Mc 10,2-16 (XXVII TO Anno B)

Gesù sta camminando verso Gerusalemme, per vivere il rifiuto dei capi e del suo popolo e portare a compimento il disegno contenuto nelle Scritture. In questo contesto i Farisei, una corrente spirituale importante ed influente in Israele, lo interrogano sulla questione, molto discussa al tempo, riguardante il divorzio e in particolare le motivazioni per cui può essere lecito farlo. La loro domanda è interessata: essi infatti vogliono che Gesù si schieri da una parte o l’altra dei dottori della Legge, entrando in una controversia scivolosa.

Gesù cita i profeti, parlando della “durezza di cuore”. La sposa infedele a Dio è il popolo di Israele, che nella sua storia ha abbandonato più volte il suo Dio per abbeverarsi ad altre fonti. Ma Dio è rimasto fedele e ha rinnovato la sua alleanza, il suo amore di sposo, scrivendo la sua Legge nel cuore degli uomini.

La fedeltà dell’uomo al progetto di Dio può così essere solamente un riflesso della fedeltà di Dio, che cammina con noi, fianco a fianco, e ci aiuta e sostiene, negli smarrimenti, fragilità e inevitabili contraddizioni della vita. La sua fedeltà è tale anche da ricucire le ferite, come ha fatto con il popolo di Dio nella sua storia, per rinnovare ad ogni svolta del cammino la sua proposta di comunione e di amore.

Il sacramento del matrimonio si fonda su questa certezza dell’amore di Dio ed è un invito offerta al desiderio, a non abbassare l’asticella delle aspettative. Neanche quando è avvenuta una rottura irreparabile, si deve disperare nella forza di questo amore, che continua ad operare in analogia con un progetto scritto da sempre nel cuore dell’uomo.

Chiedo che ogni mia intenzione, azione e tutta la mia attività nella preghiera abbia da Lui il suo inizio e in Lui il suo compimento. Leggo una prima volta il Vangelo: Mc 10,2-16. Mi pongo nel luogo interiore che preferisco, per sentire la presenza di Gesù, la sua umanità che mi dona gioia e vita. Poi gli chiedo di attraversare lo scandalo dell’umana infedeltà e di rimanere con lui.


(MEMORIA) Rileggo più volte il brano di Vangelo, cercando di sostare su quelle frasi, espressioni, parole che toccano le corde più profonde della mia interiorità. Esse nel loro complesso costituiscono una Parola che Dio oggi mi rivolge personalmente.
(INTELLIGENZA) Cerco di comprendere il significato di questa Parola nella mia vita, utilizzando paragoni con il mio vissuto quotidiano e cercando di gettare qualche luce sul mio presente e prossimo futuro.
(VOLONTÀ) Oriento tutto il mio cuore a ciò verso cui mi porta la Parola e entro in una preghiera di supplica, ringraziamento, lode, a seconda di ciò che sento.

Gesù e la ricerca dei segni (Omelia xviii to Anno B, Gv 6,24-35)

La folla cerca Gesù: rabbì come sei giunto qui?

Gesù sembra essere abbastanza duro, pungente, difficile da comprendere. Perché? Egli ci spinge in avanti per una sempre migliore comprensione di lui, che passa attraverso alcune tappe.

Anzitutto c’è una ricerca di sazietà, pienezza, stabilità umana. Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché vi siete saziati. In questa tappa della ricerca di Gesù, la sua persona si confonde con la nostra realizzazione umana. Non è un male aspirare alla pienezza e Gesù stesso favorisce questa aspirazione della folla, moltiplicando il pane per essa. Ma al contempo invita loro a non rimanere solo su quel livello, un po’ chiuso in sé, un po’ egoistico, di ricerca, per passare ad una comprensione della persona di Gesù, di dove trovarlo ed entrare in comunione con lui, attraverso tutti i segni che egli ci dona. Gesù ci invita a passare dai beni di cui godiamo alla percezione del dono che è contenuto in essi, come segno della Sua Presenza nella nostra vita. Passare dal possesso al ringraziamento, che prolunga il gusto del dono, nella relazione con lui.

La folla sembra allora comprendere che la pienezza della vita non è semplicemente data dai beni, ma dal cibo che dura, che è la relazione con Dio. Se nella mentalità giudaica ciò che assicura la relazione con Dio è la Legge, ossia il compiere le opere di Dio, Gesù sposta l’accento dal plurale al singolare, dalle opere all’opera, e pone Dio come soggetto: c’è un’unica opera, ed è quella che Dio fa nel tuo cuore, la fede. Questa è da cercare! La folla si sintonizza con questo discorso di Gesù e a questo punto chiede un segno che lo accrediti come inviato di Dio. Come Mosè aveva dato la manna, così anche Gesù deve dare ulteriori segni.

