Racconta lo storico ebreo Flavio Giuseppe che quando il triumviro Pompeo entrò a Gerusalemme con il suo esercito nel 63 a.C. volle entrare anche nel Tempio, sebbene fosse a lui proibito. Accedendo al Santo dei Santi, dove solo al sommo sacerdote è concesso entrare una volta all’anno, Pompeo si meravigliò molto perché il luogo più santo dell’ebraismo si presentava a lui come una stanza praticamente vuota. Le due statue dei serafini si affacciavano infatti su un luogo vuoto, che segnalava l’assenza dell’arca dell’Alleanza. Sembra che Pompeo abbia pensato che davvero questa divinità doveva aver abbandonato un luogo così vuoto e assente.
La medesima percezione di assenza e di vuoto doveva aver sollevato la domanda di Maria di Magdala, alla vista della mancanza del corpo di Gesù: “hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto”, afferma Maria, identificando il Signore con il suo corpo morto e assente. Così anche Pietro entra per primo nel sepolcro e osserva le bende e il sudario piegato e riposto in un luogo a parte. Il suo sguardo è analitico e capace di soppesare gli indizi, fiutando l’improbabilità di un furto, dal momento che nessun ladro si sarebbe attardato a piegare e riporre il sudario in un luogo a parte; tuttavia anche Pietro rimane, per così dire, intrappolato da quel vuoto e da quel silenzio. Possibile che Dio si riveli nel vuoto e nell’assenza? Quale potrebbe essere il vero significato di quei segni?

Solo il Discepolo Amato è in grado, una volta entrato nel sepolcro, di vedere e credere. Il suo sguardo non rimane intrappolato e scandalizzato dal vuoto, dall’assenza, dalla mancanza, ma è in grado di trasformare proprio quel vuoto e quel silenzio in un segno e una parola capaci di riempire tutto lo spazio. È esattamente come la percezione di Isaia, nel tempio di Gerusalemme: egli nel vuoto del tempio coglie con gli occhi della fede la shekinah di Dio, la sua presenza-assenza regale, per cui sono sufficienti i lembi del mantello per riempire tutto.
Ma come fa il Discepolo Amato ad accedere a questa realtà? E perché proprio lui e non altri?
Il Discepolo Amato si ricorda della parola di Gesù: “nessuno ha un amore più grande di questo, dare la vita per i propri amici” e comprende che quel vuoto è attraversato e riempito da questa parola, in cui l’amore di amicizia è compiuto dal dono della vita, da un amore “agapico”, che fluisce senza ostacoli, comunicandosi oltre le barriere della morte. In questo amore c’è tutto l’eros e c’è tutta l’amicizia di una relazione umana, pienamente compiuta nell’assenza, nella libertà, nel lasciar andare. È questa Parola che riempie il silenzio e il vuoto e suscita il riconoscimento e la fede del Discepolo Amato. Perché proprio lui è in grado di giungere a questo punto e non ancora Pietro? Perché lui è l’Amato, ossia è costituito da quest’unico tratto d’amore, per cui la sua unica e vera identità è quella di essere destinatario di un amore di predilezione, unico ed indistruttibile. Quindi solo lui può riconoscere questa Parola d’amore, che risuona nel silenzio del sepolcro.
Egli è anche l’autore dello scritto evangelico, di quella Parola che si fa Scrittura ed è così capace di attraversare il vuoto e il silenzio dei tempi e delle generazioni, vincendo la sfida della morte.
Solo una Parola d’amore, capace di giungere alla pienezza del dono, vince la sfida della morte e si fa scrittura, vangelo, comunicazione piena di una vita senza fine, che oltrepassa tutte le barriere del tempo.
E questa Parola ha un nome: Gesù di Nazareth.
Egli è la Parola che ha piantato la sua tenda di carne in mezzo a noi.
Egli si è innalzato verso il Padre, attirando tutti gli uomini a sé.
Il Suo amore è fino al(la) fine, fino alla pienezza di tutto.
In Lui e nel Suo amore anche noi possiamo essere trasportati dalla potenza di questa Parola per una pienezza di vita che risuona già fin d’ora, nel silenzio dei nostri sepolcri.
