La profetessa Anna (2,36-38) e la vedova del Tempio (12,41-44). Meditazione per ordo viduarum

Profetessa Anna (Lc 2,36-38)

Simeone ed Anna. Due figure che Luca accosta esplicitamente, non solo perché i due episodi sono successivi nella narrazione, ma anche perché entrambe le figure esprimono l’attesa messianica di Israele. Non solo. Il primo è un uomo e la seconda è una donna. A Luca piacciono molto queste comparazioni tra una figura maschile e una femminile. Pensiamo al raffronto che egli conduce tra Zaccaria, che non crede alla parola dell’angelo, e Maria, che invece arriva ad aprirsi e credere a ciò che le ha detto il Signore. O pensiamo ancora, nel contesto delle parabole, al pastore che va in cerca delle pecore perdute e alla donna che cerca la moneta smarrita. I discepoli e le donne che seguono Gesù (cf. 8,1-3) o ancora il buon samaritano e maria di betania (cf. c. 10). Il maschile e il femminile servono in particolare a Luca per articolare bene la globalità della rivelazione di Dio e dell’accoglienza dell’uomo. Non solo il Regno di Dio ha le caratteristiche maschili di un pastore che va in ricerca della pecora perduta, ma ha anche le carattistiche femminili, con la cura del dettaglio e delle piccole cose, di una donna che cerca una moneta spazzando in casa. E allora il maschile e il femminile possono articolare sia la misericordia del buon samaritano, sia l’accoglienza di essa da parte dell’umanità in Maria di Betania.

Qui al capitolo secondo la figura maschile e quella femminile dicono la completezza della attesa messianica. La caratteristica profetica maschile è propria di colui che ritrova il senso della sua vita nell’accogliere il messia atteso dai profeti, lasciandosi guidare dallo Spirito. Egli non è necessariamente anziano, ma è giunto al compimento, alla pienezza ed allora può esclamare: “ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace”.

Accanto a lui c’è una donna, una vedova, che rappresenta Israele stesso, nella sua veste di popolo che ha attraversato una storia di sconfitte e privazioni. È lo stesso Israele che dirà, per bocca dei discepoli di Emmaus: “noi speravamo che fosse lui ad aver liberato Israele”. Una vedova tende ad rivolgere lo sguardo verso il passato, verso i bei tempi, verso il tempo del fidanzamento, l’esodo, il tempo del matrimonio, l’ingresso nella terra e la promessa di Dio che ha cominciato a realizzarsi. Tutto sembra smentito da un presente caratterizzato dal vuoto e dalla mancanza.

Anche questa donna ha vissuto 7 anni con il marito, un tempo visto nella sua globalità, come una settimana di anni. Ma il ricordo è ormai lontano. Ora ne ha ottantaquattro e ha vissuto nella radicale lontananza da lui tutto questo tempo.

Luca aggiunge qui la frase decisiva: “non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno, con digiuni e preghiere”.  Notte e giorno è un merismo che dice totalità: non c’è un istante del suo tempo che non sia radicalmente offerto a Dio. Servire Dio è un espressione sintetica per indicare soprattutto l’adorazione. Non si tratta di servizio attivo (diakonia), ma di adorazione silenziosa (latria) dedicazione alla preghiera, è un servizio della preghiera, che esprime un’esistenza integralmente consacrata ad essa. La conferma viene dall’endiadi “digiuni e preghiere”. L’espressione digiuno associata alla preghiera si trova anche, con un simile campo semantico, in At 13,3, dove si parla del digiuno e della preghiera della Chiesa di Antiochia per intercedere a favore della missione di Paolo e Barnaba, a cui lo Spirito li stava chiamando.

Dunque il servizio della preghiera della vedova è qui inteso da Luca come una “cospirazione”, una collaborazione con lo Spirito Santo, in un orientamento messianico dell’esistenza personale e collettiva. Essa non solo non rimane agganciata nostalgicamente al passato di Israele, ma l’esperienza della preghiera la àncora al futuro, ad un compimento ancora di là da venire, e trasferisce alla sua povera esperienza umana tutta la densità dell’attesa collettiva, del popolo, della Chiesa. Essa è già figura della Chiesa che invoca, implora, il dono dello Spirito per i suoi figli e per ciò stesso si dispone ad un rinnovato dinamismo missionario.

Essa così facendo diviene lei stessa fondamentale testimone e annunciatrice: loda Dio e parla del bambino a quanti aspettano la redenzione, il riscatto di Gerusalemme.

La parola riscatto (apolytrosis) rimanda all’ebraico ga’al. Il redentore, il riscattatore, il go’el è secondo Isaia quel Dio che è venuto a riprendersi la sua sposa (Is 54,5). È la speranza che queste nozze messianiche rinfocolano nel cuore di Israele e della Chiesa e che ad ogni tornante della storia, personale e collettiva, si rinnova e riprende quota, soprattutto davanti a situazioni esterne altamente contrastanti e contraddittorie.

Gerusalemme, città della pace, vive la guerra. Un mondo di guerra che sta facendo tornare terribilmente indietro le lancette della storia. Eppure la vedova profetessa sa vedere oltre, vede già il messia che nasce, il futuro di pace dentro al travaglio della storia. E lo testimonia senza paura.

La vedova del tempio (Mc 12,41-44)

Gesù osserva (theoreo). È un verbo che esprime bene l’analisi della situazione che Gesù va facendo nel tempio di Gerusalemme, dal suo punto di vista privilegiato. Non si limita a registrare e descrivere i fenomeni esteriori e rituali, il funzionamento della macchina cultuale, amministrativa ed economica del tempio. Penetra invece nel cuore delle intenzioni profonde delle persone, nelle loro coscienze e cerca di leggerne le motivazioni e le spinte interiori. Laddove prevale il segno (l’offerta congrua, importante, onerosa) emerge il rischio dell’esteriorità, del formalismo e, ancor peggio, del narcisismo, ossia di una religiosità che si accontenta di ricavare gratificazioni dall’approvazione altrui, dalla scena, dall’apparire. L’essenziale invece non è messo in gioco: è tutto quanto un meccanismo per difendere il nostro status quo, il nostro equilibrio, la nostra pace apparente: è il superfluo che viene dato a Dio…non l’essenziale.