È molto umana questa richiesta della folla, perché anche a noi capita spesso di voler alimentare la nostra fede, attraverso i segni, interiori ed esteriori. Alcuni segni iniziali sono importanti, come la moltiplicazione dei pani per la folla. Ma poi c’è una continua ricerca di segni da parte nostra…e questo però è anche un pericolo, ossia quello di rimanere ancorati ad una certa interpretazione di Dio nella mia vita, che diventa un po’ un’illusione: mi deve dare questo segno…se non esaudisce questa mia preghiera…se la realtà non si piega alla mia visione, a quello che mi aspetto…e allora quando cade l’illusione, finisce per cadere anche Dio. Il pericolo, in questa ricerca di segni, in questo continua richiesta che facciamo a Dio, è di andare fuori dalla realtà, di non lasciarsi adeguatamente guidare da essa.

Gesù sposta allora ulteriormente l’accento, partendo dalla proposta della folla: si, lui è pronto a dare un segno, ma lui non sarà come Mosé, nel senso che se Mosè ha offerto un segno “esterno” a lui, per Gesù il vero segno è lui stesso: è lui la manna, il pane disceso dal cielo, colui che nutre ogni uomo.

Se la nostra ricerca di segni si sposta solo su di Lui, allora piano piano impareremo a trovarlo dentro di noi, e in ogni cosa, in ogni realtà della nostra vita. Allora non ci saranno più solo alcune richieste, alcuni segni, che testimoniano la presenza del Signore, ma tutto ci parlerà di lui: le persone, le gioie, i dolori, le speranze, le fatiche…tutta la nostra vita, tutto ciò che ci accade e che viviamo, diventerà un motivo per incontrarlo sempre di più e conoscerlo sempre meglio.

 E questo è il punto culminante della nostra fede. Siamo partiti da una ricerca di pienezza, abbiamo individuato nella nostra vita alcuni segni che ci portano alla fede, ora la fede raggiunge la sua vera pienezza nella realtà, nel modo con cui Gesù ci viene incontro attraverso di essa, con il suo amore, con la sua pace, con la sua forza che agisce nel nostro cuore. Il vero segno alla fine siamo noi, quella forza che agisce nel nostro cuore, che ci spinge ad andare avanti, a sperare, ad amare, a soffrire con coraggio, a rialzarci con determinazione! È lo Spirito che Gesù ci dona, senza misura…e che ci orienta a Lui e alla vita, che ci spinge ad amare gli altri, specialmente i poveri e chi abbiamo accanto, che ci porta a fare di noi un dono continuo agli altri!

Lo scandalo del quotidiano

Siamo in un momento molto importante della missione di Gesù: la sua predicazione di profeta “grande in parole ed in opere” ha da una parte la capacità di scuotere e di far interrogare chi lo ascolta suscitando un atteggiamento di stupore e meraviglia (cfr. 1, 27 – 28) mentre, dall’altro canto genera anche scandalo ed opposizione (cfr. 3, 22). Questo testo riferisce del ritorno di  Gesù a Nazaret, sottolineando l’atteggiamento di rifiuto della gente della sua patria, che non vuole accettarlo e si pone in antitesi con il  passo successivo di Marco in cui viene invece descritta l’apertura di Gesù verso la gente della Galilea, dimostrata tramite l’invio in missione dei suoi discepoli (Mc 6,7-13). 

Dopo un probabile periodo di assenza Gesù porta il suo insegnamento tra la gente di Nzareth, entrando in sinagoga di sabato, com’era sua abitudine nella sua missione (cfr. 3, 1). Frattanto la sua fama si era diffusa ben oltre la Galilea e aveva raggiunto persino Gerusalemme (cfr. 3, 7 – 12). Per questo in molti accorrono nella sinagoga per ascoltare le parole del loro concittadino (v. 2) e restano colpiti dalle sue parole (v. 2), ponendosi una domanda importante e che non deve essere immediatamente interpretata come un rifiuto o una mancanza di fede. “Da dove gli vengono tali cose?”. Il termine “da dove” indica velatamente l’origine divina di Gesù, profeta, potente suscitato da Dio, secondo la parola del Deuteronomio: “Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli un profeta pari a me; a lui darete ascolto” (Dt 18, 15). Purtroppo, gli abitanti di Nazareth si bloccano davanti alla conoscenza dell’origine umana di Gesù, dei suoi paranti e familiari (v. 3), perchè essi lo conoscono troppo bene per poter lasciare aperto il mistero che avvolge la sua persona. In effetti conoscono tutto della sua carta d’identità: egli è un artigiano, figlio di Maria e i suoi parenti sono notissimi: “Non è il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Joses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?” continuano a chiedersi gli ascoltatori nella sinagoga. Per i nazaretani la conoscenza delle origini umane di Gesù diviene uno scandalo, ossia un inciampo per comprendere la verità più profonda della sua persona, che si trova nella sua relazione con un’origine misteriosa: il Padre suo (v. 3). Gesù risponde quindi che un profeta non è gradito se non nella sua patria, tra i suoi parenti e nella sua casa (v. 4). Il destino di tutti i profeti, inviati da Dio a Israele, è quello di  essere rigettati dal loro popolo (cfr. 12, 3-5).                                                                          Infine a Nazareth Gesù non potè fare miracoli a causa della loro incredulità, di cui egli stesso si meravigliava (vv. 5-6).  Infatti Gesù non può compiere miracoli, se non come segno della fede in lui, nella sua persona e nella sua parola.

