vuole!

     

    Un abbraccio!

     

    Focolai di vita (Omelia di Pentecoste)

     

    Quanto Gesù appare risorto ai suoi discepoli dopo la sua morte, loro gli chiedono se è quello il momento in cui si ricostituirà il Regno di Dio. Pensavano ad una struttura, ad un programma, ad un piano preciso, di cui sarebbero stati i ministri…una sorta di fase 2 e 3 della storia della salvezza, in cui si sarebbero programmate tutte le cose da fare. Quella richiesta veniva dal loro bisogno di sicurezza, di punti di riferimento, in una situazione molto difficile e confusa. Rimanendo uniti, tutti insieme nello stesso luogo, avevano potuto fare esperienza della resurrezione di Gesù, ma ancora questa esperienza era rimasta come sospesa, non riuscivano a capire come muoversi, quali priorità dare, come ricostruire il loro futuro di comunità. Avevano appunto bisogno di punti di riferimento, di obiettivi, di strategie, di programmi.

     

    Il Signore non gli promette niente di tutto questo: dice semplicemente che non spetta a loro stabilire i tempi e i momenti. Gli promette invece il dono dello Spirito Santo, che li renderà suoi testimoni.

     

    Gesù durante la sua vita era ripieno dello Spirito Santo e ciò si manifestava nell’incontro con tante persone, affette dal male. In loro lo Spirito suscitava una fede profonda nella vita, attraverso Gesù, e per questo venivano guarite. Era una rigenerazione dell’uomo, del suo sé profondo, e insieme un’apertura alla comunicazione, alla relazione, simbolizzata dall’apertura degli occhi, delle orecchie, della capacità di parlare. Era un riprendere a camminare in avanti, dopo essere entrati in un corpo a corpo con la Vita, che li ha rigenerati.  Così anche i discepoli, come il loro maestro, saranno pieni di Spirito Santo, cioè la loro parola e la loro persona sarà abitata da una presenza ospitale e potente, capace di comunicarsi, come un dono di vita, a tante persone diverse, a ciascuna in un modo personale e intimo. Le lingue di fiamma che si posano su ciascun discepolo indicano l’unico vangelo della vita, comunicato in modo adatto a ciascuna persona, per riattivare la sua parte più vera e profonda, unica e insostituibile. Il dono dello Spirito infatti fa questo, riattiva la vita e suscita la meraviglia per i doni del Signore: “li sentiamo proclamare le grandi opere di Dio”, dicevano i giudei di ogni nazione, radunati intorno al cenacolo di Pentecoste. Queste grandi opere sono nient’altro che il dono della vita, dell’amore, il senso profondo del nostro essere unici e insostituibili e insieme fatti per una comunione più forte e radicale del male e della morte. La comunità cristiana forgiata a Pentecoste non è una struttura ripiegata sui propri riti e sui propri pensieri astratti, è invece una istituzione umana che si presenta come segno e strumento di incontro “fisico”, concreto, con ciascun uomo, attraverso la potenza di vita che scaturisce dal risorto.

     

    Di fronte al bisogno di programmi, di indicazioni, di norme, che ci permettano di “salvarci” dalla pandemia e di fare il nostro dovere verso gli altri, ci viene dato a Pentecoste il dono dello Spirito, che non ci rassicura con degli ordini da eseguire, ma ci attrae verso Gesù, con il piacere della Vita che Lui ci dona.  È un piacere che riattiva la fede nella Vita, più forte del male e della morte e che rimette le persone in contatto con il proprio centro interiore. Non si tratta di verificare quante persone entreranno nella nostra comunità o quanti daranno il loro contributo per le opere di carità o quanti ritorneranno a messa. Si tratta invece di testimoniare gratuitamente, attraverso tutte le occasioni di incontro con le persone, questa offerta di relazione, amicizia, amore. Lo Spirito ci getta nell’incontro corpo a corpo, con la Vita, senza sapere ogni giorno ciò che ci aspetta, in mezzo al vortice spesso confuso e disordinato della storia. Qui lo Spirito ci rende, in modi imprevisti e imprevedibili, nodi riattivatori del focolaio della vita, in una catena infinita di reti e connessioni, molto più accesa e ramificata di qualsiasi epidemia virale.