Quando nella pastorale prevalgono i numeri, le folle e in tutto questo ci si accontenta delle funzioni e delle prassi senza rinnovarle da dentro, ci troviamo dentro a quest’analisi profetica di Gesù: diamo il nostro superfluo, per mantenere degli equilibri confortanti, gratificanti.

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Cosa contraddice tutta questa scena? Un dettaglio apparentemente insignificante, che molti presenti alla scena probabilmente non avevano nemmeno notato, presi dallo splendore delle delegazioni familiari presenti nel contesto.

Si tratta di una donna vedova, che mette due spiccioli, tutto quello che aveva per vivere, tutta la sua vita, nel tesoro del tempio.

Questa donna non ha nulla di appariscente e non ha alcun obiettivo di protagonismo. Nulla da difendere di sé stessa o per sé stessa: compie l’unica cosa che conta e che, nella sua semplicità, anticipa addirittura l’offerta che Gesù farà di sé stesso nella passione: dona la sua vita.

Qui si rigenera fin dall’inizio, fin dall’origine, il tessuto ecclesiale, come se questa donna avesse già attinto forza da Gesù per compiere il gesto che ha compiuto, figura di una Chiesa che sta per essere generata dalla passione, morte e resurrezione di Gesù.

Il dono della propria vita, come essenza della consacrazione, è al cuore della Chiesa e della sua pastorale.

Prima che molteplici attività pastorali, la consacrazione vedovile esprime bene quest’anima radicalmente consegnata al proprio sposo, da cui procede non qualche percorso specifico, ma tutto un essere di Chiesa.

Abbiamo bisogno di comunità che vivano l’essere della Chiesa e non il fare.

Abbiamo bisogno di comunità capaci di esprimere quest’offerta totale, fiduciosa, piena, al Signore della vita, anche in assenza del proprio sposo, del proprio presbitero o parroco.

Abbiamo bisogno di comunità che non vivano lo sguardo nostalgico legato al fare e al tempio, ma piuttosto uno sguardo purificato in grado di curare l’interiorità, il cuore, il cammino di ciascuno verso Dio.

La siccità e la vedova di Sarepta (1Re 17,1-24). Meditazione per ritiro ordo viduarum

Il tempo della carestia, con cui inizia il ciclo di Elia, è il rib (accusa) di Dio verso Acab e il Regno del Nord, il Regno di Israele. L’inizio di questo ciclo è improvviso e senza preparazione: non c’è una presentazione di Elia, non c’è un incarico esplicito che Dio dà al profeta, non c’è un invio ad Acab. Tutto è messo in movimento dalla Parola del profeta, che si mostra nella sua piena valenza accusatoria, appunto come un rib. Di cosa si tratta?

Il rib è una procedura giuridica di accusa che non si svolge in un tribunale o alla porta della città, ma nel contesto stesso della vita, per ottenere una riconciliazione e un risarcimento alla parte lesa. In questo caso è Dio stesso che si presenta come parte lesa: l’alleanza è stata unilateralmente infranta dal popolo e dal re che lo rappresenta, senza alcuna motivazione plausibile. La politica di espansionismo e di accordi dei re, da Geroboamo in avanti, ha portato con sé una serie di matrimoni e di conseguenti importazioni di culti e divinità straniere. Il culmine di questa linea di equilibrio e alleanze nella politica del Regno del Nord si colloca con il matrimonio tra Acab e Gezabele. Questa regina ha intenzione di svellere totalmente la radice jahwista di Israele a favore dei culti cananei baalistici e il re Acab non pare in grado di mettersi contro questa politica della regina.

A questo punto, di fronte ad una tale distorsione dell’identità di Israele, il profeta interviene con la sua parola, una parola in grado di manovrare la creazione, di stabilire i tempi della pioggia e i tempi dell’aridità. Se Baal era il Dio della pioggia, che in un poderoso atto unitivo con la terra doveva seminarla, quale vitello d’oro, che con la sua forma e potenza sessuale rassicurava le tribù cananaiche, la parola del profeta mostra dove collocare le origini stesse della pioggia e della fecondità dei campi: nel Dio di Israele.

La carestia diviene allora lo sconvolgimento cosmico dovuto alla rottura dell’alleanza con Dio. Il cosmo si lascia modificare e plasmare dalla parola del profeta, come già al tempo di Mosè con le piaghe esodiche e il passaggio del mare, per mostrare il disordine insito nella lontananza dell’uomo da Dio. Non che la siccità sia una punizione di Dio: essa è semplicemente la conseguenza del disordine che il peccato dell’uomo ha immesso nella creazione e che si manifesta in modo plateale, allora come oggi!

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Elia è allora qui ancor qui che una sorta di nuovo Mosè, proprio un nuovo Israele, che rivive nella sua carne l’esodo, il tempo dell’unione e del fidanzamento con Dio e ristabilisce anzitutto in lui, nella sua carne, le condizioni dell’originaria alleanza. Siamo ad oriente del Giordano, quindi al di fuori della terra di Israele, della terra donata da Dio al suo popolo. Qui Elia rivive l’esodo: un tempo di deserto, prima di rientrare nella terra di Dio, un tempo in cui abituarsi ad obbedire quotidianamente ad una parola che viene dall’alto e che nutre ogni giorno, fidandosi di questo quotidiano nutrimento. Nella sua carne Elia vive il nutrimento di Dio, attraverso il torrente Cherit e il cibo/pane portato dai corvi: in tal modo ristabilisce anzitutto in sé, nel suo corpo e nel suo cuore, l’alleanza con Dio, attraverso il medium della creazione. Anche qui come nell’esodo questo pane consegnatogli dai corvi assume la funzione di una manna che viene da Dio: esso è cibo della terra, cibo degli animali, ma al contempo è dono di Dio, attraverso la mediazione degli animali stessi.