Chiedo che ogni mia intenzione, azione e tutta la mia attività nella preghiera abbia da Lui il suo inizio e in Lui il suo compimento. Leggo una prima volta il Vangelo: Mc 6,1-6. Mi pongo nel luogo interiore che preferisco, per sentire la presenza di Gesù, la sua umanità che mi dona gioia e vita. Poi gli chiedo di attraversare lo scandalo della sua umanità e di rimanere con lui.


(MEMORIA) Rileggo più volte il brano di Vangelo, cercando di sostare su quelle frasi, espressioni, parole che toccano le corde più profonde della mia interiorità. Esse nel loro complesso costituiscono una Parola che Dio oggi mi rivolge personalmente.
(INTELLIGENZA) Cerco di comprendere il significato di questa Parola nella mia vita, utilizzando paragoni con il mio vissuto quotidiano e cercando di gettare qualche luce sul mio presente e prossimo futuro.
(VOLONTÀ) Oriento tutto il mio cuore a ciò verso cui mi porta la Parola e entro in una preghiera di supplica, ringraziamento, lode, a seconda di ciò che sento.

Donne impure

Donne impure. La donna che aveva perdite di sangue lo era per un motivo di carattere rituale: se il sangue esce, ciò implica la morte e un corpo morto per un ebreo è ritualmente impuro e rende impuro chi lo tocca.

La bambina era impura anch’essa, e per un motivo molto semplice, era morta.

La donna era impura da 12 anni, perché da tanto tempo durava la sua malattia, che le aveva tolto anche la fecondità, la possibilità di generare. La bambina al 12 esimo anno di età, l’età del menarca, del primo ciclo mestruale, muore senza mai aver generato figli. 12 anni dicono un periodo completo, totale, attraversato in questo caso dalla morte, senza che vi possa essere alcuna possibilità di recupero, almeno umanamente.

Non solo infatti la bambina e la donna sono ormai clinicamente irrecuperabili, ma sono anche oggetto di impurità, da non poter toccare senza contrarre la stessa lontananza da Dio, secondo la mentalità ebraica.

Si comprende quindi tutta la tensione della donna, che di fronte all’accaduto, è ancora impaurita e tremante e ciononostante si getta ai piedi di Gesù dicendo tutta la verità. Per un gesto simile avrebbe potuto essere condannata…e invece Gesù la rimanda in pace: “va la tua fede ti ha salvata”. La fede della donna in Gesù è stata più forte dei vincoli della cultura religiosa, che avrebbero certamente negato un tocco di questo tipo. Proprio perché, nella sua fede, ha toccato Gesù, questo contatto umano e spirituale con la persona del maestro ha creato lo spazio e le condizioni della sua guarigione.

Anche nella casa del maestro tutto depone a sfavore della vita: la bambina è già morta e i parenti lì radunati, che pronunciano i lamenti rituali, deridono Gesù. Qui è Gesù stesso a superare i vincoli della cultura, che impedivano un contatto con un morto: lui delicatamente prende per la mano la bambina e con la semplicità della sua parola “talità kum”, la solleva. Proprio evadendo i codici culturali della religione del tempo Gesù rivela la qualità particolare della sua santità: non una santità che divide, allontana, giudica, separa il puro e l’impuro; piuttosto una santità che accoglie, ospita, incontra, condivide, crea lo spazio di un incontro diretto e familiare con Dio.