     

     

    Il potere resiliente del risorto

    Un dettaglio molto umano e molto umile, in questo racconto matteano dell’ultima apparizione di Gesù ai suoi discepoli sul monte in Galilea, è quello del dubbio dei discepoli.

    Nonostante il particolare privilegio di cui gli undici hanno goduto, ossia quello di incontrare il risorto in un modo così intimo e personale, essi dubitavano: il dubbio, sembra dirci il Vangelo, è contestuale alla stessa esperienza di incontro che essi hanno fatto con il risorto, nella fede. Se è stato scritto, non lo è affatto per scandalizzarci, ma per aiutarci a comprendere come l’esperienza degli apostoli sia stata in realtà molto umana e molto vicina alla nostra esperienza di vita.

    Il dubbio nasce quando un’esperienza si pone in modo così nuovo, così inaspettato, da far risaltare in modo netto il contrasto con le esperienze passate, soprattutto quelle traumatiche, difficili, impegnative. E siccome di prove non siamo risparmiati nella nostra vita, ecco che se accade improvvisamente qualcosa di bello, potremmo essere tentati di non crederci, di averne paura, come dietro l’angolo fosse pronta la fregatura. Ecco il dubbio dei discepoli, che è anche il nostro.

    In questa situazione emotiva che segue trauma della morte del maestro per i discepoli e il trauma collettivo di questa pandemia per noi, Gesù si fa vicino e ci parla, e solo in questo modo ci permette di superare i nostri dubbi, perché li scioglie con la sua parola.

    Cosa dice ai discepoli? “A me è stato dato ogni potere in cielo e in terra” Si tratta di fare capire ai discepoli che lui è davvero un maestro affidabile, perché gli è stato concesso da Dio il potere dell’amore, che è in grado di trasformare il mondo molto più di tutti gli altri poteri, compreso quello militare. Il potere militare infatti è può unicamente far del male e può impedire un male maggiore solo attraverso la deterrenza. Invece quello di Gesù risorto, che sale al Padre, è un potere di trasformazione del male in bene, un potere di resilienza, dunque un potere molto più alto e performante.  La resilienza è più che capacità di resistere, è capacità di trasformare il trauma, la difficoltà, la fatica, in opportunità di crescita e di riscatto. Essa implica l’attitudine a trovare nuove angolature, più profonde e positive, da cui guardare le difficoltà e orientare di conseguenza la nostra vita. . Essa è la traduzione operativa dell’amore, che sa innescare una nuova fiducia lì dove in precedenza si vede solo la sconfitta.  In questo tempo traumatico essa ci aiuta a passare dalla paura alla prudenza; dalla rabbia alla determinazione; dalla delusione ad una speranza più profonda, dal giudizio, di sé e degli altri, ad una comprensione più ampia. I suoi frutti sono caratterizzati dallo sciogliersi delle tensioni e dei blocchi interiori per fare un passo in più verso l’alto. È in fondo il potere dello Spirito di trasformare la morte in resurrezione. Se il potere umano, dal basso, si esprime con la deterrenza, quello divino, dall’alto, con la resilienza. Esso proviene dall’attrazione che il risorto, salito al padre, esercita sull’umanità, spostando costantemente il nostro baricentro verso l’alto. Man mano che si sale, si diventa più disponibili ad allargare il nostro raggio d’azione, fino ai confini del mondo, come dice Gesù negli Atti degli apostoli.“Sarete miei testimoni fino ai confini del mondo”. Che tale confine, tenebra dove la luce non è ancora arrivata nel cuore di ogni uomo, diventi sempre più la geografia della nostra testimonianza!