Il torrente poi diviene, pur nel carattere scarno del racconto, il luogo della regalità messianica, di una nuova umanità nutrita e dissetata da Dio: “lungo il cammino si disseta al torrente, perciò solleva alta la testa” (Sal 110,7). Questa riplasmazione dell’umano non potrà accadere però senza che l’alleanza si compia, in una sorta di ripresa non solo dell’esodo, ma anche della genesi.

In questa rinnovazione dell’alleanza messianica, che il profeta ristabilisce nella sua carne, e che riporta alle origini, è coinvolta una vedova a Sarepta di Sidone. La nuova umanità riplasmata dalla Parola di Dio e concentrata nel corpo del profeta ri-trova una piena significazione nell’incontro con la donna, una vedova, a Sarepta di Sidone. Israele e i popoli pagani sono come riassunti da questa coppia, lui e lei, il profeta e la sidonita, come a dire che quando Israele ritrova la sua vocazione profetica, ecco allora che ridiventa segno e strumento di comunione per tutti i popoli, un segno sponsale. Tutto questo però risulta qui dentro una figura di radicale povertà e spoliazione: il compimento passa attraverso la povertà del segno.

Si tratta anzitutto di una vedova: ella nella sua carne contraddice il segno stesso della sponsalità, che per lei è divenuto privazione e morte. È una vedova povera, come ogni vedova nell’antichità, esposta all’arbitrio maschile, per la mancanza di una protezione da parte dello sposo. Eppure il luogo della sua carenza, del suo bisogno, della sua esposizione all’altro, allo straniero, a colui che può dominare e abusare, viene visitato da Dio attraverso il profeta.

Quello spazio, lo spazio del bisogno, della mancanza, del vuoto, della solitudine, esemplificate dalla fame e dalla sete, viene improvvisamente abitato.

Ella non se ne rende subito conto. Il profeta quando arriva chiede. Chiede acqua (ricordate Gesù con la donna di Samaria?) per dare però la sua acqua, quella della Parola. Poi chiede cibo: e qui la donna mostra tutta la sua situazione di prossimità alla morte. Solo un po’ di farina e un po’ di olio. Nient’altro. Mangeremo e poi moriremo: è un cibo che dà la morte, la donna non aspetta più nulla se non di morire, perché la promessa della vita è stata definitivamente ribaltata nel suo opposto, nella morte, per lei e per il figlio.

È qui che la Parola del profeta interviene, con la sua forza di dono totale: “la farina della giara non si esaurirà e l’olio dell’orcio non diminuirà”: il profeta chiede alla donna una fiducia totale. Davanti alla morte solo donandosi si accede alla vita. È così che la donna, proprio accettando di mettere il profeta davanti a sé, proprio donando la vita di sé stessa e di suo figlio ed esponendola radicalmente al potere della Parola dentro alla morte, lascia agire la Parola come potenza di vita.

La Parola non permette all’olio e alla farina di esaurirsi. La Parola del profeta si compie!

La vedovanza della donna, il suo bisogno, la sua carenza, la sua esposizione alla morte, diventa così luogo di accoglienza della vita, luogo di un riscatto, perché la Parola di Dio possa prendere il sopravvento. Questo accadrà anche nell’episodio successivo, quello della morte del figlio e del suo risuscitamento: attraverso la morte e resurrezione del figlio, la donna riconosce il profeta. Ella trasforma l’attesa della morte nell’accoglienza del dono della vita.

Nel riconoscimento del profeta ella stessa diviene profetica, accoglie il dono del Dio di Israele. La sua vedovanza riceve una nuova funzione, quella di annunciare la sponsalità del Dio di Israele, nel quadro ampio del rapporto tra Israele e i popoli pagani.

Lo Spirito Santo è fuori moda (Omelia per cresime)

Vi do la mia pace, non come la dà il mondo io la do a voi.
Questa frase che oggi pronuncia Gesù potrebbe essere un bel “motto” anche per la celebrazione della cresima, che oggi state per ricevere. Infatti il dono dello Spirito che riceverete con l’unzione del crisma è un dono di pace, un dono che costruisce la pace vera, nel nostro cuore e intorno a noi.
In che senso? Ci sarebbe quindi una pace vera e una pace falsa?
Se analizziamo le parole di Gesù, dobbiamo concludere che c’è in mezzo a noi, nella nostra società e nella nostra cultura un’idea falsa di pace che noi, anche inconsciamente, ricerchiamo. Questa idea falsa si può ricondurre, tutto sommato, a quella “sicurezza” che noi crediamo di ottenere quando siamo guidati dalle paure, nelle nostre scelte personali e comunitarie. La pace come la dà il mondo è frutto di un equilibrio, che è quello della paura: è ciò che spinge gli stati ad armarsi sempre di più per sentirsi protetti, difesi; è quello che fa investire tanti soldi in bombe sempre più sofisticate e distruttive, per generare un equilibrio con gli altri, un equilibrio fondato sulla paura.

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Anche nella nostra vita ci può essere una simile pace, quando le nostre scelte sono per lo più fondate sulla paura: ad esempio siccome ho paura di dover studiare troppo, scelgo una scuola “più facile” per le superiori. Ma non esiste una scuola più facile: le scuole, a volerle fare bene, sono tutte serie… Oppure questa pace falsa può esserci quando sono in gruppo con altri e mi adatto a fare con loro delle cose che non approvo e che io non farei mai, solo per non essere disapprovato, e magari preso in giro.


La pace come la dà Gesù è invece molto diversa da questa apparente ed esteriore sicurezza: essa è costruita sull’amore, sullo Spirito che Gesù dona.
Cosa vuol dire questo? Come posso riconoscere i segni di questa pace più vera? Ce lo dice Gesù stesso quando descrive nel Vangelo i segni dell’azione dello Spirito: lo Spirito paraclito, chiamato a stare presso di voi, con voi, vi insegna e vi ricorda tutto quello che Gesù ha detto. Cioè vi aiuta a pensare come pensava lui, ad agire come agiva lui, a vivere la libertà di figli che sentono di essere amati da Dio e che conoscono che Dio è amore. Gesù, come figlio di Dio, è stato un uomo autentico e libero, uno che ha costruito la sua vita non con i compromessi, ma obbedendo ai desideri più profondi e più veri del suo cuore.