Gli uomini di oggi come di allora hanno un bisogno disperato della santità ospitale di Gesù, perché nel loro cammino di uomini feriti, deboli, fragili, desiderano di essere accolti e amati, così come sono. E desiderano fare della loro fragilità il luogo della cura, della prossimità, di una fede che grida a Dio dentro al proprio dolore e così crea lo spazio di un incontro possibile con Lui. Mentre la cultura di oggi fornisce tanti mezzi sofisticati come palliativi, che addomesticano il dolore senza poter guarire il cuore, la Chiesa ha la possibilità di giocare il ruolo del mantello di Gesù, come già aveva proposto il cardinal Martini in una sua celebre lettera pastorale alla Chiesa di Milano.

Come? Offrire occasioni, possibilità, contesti favorevoli, in cui la persona possa arrischiare un contatto, sentire di poterlo fare nella riservatezza e nella certezza che attraverso quel contatto potrà “percepire” la potenza d’amore che scaturisce da Gesù.

Tante persone sono oggi in attesa, cercano medici e ne trovano tanti ma non guariscono. Cercano medicine e palliativi tecnici, e ne trovano tanti, ma le ferite non si riassorbono veramente. La Chiesa saprà esser oggi quel mantello in grado di favorire il tocco, il contatto con l’amore che guarisce? Avrà la forma della santità ospitale nella quale il maestro la vorrebbe? Tante persone si sentono giudicate entro i codici culturali di provenienza e nel loro bisogno d’amore, nella loro ferita, sentono di non essere amate, stimate e valorizzate, mentre si sentono accolte da una cultura che elimina le distinzioni e si impegna a compiere per loro ciò che è tecnicamente possibile. Una cultura che anestetizza il dolore, ma senza guarire il cuore, come i medici dell’emorroissa.

Come farà la Chiesa di oggi ad essere lembo del mantello per queste persone? Il grido di fede dell’emorroissa risuona ancora con forza dentro alla ricerca di identità e di amore delle persone. Ci impegniamo a coglierlo o scegliamo di brandire la rassicurante clava della verità, un po’ infastiditi dalla folla che circonda Gesù e vorrebbe toccarlo?

È vero che il diritto dei più deboli può diventare imposizione ideologica e dobbiamo prestare attenzione. È però altrettanto vero che la battaglia per il diritto d’opinione si combatte con testimoni viventi, che hanno incontrato Gesù e possono sventolare con lui la bandiera del vero amore.

Taci, calmati (Omelia XII TO Anno B)

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Anche nella vita di Gesù ci sono stati momenti di passaggio. Aveva già compiuto molti segni miracolosi, di guarigione e di vita, aveva già annunciato il Regno di Dio con le parabole e con l’insegnamento, aveva già incontrato molti villaggi e paesi della Galilea, tanto che la gente lo cercava, venendo da ogni parte ed aveva ottenuto in poco tempo un grande successo come rabbi.

Le sue giornate erano lunghe e ricchissime di incontri e quella sera, come tutte le altre, avrebbe potuto ritenersi soddisfatto malgrado la grande stanchezza.

Ecco che, in questo quadro, Gesù non si adagia sugli allori della sua fama, ma sente tutta l’urgenza di un passaggio, di una novità nella sua vita. Sente di dover andare all’altra riva del mare di Galilea, in territorio pagano, dagli “altri” popoli che non sono Israele, che non sono il popolo eletto, e che attendono anche loro il Regno di Dio.

È un momento di passaggio importante per Gesù, che indica la destinazione e i discepoli lo prendono, così com’era, ossia stanco e affaticato, sulla barca, per muoversi alla volta della sponda opposta del lago. Essi si lasciano afferrare dalla parola di Gesù, sentono la gioia di questa nuova destinazione nella loro vita e non intendono lasciarsi condizionare dalla stanchezza.

Anche nella nostra vita ci possono essere momenti di passaggio di questo tipo, in cui comprendiamo qualcosa di nuovo. Soprattutto in questo contesto di pandemia, in cui abbiamo fatto i conti con lo shock della nostra fragilità e della morte di persone care, molti di noi hanno percepito l’importanza di andare fino in fondo nel senso della loro vita. Molti hanno avuto il coraggio di rompere gli equilibri precedenti, fatti del solito lavoro e delle cose quotidiane, per aprirsi ad una ricerca più profonda. Altri, pur non facendo cambiamenti importanti, hanno potuto percepire e consolidare un modo nuovo di vedere le cose e una capacità di attribuire le priorità in modo molto diverso alle cose.