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Lo Spirito Santo vi insegnerà ad essere uomini liberi.
Come? Attraverso i desideri del vostro cuore, i desideri che nascono in voi per il vostro futuro.
Ragazzi come voi vivono ancora nella loro pelle le conseguenze drammatiche della guerra: non desiderate costruire un mondo di pace?
Ragazzi come voi vivono ancora oggi situazioni di grande povertà, abbandono scolastico: non desiderate costruire un mondo più giusto?
Ragazzi come voi vivono in ambienti degradati, inquinati, a rischio di malattie: non desiderate costruire un mondo più sostenibile?
Cosa sognate di fare per il vostro futuro? Ma soprattutto chi volete essere? Forse donne e uomini liberi, generosi, che sappiano seguire e realizzare, in qualche modo, i desideri profondi del loro cuore?
Che sappiate seguire il fascino della bellezza, la curiosità che vi spinge a conoscere, il desiderio di essere protagonisti della vostra vita.
Lo Spirito Santo, ragazzi, è certamente fuori moda. Non ce lo nascondiamo. Il mondo di oggi vuole darvi la pace con altre cose, distraendovi dai vostri veri desideri. Vuole occupare il vostro cuore con migliaia di stimoli luccicanti, abbaglianti, che vi immergono in una nuova rete di dipendenze. E più siete dipendenti, dagli smartphone, dai social, dall’alcool ecc. più siete prevedibili e controllabili.


Lo Spirito Santo è fuori moda…perché vi vuole liberi. Liberi di stupire il mondo con i vostri desideri, con la vostra fantasia, con la vostra gioia di vivere e di costruire un futuro migliore di quello che avete ricevuto dai vostri genitori.
Buon cammino con lo Spirito Santo: che vi accompagni a scoprire e realizzare i vostri veri desideri!

Il telescopio per vedere le stelle (Omelia II Quaresima)

Non è facile stare con Gesù. Si è sempre in cammino e nulla sembra così stabile da potercisi appoggiare e rimanere: né le amicizie, né i progetti di missione, né i lavori intrapresi, né la propria famiglia. Si è sempre costantemente in movimento, verso un oltre, che da significato a tutte queste relazioni e progetti, ma al contempo è anche in grado di superarli.

Dove si colloca questo oltre?

Ci offre una prima intuizione il racconto della trasfigurazione, che è pieno di percezioni visive, belle e intense. Gesù si trasfigura e il suo volto diventa “altro”, le sue vesti bianche e sfolgoranti. Si rivela in questa visione un “oltre”, che è una percezione vera e profonda dell’identità di Gesù e di conseguenza anche della nostra identità: una gloria che risplende come Figlio di Dio, come dice la voce dal cielo, e che ci indica anche la nostra chiamata ad essere e vivere sempre più come figli di Dio.

Un secondo indizio ce lo offre la prima lettura, in cui Abramo è invitato a vedere le stelle e a considerare che la sua discendenza sarà numerosa come le stelle, cioè praticamente innumerabile. Si tratta di un desiderio grande, rivolto verso il futuro.

Ma nella nostra vita tutta questa bellezza, questa volta stellare della nostra destinazione, dove la vediamo? Ci sono due possibilità, che dobbiamo sfruttare per dotarci del “telescopio” adatto a vedere le stelle.

C’è anzitutto una bellezza che di tanto in tanto noi possiamo sperimentare nello stare con Gesù, nell’incontrarlo nella preghiera personale, nell’intimità con lui. Ma c’è una bellezza che possiamo sperimentare anche al di fuori della preghiera, in qualche momento di intimità nelle nostre relazioni, con la nostra famiglia, con alcuni amici. Si tratta di percezioni immediate del mistero di Dio, che risplende nell’altro, l’esperienza di un “di più” che ci attraversa in questo momento e che non possiamo possedere, ma da cui ci lasciamo come attraversare. Un di più che dona luce e che apre un orizzonte infinito di futuro. Un di più che ci abita e ci fa percepire improvvisamente il senso del nostro esserci e della nostra vita, il nostro essere “figli” e una certa misura di gloria presente in noi. Queste sono esperienze di trasfigurazione, di cui è bene ringraziare, per mantenerle vicino al cuore e nella propria memoria, e lasciarci aiutare e sostenere da esse anche nel momento della prova, dei dubbi e delle angosce.

In secondo luogo ci sono i nostri desideri che ci aiutano a guardare lontano, come Abramo. Avere grandi desideri non è qualcosa di immaturo, come i bambini. Sono i grandi desideri che motivano le azioni concrete di ogni giorno e ci rendono capaci di gioire anche dei piccoli passi che compiamo o constatiamo.

Quando nasce un figlio, il grande desiderio che i genitori hanno della sua crescita, della sua futura autonomia e realizzazione, li porta a esultare per ogni piccola conquista di ogni giorno: la prima parola pronunciata, il primo passo in piedi, le prime frasi complete, i primi riscontri positivi delle maestre dell’asilo e della scuola ecc.

E se qualcuno non potesse avere figli, ci sono nella propria vita desideri di fecondità, di servizio, di relazione, al lavoro, in famiglia, nel volontariato, che si possono realizzare nelle relazioni di aiuto, soprattutto verso i più piccoli, verso chi ha bisogno e nel contemplare il mistero della loro vita.

Ognuno di noi, dal grande desiderio che coltiva nel suo cuore, può trarre il senso di ogni cosa semplice e buona che vive nella giornata e vedere in essa la presenza, l’incarnazione di questo desiderio, in fondo di Dio stesso. Anche andando a fare la spesa, posso de-siderare, far scendere questo desiderio dalle stelle, e sentirlo presente mentre guardo le persone e le presento a Colui che è la fonte di ogni vita e di ogni significato.

Quindi dotiamoci di questo “telescopio”: si chiama fede ed è gratuita! È un tesoro disponibile anche per chi crede di non averlo e di non vedere. Con qualche aiuto lo si può scorgere dentro alle proprie nostalgie, desideri profondi, sentimenti di mancanza: è come una freccia che tira ciascuno di noi verso una pienezza sconosciuta. Una freccia che nessun dolore e nessuna sconfitta potrà mai distogliere dal suo obiettivo.

Vedere con il cuore (I domenica di Quaresima)

Il cuore è l’unico organo che sa vedere fino in fondo: infatti la nostra vista può prendere degli abbagli e appoggiarsi a delle illusioni.

La prima domenica di Quaresima, con le tentazioni che Gesù affronta e vince, ci aiuta proprio a guarire il nostro sguardo dalle illusioni, per connetterci al cuore.

 “Se sei Figlio di Dio, dì che queste pietre diventino pane”: propone il diavolo a Gesù: si tratta di gestire l’essere figlio di Dio come un potere in proprio, come qualcosa di autonomo, che gli permette nutrirsi da solo. È una contraddizione ed anche una menzogna: perché un Figlio non può vivere che del Padre.

Allora la prima illusione è l’autosufficienza: penso di bastare a me stesso e di guadagnarmi tutti gli strumenti per poter andare avanti da solo, senza avere bisogno di nessuno. Questa illusione si traveste anche di falsa generosità: ciò che conta è essere ricco, poi posso aiutare il prossimo. Ma il Signore ci aiuta a vedere con il cuore: “non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che proviene da Dio”. Non sei onnipotente, autosufficiente: scopri invece la bellezza della tua povertà, di dipendere da qualcun altro, di essere una creatura che ha bisogno di amore, di tenerezza, di calore, di stima. Questo amore che ti circonda è una parola che Dio ha pronunciato per te: riconoscila e allora imparerai a dare amore nella tua povertà.

La seconda illusione è quella del potere: “ti darò il potere di tutti i regni del mondo e la loro gloria se, prostrandoti, mi adorerai.” Cerco un ruolo che mi permetta di influire sugli altri, e una volta che ho il potere penso che potrò fare tanto bene. Non si tratta di politica: anche lavare i panni ai propri figli grandi può essere un potere, che influisce su di loro e a cui ci si può affezionare in modo disordinato, per legarli a sé. Gesù può vedere con il cuore e ci dice: solo Dio può fare tutto e il vero potere è il suo, è il potere della vita, che noi possiamo solo servire, facilitare con le nostre parole e azioni. Se invece pretendiamo di dare la vita col nostro potere umano, finiamo per dare la morte, per abusare e fare le guerre.

La terza illusione è quella del delegare tutto a Dio, come se lui fosse un tappabuchi. È la più insidiosa, per questo è messa per ultima da Luca: è la tentazione dei buoni che li spinge alla passività, all’accidia, al non far nulla, perché tanto siamo impotenti e poi ci pensa Dio…così evitiamo di sbagliare, di comprometterci, di sporcarci le mani. Se poi inciampo, se sbaglio, se faccio male, è colpa di Dio, perché lui non mi ha aiutato, non mi ha impedito di fallire.

Anche qui Gesù ci educa a vedere con il cuore: il Signore mi ama come persona libera e la mia responsabilità e libertà sta nell’amare e restituire ciò che ho ricevuto con tutte le mie forze, con tutta la mia persona. Posso sbagliare, ma se sbaglio e riconosco il mio errore senza usare Dio come un parafulmine, sono in grado crescere nei miei errori. Posso fallire, ma se riconosco il mio fallimento con responsabilità, senza scaricare su altri le mie colpe, sono in grado rialzarmi e godere di ulteriori possibilità.

Vedere con il cuore, pregare con il cuore, agire con il cuore si può riassumere nella seguente massima.

Agisci come se tutto dipendesse da Dio e prega come se tutto dipendesse da te. Metti in campo tutta la tua responsabilità, ben sapendo che tutto dipende da Dio e affidandoti a lui. Affidati a Dio con tutto te stesso nella preghiera, ben sapendo che lui ti chiede dare il meglio di te, di coltivare i tuoi doni e la tua responsabilità!

Siamo solo una bilancia? (Omelia VII TO Anno C)

La Bilancia.
Una volta aveva due piatti, uno a destra e uno a sinistra, per confrontare il peso degli oggetti con dei pesi di metallo, misurati precisamente. Per avere il dato esatto bisognava che i due piatti stessero bene in parallelo.
Applicando il medesimo principio ad altri ambiti della vita, si hanno rapporti di scambio, ad ogni livello che, sino ad un certo punto, sembrano funzionare.
Per acquistare un prodotto devo fornire una quantità di denaro corrispondente al suo valore; per avere un certo ammontare nello stipendio devo lavorare un certo numero di ore; per superare un esame con un certo numero di pagine devo studiare un certo numero di ore ecc. Possiamo vivere questa dimensione anche nelle relazioni: se qualcuno mi offre qualcosa, sarò più disponibile a fare anch’io altrettanto, sia un caffè o un pasto o un passaggio in macchina.