Questo coraggio si scontra però con una paura fondamentale: quella dei discepoli di fronte alla tempesta. Nei cambiamenti della vita, quando la novità apporta il suo pesante carico di incognite o quando tutte le difficoltà nei nostri tentativi di andare oltre, di modificare gli equilibri, ci assediano, ci sarà qualcuno in grado di assisterci? Non è forse che siamo soli e a Dio non importa di noi? La tempesta non è solo un fenomeno esterno, ma è molto più un fenomeno percepito nel nostro cuore, è l’accumularsi di tensioni profonde ed ansie, è il non riuscire a percepire altro che le onde del mare, minacciose e incombenti, sulla nostra vita. L’unica risorsa che i discepoli possiedono, in questo contesto, è svegliare Gesù, bussando continuamente alla porta del suo cuore. Solo lui, con la sua parola sovrana e potente, può minacciare le onde del mare e riportare la persona alla sua tranquillità, con poche parole: “taci, calmati”. Sono parole preziose, di cui dovremmo far tesoro, perché Gesù le pronunci in noi ogni volta che prevalgono in noi pensieri e sentimenti angosciosi. C’è il rischio di invertire la rotta, presi dall’angoscia, ma in tal modo esponiamo il fianco alle onde e sì che allora rischiamo di ribaltarci! Ma se le parole di Gesù, “taci calmati”, fanno breccia nel nostro cuore, allora si può mantenere la rotta diritta e sperimentare come pian piano la bonaccia si sostituisce alla tempesta e noi siamo in grado di approdare all’altra riva. Mantenere la barra diritta, significa confermare i nostri impegni e le nostre prospettive, senza mutare direzione, finché dura la tempesta e finché Gesù non ha completamente dominato quei mostri che ancora agitano intimamente il nostro cuore.

La scoperta è poi quella di sentirsi rinati, con stupore, a modalità e percezioni nuove nella nostra vita. Come i discepoli che sentono una nuova calma, una bonaccia improvvisa, per poi approdare all’altra riva e provano la meraviglia, lo stupore, per la potenza scaturita dalla parola di Gesù, così anche noi ci sentiamo con stupore diversi, rinati, rinnovati, riplasmati dalle tempeste e pronti per approdare a ciò che è nuovo, ogni volta di più, nella nostra vita.

Sperimentiamo la potenza del nostro battesimo, che ci fa risorgere lì dove c’è morte e dolore. Le cose vecchie sono passate, ne sono nate di nuove, siamo chiamati a sperimentare ogni volta la novità che il Signore apporta nella nostra vita, una novità Pasquale, ossia la potenza della resurrezione lì dove sembravano prevalere le forze di morte!

Mc 4,35-41 (XII TO Anno B)

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Non è facile stare con Gesù. Alla sera, dopo una giornata faticosa in dialogo con tanta gente, tra guarigioni e predicazione, invece di riposarsi un pò, Gesù punta in avanti, verso un oltre missionario che si concentra tutto nel suo invito ai discepoli: “passiamo all’altra riva”. Come se non fosse pago di quanto fatto finora, come se non gli interessasse di capitalizzare i successi fin qui raggiunti presso le folle, Gesù è in cammino verso un di più, di cui l’altra riva è simbolo e richiamo. Non si lascia condizionare dalla stanchezza per abbassare l’asticella dei propri desideri, ma punta decisamente a questo di più, a questo “oltre” missionario, lasciandosi prendere “così com’era”, ossia probabilmente affaticato, sudato, stanco, sulla barca. La sua stanchezza è talmente forte che si addormenta subito sulla barca, e nemmeno la tempesta ormai incipiente e le onde alte lo svegliano. I discepoli affogano sotto l’acqua della loro paura, dell’angoscia di non farcela, per un pericolo imminente e sovrastante, ormai incontrollabile.

Solo lui può salvarli dalle forze del caos e della morte, rappresentati dal mare, che si scatenano nella vita; solo lui può porre un argine a tali forze come fa Dio stesso nel giorno della creazione, quando ha posto un limite alle onde del mare sulla spiaggia, perché non lo oltrepassino. Solo lui può, con l’autorità della sua parola, comandare al mare e portare la sospirata bonaccia, all’improvviso e inaspettatamente, proprio mentre i suoi sono al parossismo della paura: “maestro, non ti importa che moriamo?”.

I discepoli ancora non hanno fede, non hanno compreso, non conoscono il loro maestro, per quanto siano con lui già da diverso tempo ed abbiamo potuto esperimentare con lui tanti segni di amore e di potenza che lui ha dato loro. Sono esterrefatti e un senso di timor panico li coglie, davanti al loro maestro: “chi è mai costui, al quale il vento e il mare obbediscono?”. Solo con questa fede essi potranno superare le loro paure e puntare decisamente verso l’altra riva della missione, lì dove il loro maestro brama di arrivare con loro.