E se qualcuno mi fa del male, mi offende, mi ferisce, mi delude tradendo la mia fiducia e stima nei suoi confronti? Potrei anch’io essere tentato, non solo di allontanarmi da lui, ma di restituire, come si suol dire, pan per focaccia. Se non con i fatti, almeno a parole, mettendolo in cattiva luce e sfogandomi con gli amici.
È talmente normale agire così, che le parole di Gesù sull’amore del nemico ci sembrano provenire da un altro pianeta. La liturgia poi ci provoca perché mette come seconda lettura la contrapposizione tra l’uomo celeste, quello che nasce con la resurrezione di Cristo e l’uomo fatto di terra. E noi cadiamo nella trappola: il messaggio di Gesù sembra così celeste, da essere utopico e irrealizzabile. La rabbia che in certe occasioni abbiamo provato salta di nuovo fuori e rifiuta di essere incanalata in una proposta che finisce per fornire all’altro nuove occasioni per farmi del male. A che pro? Non è disumano?
La proposta di Gesù andrebbe vista da un altro lato, più umano, più vero, meno teorico. Dovrebbe partire proprio dalla nostra rabbia, per incanalarla nel modo giusto: non verso la persona che ci ha offeso, ma verso quel sistema di rapporti personali che vede tutto in modo “funzionale”, che non ha nulla di vero, di gratuito, di realmente umano al suo interno. Solo una bilancia.
La proposta di Gesù nasce dal bisogno profondo in noi di autenticità e gratuità nelle relazioni umane: vogliamo essere accolti così come siamo, coi nostri pregi e con i nostri difetti, perché solo così ci sentiamo amati veramente. E allora perché non tentare di vivere questa prospettiva anche con gli altri?
La proposta di Gesù nasce da un senso profondo di libertà interiore: dobbiamo sempre comportarci secondo una legge oggettiva, in modo così prevedibile e spesso stupido, ricambiando occhio per occhio e dente per dente, o forse possiamo vivere il conflitto con più fantasia, interrompendo la spirale delle ritorsioni con un gesto diverso, spiazzante, sorprendente, che faccia appello al cuore dell’altro e al suo stesso bisogno di libertà e di amore?
Porgere l’altra guancia non è una legge: sarebbe un inaccettabile moralismo. È invece un esempio di gesti che possono rendere più umana l’accusa, in modo da aggirare le difese dell’altro, appellandosi alla sua parte più vera e umana, al suo cuore.
Ci sono persone che hanno perdonato gli uccisori dei loro familiari, e la loro vita è stata da quel momento più felice.
Ci sono paesi che invece di dividersi gli uni contro gli altri, si sono uniti, memori delle guerre del passato, e da quel momento sono stati più prosperi.
Ci sono culture che, invece di condannare le diversità, le hanno accolte e interpretate al loro interno, e da quel momento sono state più ricche.
Contro la cultura, solo apparentemente razionale, del taglione che porta la morte, Gesù ci propone la cultura della vita. L’invito di Gesù non è ad essere come Dio: piuttosto è Lui che ci dona l’amore, dando la vita per noi. Solo con Lui possiamo aprire gli occhi a nuovi orizzonti e fare qualche piccolo passo verso la cultura della vita!

Maledetto l’uomo che confida nell’uomo

Scoppierà questa guerra oppure no?

La verità è che non ci si parla più o ci si parla con atti di sfida ed esercitazioni di potenza militare e in un contesto come questo davvero sembra che una piccola miccia possa far scoppiare tutto. Abbiamo infatti fiducia solo nella logica della forza e delle armi. Tra pandemia, crisi energetica, crisi diplomatica il mondo sembra diventato poco sicuro e l’unica ancora di salvezza sembra essere il dispiegamento della potenza militare.

Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, dice Geremia, perché è come un albero nel deserto, che non può sopravvivere, non può essere alimentato. Il profeta sembra indicare proprio questo, ossia  una sicurezza ottenuta attraverso l’uomo forte e l’esercito potente. Sicurezza fragile, che diventa la maledizione della guerra. Ciò accade anche quando un’autorità si arroga il diritto di essere l’unico punto di riferimento ed elemina gli oppositori e quelli che la criticano: allora siamo di fronte al rischio della sopraffazione e della violenza. Le istituzioni umane possono essere oggetto di una fiducia ragionevole, sempre sottoposta a verifica, a confronto, a dibattito: è il sale della democrazia, che anche per il pensiero sociale della Chiesa è la forma di governo migliore, perché può più garantire il rispetto dei diritti umani. Questa critica però non significa qualunquismo, disprezzo dei politici, condanna senza appello di tutti, cosa che non ha nulla di ragionevole, anzi alimenta il desiderio, ancora una volta, di confidare nell’uomo forte.

Questo circolo illusorio di fiducia malriposta nell’uomo è proprio quel che Gesù afferma parlando dei “guai”. Guai ai ricchi, non significa una condanna della ricchezza e delle proprietà. Significa invece la condanna di quell’atteggiamento spirituale che mi porta a confidare illusoriamente su ciò che possiedo, sui miei doni, sulla mia ricchezza, sul mio potere di influenza. E socialmente diventa il confidare sui nostri mezzi di potenza e sulle parole pesanti degli uomini forti. Senza troppo badare alla fragilità di queste parole e di questi mezzi che, in realtà, dice il Salmo, si rivelano poi come “pula che il vento disperde”. Nulla più dell’equilibrio e dell’umile consapevolezza dei limiti è necessario nell’uomo di Stato in momenti così delicati: ma questo comporterebbe anche la sapienza di conoscere e accogliere le proprie debolezze e quelle altrui.

E questa è propriamente la beatitudine, l’opposto dei guai. Beati voi poveri, voi che avete fame, voi che piangete, perché vostro è il Regno di Dio, regno di gioia e di sazietà che provengono da un dono dall’alto. Qual è la forza in cui confidare, il punto d’appoggio, l’ubi consistam del beato?

Gesù non ci ha salvato con dimostrazioni di forza e sapienza, ma con la debolezza della croce, perché proprio nella nostra debolezza e fragilità potesse risplendere con più forza l’amore di Dio.

 Allora essere beati non vuol dire vivere sicuri e senza preoccupazioni: vuol dire piuttosto percepire, proprio dentro alle nostre debolezze quotidiane, la costante presenza di un amore che ci salva e allora puntare tutto su quel desiderio che Lui ci suscita. Lui è l’unico su cui possiamo confidare, Lui l’unico che può far vibrare il nostro cuore di un desiderio che ci solleva e ci rialza proprio nel momento in cui ci sentiamo più sconfitti e falliti. Questa è la beatitudine che allarga il nostro cuore e lo rende accogliente verso ogni uomo, partendo dalla parte più vera e profonda di lui, ossia dalla sua debolezza, dal suo bisogno di essere accolto e nutrito da uno sguardo d’amore.

Questa beatitudine ha poi effetti sociali nella misura in cui impariamo a non confidare più in noi stessi come popoli e nazioni e ad accoglierci reciprocamente come fratelli. Fratelli tutti, dice il Papa, e non è un’utopia, ma una realtà che può essere concretamente vissuta e realizzata.

Certo, non mancheranno fame, lacrime e un senso struggente di attesa e mancanza.

Ma sappiamo anche che, se confidiamo in Lui, il nostro cuore sarà come albero piantato lungo corsi d’acqua e, a suo tempo, quando il Signore vuole, daremo frutto!

Lo sguardo di Dio su di noi, dal vangelo secondo “Drusilla”

Non è facile entrare in contatto con la propria unicità: i talenti vanno allenati, seguiti. Delle proprie convinzioni bisogna avere la responsabilità. Delle proprie forze bisogna avere la cura.Immaginatevi quanto si comincia con i dolori che vanno affrontati, le fragilità che vanno accudite. Non è facile entrare in contatto con la propria unicità. Come si fa a tenere insieme tutte queste cose? Io un modo ce lo avrei: si prendono per mano tutte le cose che ci abitano, quelle belle e quelle che pensiamo siano brutte e si portano in alto. Si sollevano insieme a noi, alla luce del sole, in un grande abbraccio innamorato. E gridiamo, che bellezza. Tutte queste cose sono io! Dal monologo di Drusilla, Festival di San Remo 2022.

Dio ci fa paura? Le sue proposte ci sembrano pericolose e preferiamo affidarci ai nostri calcoli prudenti e ai nostri tentativi di controllo? Troppo misterioso per essere manipolabile e troppo vicino per non conoscere le nostre fragilità, Dio può apparire davvero un azzardo.

Qualcuno, per sbarazzarsi di questa paura e di questo azzardo, preferisce sbarazzarsi di Dio, o almeno di una cosciente frequentazione di Lui (perché nel cuore il desiderio è incancellabile).

Nella prima lettura e nel vangelo abbiamo due testimonianze della paura di fronte a Dio, alla sua voce, alla sua manifestazione misteriosa e alla sua chiamata. Sono Isaia e Pietro.

Entrambi provano timore e insieme una profonda consapevolezza della propria fragilità e lontananza da Dio, di fronte alla sua presenza. Isaia dice: sono un uomo dalle labbra impure; Pietro dice: allontanati da me, che sono un peccatore.

Non si tratta per Pietro, né per Isaia, di alcuni peccati particolari, ma della chiara percezione della propria “inadeguatezza” a stare davanti a Dio e forse anche della paura di fronte ad una presenza così grande da non poterla controllare.

In entrambi i casi Dio reagisce facendo loro fare un cammino di purificazione, ossia di trasformazione, che converte la paura in un’esperienza d’amore riverente. È il famoso timore di Dio, che non è più paura, perché la forza del peccato è ormai vinta dall’amore di Dio. Il cuore conserva la percezione della grandezza di Dio e della nostra piccolezza e umiltà ma, al contempo, quella paura eccessiva di Dio scompare e rimane la percezione di essere amato e incoraggiato ad andare, a camminare avanti, nel mistero della vita, ascoltando sempre quella voce che chiama.

Dove chiama?

La direzione è contenuta nel segno stesso rivolto a Isaia e a Pietro: per il primo un carbone ardente che purifica le labbra, perché egli possa rivolgere al popolo la Parola stessa di Dio; per il secondo le parole di Gesù: “non temere, ti farò pescatore di uomini”.

La chiamata del profeta è quella di portare Dio agli altri, attraverso la propria persona e la propria parola. È una proposta che Dio fa a ciascuno di noi, di fiorire lì dove il Signore ci ha chiamato, nel contesto delle relazioni in cui siamo inseriti, ma portando la novità radicale di noi stessi, contenuta nel nostro cuore: la novità di Dio.

Per Pietro la chiamata è quella di diventare “pescatore di uomini”. Il termine greco per indicare “pescatore” significa “prendere vivo” qualcuno. Quindi per Pietro si tratta di prendere i pesci e di farli vivere, di portarli alla vita.

È una potenza, quella del Vangelo, che non dipende da noi: non è qualcosa che possiamo utilizzare o chiamare a nostro piacimento, quando ci va. È invece, come dice san Paolo, una corrente vitale nella quale siamo inseriti non da soli, ma come comunità, dentro ad un annuncio che ci è arrivato e che spetta a noi consegnare agli altri mantenendolo nella forma in cui l’abbiamo ricevuto, ossia l’annuncio che Gesù è morto ed è risorto, secondo quel progetto d’amore contenuto nelle Scritture e che ci rivela che Dio è Padre e ci ha consegnato tutto di lui, ci ha consegnato suo Figlio.

E in lui, nel suo Figlio, anche ciascuno di noi è figlio unico, amato in modo particolare e speciale.

Come cristiani in questo momento siamo chiamati a rialimentarci a questa corrente vitale, che ci fa scoprire la nostra meravigliosa chiamata, la nostra unicità dentro a questo messaggio d’amore di Dio. Vorrei qui citare Drusilla, che ha bellissime parole sulla nostra unicità e lascia trasparire lo sguardo del Dio d’amore su ciascuno di noi: “Non è facile entrare in contatto con la propria unicità: i talenti vanno allenati, seguiti. Delle proprie convinzioni bisogna avere la responsabilità. Delle proprie forze bisogna avere la cura.Immaginatevi quanto si comincia con i dolori che vanno affrontati, le fragilità che vanno accudite. Non è facile entrare in contatto con la propria unicità. Come si fa a tenere insieme tutte queste cose? Io un modo ce lo avrei: si prendono per mano tutte le cose che ci abitano, quelle belle e quelle che pensiamo siano brutte e si portano in alto. Si sollevano insieme a noi, alla luce del sole, in un grande abbraccio innamorato. E gridiamo, che bellezza. Tutte queste cose sono io!”

Profeta o capo politico?

In questi giorni si sono tenute le consultazioni per l’elezione del Presidente della Repubblica. È normale che vi sia un certo tatticismo tra le parti. Il limite infatti di ogni leader è che, dovendo rappresentare gli interessi di tanti, finalizza le sue posizioni al consenso. È allora difficile guardare ad un accordo che superi le parti, che si orienti prioritariamente al bene comune. Ci vorrebbe un po’ più di capacità profetica da parte dei nostri leader, ossia di lavorare per compromessi alti, dotati di visione, non partendo necessariamente da un calcolo di immagine sul successo della trattativa.