Gettarsi in avanti (Omelia XI TO Anno B)

Gettare il seme non è facile. Se hai speso tutti i tuoi averi per comperare quelle sementi, buttarle nella terra significa mettere tutta la tua speranza e tutta la tua fiducia in quel terreno, che abbia le caratteristiche necessarie a far crescere e germogliare le piante.

Da millenni l’uomo vive di questa fiducia e anche oggi, in un tempo in cui siamo in grado di prevedere e controllare tante cose, è richiesta all’uomo la medesima fiducia nella terra, nel tempo, nella natura. La vita è infatti un processo spontaneo, che accade per la gran parte senza che l’uomo possa prevedere o controllare alcunché. Egli può solo innescare il processo, gettando la semente.

Questo, ci dice Gesù, vale anche per la nostra vita umana e per il Regno di Dio, che si costruisce in essa. Noi vorremmo controllare la nostra vita, il nostro futuro, e prevederlo almeno per la maggior parte delle situazioni. Ma questa è una pretesa. In tutte le grandi trasformazioni che avvengono nella nostra vita, a noi spetta prendere una decisione buona, gettando il seme. Il resto lo fa il Signore senza che spesso noi ce ne accorgiamo. La prima e più grande decisione della nostra vita è la fede: essa è infatti un dono che riceviamo ma anche il frutto di una decisione che prendiamo di accogliere il seme del Vangelo e di coltivarlo. Noi decidiamo ogni giorno di accoglierlo, poi è il Signore che fa il resto, costruendo nel nostro cuore una stanza segreta in cui lui si fa trovare sempre. Un’altra decisione fondamentale nella nostra vita è quella della vocazione, di sposarsi o consacrarsi o comunque di offrirsi al Signore nella situazione in cui siamo. Anche in questo caso si getta il seme della propria libertà, per unirsi a qualcun altro, sia esso il compagno o la compagna della propria vita o il Signore, poi il Signore stesso agisce nel nostro cuore per conformarci sempre più a questa chiamata e renderla  stabile. Così accade anche nel processo educativo dei più piccoli: si assiste spesso a genitori o educatori bloccati, presi dall’ansia di sbagliare, come se tutto dipendesse da loro o presi dal senso di colpa per essersi arrabbiati. Se una sgridata nasce da un’intenzione educativa, allora produrrà frutti buoni, anche se il gesto non è perfetto, perché un po’ improvviso e mescolato a rabbia. Si tratta di gettare il seme con gesti educativi che nascano da intenzioni buone e poi fidarsi di un processo il cui autore non siamo noi, ma il Signore.

Tutto questo è facile a dirsi a parole, ma difficile a farsi, perché si tratta di passare attraverso la croce della propria impotenza. Si tratta di accettare di non poter cambiare le cose che non vanno, anche in noi stessi, di accettare la nostra impotenza, come primo passo per lascare operare lo Spirito Santo, che agisce secondo suoi misteriosi disegni. Questa accettazione della debolezza e impotenza è proprio il mistero del granellino di senapa che, pur essendo il più piccolo di tutti i semi, diventa un grande albero, che ospita tra le sue fronde gli uccelli del cielo.

Infatti questa accettazione può costituire un luogo opportuno per essere inseriti esistenzialmente nel mistero della croce, che assume in sé tutti i regni del mondo e tutte le potenze umane. Dal punto di vista storico la morte in croce di Gesù di Nazareth è un evento assolutamente trascurabile per le potenze politiche del tempo e così irrilevante da non essere registrato da alcuno storico ufficiale del suo tempo. Essa è un granellino di senape invisibile. Ma più profondamente, da quel granellino di senape promana una potenza in grado di trasformare per sempre il mondo e contenere nella sua logica tutti i regni e le potenze politiche della storia che, nella parabola del seme, sono gli uccelli del cielo che si rifugiano all’ombra delle fronde del grande albero.

Nella fede noi siamo esistenzialmente inseriti in questo Regno se accettiamo la nostra impotenza e gettiamo noi stessi in avanti, pieni di fiducia, come dice San Paolo, sforzandoci di essere a lui graditi, ossia di rimanere in Lui, nel suo amore, in ogni nostra azione, intenzione, e in tutto il nostro agire quotidiano.

Chiediamo al Signore di non avere paura, di non rimanere bloccati dall’ansia del controllo, che pervade ogni aspetto della nostra società, e di gettarci in avanti, come un seme piccolo, ma pieno di tante potenzialità, al servizio del Regno!

Mc 4,26-34 (XI TO Anno B)

La liturgia offre le ultime due parabole della sezione marciana delle parabole del Regno, con la conclusione generale della sezione al v. 34.  L’inizio del racconto parabolico va ritrovato in 4,1-2 dove viene presentato l’insegnamento di Gesù presso il mare e la presenza della folla, così ingente da costringere Gesù a imbarcarsi e sedere “sul mare”. La posizione da seduto, tipica del rabbi intento all’insegnamento, è in modo suggestivo posta dentro al mare, quasi un anticipo di quel dominio divino che egli eserciterà sulle onde e sui flutti (cf. 4,41). Questo dettaglio suggerisce che l’insegnamento parabolico di Gesù abbia a che fare con il mistero della sua persona.

Tra la parabola del seminatore e la sua spiegazione, si trova un intermezzo sul destinatario del racconto parabolico, le folle, che non comprendono il linguaggio, che comporta tuttavia, in modo paradossale, il perdono di Dio (v. 12, Is 6,9) e la salvezza di un resto di Israele. I discepoli, a cui Gesù spiega le parabole, rappresentano il primo nucleo di questo resto, caratterizzato dalla possibilità di comprendere, nella compagnia di Gesù, il dinamismo dell’agire di Dio nascosto nel linguaggio parabolico.  Essi soli possiedono la chiave di interpretazione, che è la persona di Cristo, e proprio perché si tratta di una persona e non di un’idea, essi avranno bisogno di camminare dietro a Gesù fino al termine della sua missione terrena, nel mistero della sua morte e resurrezione, per penetrare il significato delle sue parabole. L’itinerario dei discepoli è dunque quello del lettore del Vangelo, chiamato a fare esperienza della Parola, seguendo il messia servo sofferente fino alla morte di croce.

Che il mistero della croce sia al cuore delle parabole può essere evidenziato anche a partire dalle due parabole del Regno di Dio che la liturgia offre in questa domenica del tempo ordinario (26-29; 30-32). La parabola del seme che germoglia manifesta la paradossale rivelazione di un processo che non dipende dalle azioni umane di innaffiare o concimare, ma che avviene in modo spontaneo, senza che il seminatore se ne accorga.  Si sottolinea qui il carattere misterioso, divino di questa potenza della Parola, che opera al di là delle decisioni e della volontà umana (cf. Sal 127,2). Essa infatti fruttifica in diverse tappe finchè arriva la mietitura, che è immagine del giudizio divino (cf. Gio  4,13).

La seconda parabola è invece centrata sul chicco di senapa, più piccolo di tutti gli altri, ma che contiene la potenza di produrre un arbusto più grande di tutte le piante dell’orto. L’immagine degli uccelli che vi nidificano riprende la tradizione allegorica dei profeti a riguardo dei grandi imperi della storia, che fanno ombra a molti regni più piccoli (cf. Ez 31). Il messia, servo sofferente che muore in croce (Is 53) è come un seme insignificante e più piccolo di tutti i poteri di questo mondo. Tuttavia la potenza della Parola che opera nella sapienza della croce è in grado di generare un Regno più grande di tutti i regni umani.

Chiedo che ogni mia intenzione, azione e tutta la mia attività nella preghiera abbia da Lui il suo inizio e in Lui il suo compimento. Leggo una prima volta il Vangelo: Mc 4,26-34 Mi pongo nel luogo interiore che preferisco, per sentire la presenza di Gesù, la sua umanità che mi dona gioia e vita. Poi gli chiedo di essere capace di gettare il seme e attendere con fiducia i frutti


(MEMORIA) Rileggo più volte il brano di Vangelo, cercando di sostare su quelle frasi, espressioni, parole che toccano le corde più profonde della mia interiorità. Esse nel loro complesso costituiscono una Parola che Dio oggi mi rivolge personalmente.
(INTELLIGENZA) Cerco di comprendere il significato di questa Parola nella mia vita, utilizzando paragoni con il mio vissuto quotidiano e cercando di gettare qualche luce sul mio presente e prossimo futuro.
(VOLONTÀ) Oriento tutto il mio cuore a ciò verso cui mi porta la Parola e entro in una preghiera di supplica, ringraziamento, lode, a seconda di ciò che sento.

La stanza scelta da Gesù (Omelia Corpus Domini)

Siamo così abituati ad ascoltare questi racconti evangelici che non ci coglie più lo stupore di fronte ad un così strano ordine del maestro: dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”.      

Perché Gesù definisce questo edificio – che appartiene ad una persona apparentemente sconosciuta, in un luogo dove i discepoli arrivano seguendo un uomo con una brocca d’acqua – come la “mia stanza”? Tutto sembra convergere verso un pieno dominio dei dettagli da parte di Gesù, in modo che anche questo luogo, così estraneo fino a quel momento alla storia, diviene invece così intimo e familiare, tanto da essere scelto per l’Ultima Pasqua con i suoi discepoli e l’istituzione dell’Eucarestia.