Il profeta infatti non ha bisogno del consenso e quindi può parlare per smuovere il cuore dell’interlocutore da aspettative sbagliate, da giudizi erronei, limitati, di parte. Egli in questo modo può produrre anche sconcerto, addirittura rifiuto sul momento, e solo dopo si potrà vedere che la sua parola era pertinente e si sarebbe in qualche modo realizzata.

È ciò che accade a Gesù nel suo seggio elettorale, Nazareth.

Tutti gli chiedono segni, che lo accreditino ai loro occhi come il profeta di Nazareth e rinfocolino la loro identità e il loro culto del capo. Gesù non si lascia intrappolare da questa pretesa, anzi cita episodi biblici di Elia ed Eliseo, che mostrano il suo interesse ad andare oltre i limiti non solo di Nazareth o della Galilea, ma di Israele stesso. La sua missione non ha confini e si rivolge al cuore di ogni uomo, varcando tutti i muri e le divisioni culturali e religiose.

Un messaggio difficile per i poveri nazaretani.

Un messaggio difficile anche per noi.

Il profeta infatti, sul modello di Gesù, sa guardare il cuore delle persone, oltre alle apparenze, e osa credere nella bontà dell’uomo, anche quando tutte le circostanze sembrano contrarie, anche quando l’opinione prevalente è diversa, anche quando c’è la paura di confrontarsi con situazioni personali difficili, faticose, in cui ci si sporcano le mani.

Siamo vicini alla ricorrenza di don Giovanni Bosco: un uomo che ha accettato di sporcarsi le mani, cercando ragazzi difficili, iniziando a partire dalle situazioni di marginalità sociale, dalle ragazze carcerate, dai giovani sulla strada. E si è procurato molti fastidi e difficoltà per questa sua attività, per questo suo “stare” nelle situazioni. Anche noi dovremmo reimparare anche noi a “stare” con i giovani: quanto deserto, quanta desolazione in questa loro chiusura nelle case, quanti problemi umani, psicologici e quanta voglia hanno i ragazzi di tornare a frequentarsi, a stare insieme. Cerchiamoli, invitiamoli, accompagniamoli…non verranno tutti, non avremo i gruppi grandi di prima. Pazienza…ma intanto non abbiamo avuto paura di cercarli, di stare nella loro vita e nelle loro fatiche.

Ampliando il discorso da don Bosco e da tutti i profeti imparare a “stare” nelle contraddizioni, nelle difficoltà, nei conflitti, nei problemi che la gente ti racconta, senza pretendere di risolverli, ma con l’atteggiamento dell’ascolto, che comunica una fiducia di fondo nelle potenzialità della vita. Come Elia dalla vedova di Sarepta di Sidone…gli ha dato la fiducia che l’olio nell’orcio non si sarebbe esaurito. E così è stato!

Oggi come Chiesa siamo chiamati anche a “stare”…anche se non abbiamo tanti risultati visibili. Come questo sinodo…non ci aspettiamo cambiamenti pastorali enormi o di trovare la chiave che risolve ogni problema pastorale

Ci aspettiamo invece un atteggiamento di ascolto che cambia anzitutto il nostro cuore e ci allena a stare con amore nelle situazioni della gente, con attenzione soprattutto a chi è più fragile e a chi ha bisogno di consolazione e di accompagnamento.

La Parola che mi libera (Lc 4,1-4.14-21)

Poiché molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni oculari fin da principio e divennero ministri della Parola, così anch’io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teòfilo, in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto.
In quel tempo, Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione. Insegnava nelle loro sinagoghe e gli rendevano lode.
Venne a Nàzaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaìa; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto:
«Lo Spirito del Signore è sopra di me;
per questo mi ha consacrato con l’unzione
e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio,
a proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista;
a rimettere in libertà gli oppressi

e proclamare l’anno di grazia del Signore».
Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».

Gesù va in sinagoga ogni sabato, da buon ebreo. Ma questa volta ci va in modo diverso e con un’autorità diversa, che egli può esercitare nello Spirito Santo che riposa stabilmente su di lui, dal momento del battesimo ricevuto da Giovanni. Gesù può leggere e commentare la Scrittura, in particolare il profeta Isaia, e nello stesso tempo mostrare il compiersi di quella Parola di Dio nella sua vita, per la potenza dello Spirito Santo.

Si tratta di una Parola che annuncia e realizza due enormi doni: la liberazione e la vista. La liberazione da tutte le forme di schiavitù che ogni uomo subisce, per paura del male, delle malattie, della morte, della violenza e del potere altrui. La vista per coloro che sono ciechi è la rinnovata capacità di vedere il bene nella propria vita e di lottare per costruire un futuro.

Mentre Gesù pronuncia questa parole di Isaia, si attiva attraverso di lui una potenza di liberazione e guarigione, che da questo momento in poi entra nell’umanità liberandola progressivamente dal potere del male.

Quando lo sperimentiamo e viviamo anche noi? Sono passati 2000 anni e nulla sembra davvero cambiato nel mondo, per la presenza del bene e del male. Luca ci offre una risposta nella prima parte di questo Vangelo: è l’annuncio della Parola, che noi possiamo accogliere nel nostro cuore quando leggiamo e ascoltiamo il Vangelo, a produrre in noi quei frutti di liberazione e quello sguardo rinnovato sulla vita, di cui abbiamo tanto bisogno.

Possiamo allora chiederci. Da cosa oggi desidero essere liberato? Da quali chiusure, paure, difficoltà? Perchè non offrirle oggi al Signore, per sperimentare quella maggiore libertà interiore che proviene da Lui?

(MEMORIA) Rileggo più volte il brano di Vangelo, cercando di sostare su quelle frasi, espressioni, parole che toccano le corde più profonde della mia interiorità. Esse nel loro complesso costituiscono una Parola che Dio oggi mi rivolge personalmente.
(INTELLIGENZA) Cerco di comprendere il significato di questa Parola nella mia vita, utilizzando paragoni con il mio vissuto quotidiano e cercando di gettare qualche luce sul mio presente e prossimo futuro.
(VOLONTÀ) Oriento tutto il mio cuore a ciò verso cui mi porta la Parola e entro in una preghiera di supplica, ringraziamento, lode, a seconda di ciò che sento.