Questa stanza, così lontana da Gesù eppure scelta da lui per un momento di grande intimità con i suoi, può rappresentare tante cose. Anzitutto è una realtà che il maestro conosce, prima ancora di entrarvi per dir così, ufficialmente; poi è un luogo che egli sceglie deliberatamente per celebrare la Pasqua ebraica e in essa fondare la memoria della sua consegna d’amore agli uomini e al Padre. Infine è un luogo da preparare con cura, perché possa accogliere questo dono e portarlo a frutto pienamente.

La prima cosa che questa stanza rappresenta è il mio cuore. Quella realtà che Lui cohnosce, prima ancora che io lo lasci entrare celebrando l’Eucarestia. Quella realtà a cui lui si consegna totalmente dando il suo corpo e il suo sangue, per guarirmi e donarmi la pace. Infine questo cuore è un luogo da preparare ogni giorno, per lasciar germogliare sempre più in esso i frutti di questa guarigione.

La seconda cosa che questa stanza può rappresentare è la mia vita, intesa come l’insieme delle mie relazioni. Se Gesù ha istituito l’Eucarestia proprio nella medesima stanza in cui Giuda macchinava di tradirlo, ciò significa che Gesù non si vergogna di abitare dentro ad un cuore pieno di sentimenti contrastanti per le altre persone e dentro a relazioni anche difficili, faticose, da elaborare continuamente. L’Eucarestia può essere una fonte straordinaria di capacità relazionale, una risorsa enorme e incalcolabile di energia per riannodare fili apparentemente spezzati, per rimarginare le ferite, per trasformare il dolore in un’opportunità di rinnovamento esistenziale.

La terza cosa che questa stanza può rappresentare è il mondo stesso, ad esempio nei suoi tanti luoghi di lavoro Penso oggi ai lavoratori che stanno perdendo la vita nei luoghi di lavoro, per chi non è garantito e deve sottostare a turni massacranti, magari somministrati da un’app impersonale. Nell’Eucarestia il Signore ha celebrato nel pane e nel vino il frutto del lavoro umano e si è donato perché tale lavoro possa riacquistare dignità e rispetto della persona. Questa stanza del mondo può essere rappresentata anche dalla natura, dall’ambiente. L’Eucarestia è fatta di elementi tratti dal cosmo, il pane e il vino per esserci richiedono un ciclo della vita, una biosfera, un ciclo dell’acqua e l’organismo vivo della Terra. Sempre più ci rendiamo conto di essere parte di questo tutto, le cui condizioni rendono possibile anche la nostra vita. Siamo in un rapporto di interdipendenza e di “intimità” creaturale, con ogni altra realtà vivente. Nell’Eucarestia Gesù si dona anche a questo cosmo  ristabilendo la nostra relazione con esso in modo ordinato, secondo Dio. Ci purifica dalla malattia di un consumo senza fine delle risorse e ci dona la possibilità di stabilire un equilibrio virtuoso, da buoni amministratori di questo condominio così complesso che è la natura.

Nutrendoci dell’Eucarestia siamo ricondotti così in equilibrio con noi stessi nella stanza del nostro cuore, con gli altri nella stanza delle relazioni, e con il mondo nella stanza della natura.

Ecco il corpus domini, la festa di un corpo, quello del Signore Gesù, che trova la sua gloria ed è presente in ogni cosa, in ogni relazione della nostra vita e in ogni pensiero e sentimento del nostro cuore! Offriamo tutto a Lui e ne sapremo gustare la presenza in ogni cosa!

Confronto sulla Legge (Mc 12,28-34)

Serrato confronto tra Gesù e uno degli scribi su una domanda tradizionale: dei 613 precetti quale sintesi ricavare, quale gerarchia? Gesù coglie Dt 6, comandamento ben presente all’ebreo di ieri e di oggi, che indica l’amore totale, al di sopra di tutto, per Dio. La sua novità consiste nell’unire indissolubilmente questo comandamento con l’amore del prossimo (Lv 19,18), in modo tale che si tratti di un unico vero comandamento. Esso ha un valore illimitato, superiore a tutti i sacrifici che si svolgono del tempio, come commenta lo scriba. Vorremmo essere perfetti e osservare tutte le norme che ci imponiamo per esserlo, ma non vi riusciamo. Solo amare permette di vivere la perfezione, in mezzo ai tanti limiti della vita.