
La liturgia di oggi ci invita a meditare un po’ sulla cosiddetta “vocazione”. Ne abbiamo un’idea tanto grandiosa quanto mancante: la vocazione per essere da Dio, secondo noi, dovrebbe essere monolitica, sicura come una pietra, inscalfibile, data una volta per tutte e senza dubbi e tentennamenti; dall’altra parte questo modo di concepire la vocazione è completamente mancante della nostra umanità, con le sue fragilità e dubbi, con le sue alternanze e progressi, con le sue decisioni e i conflitti.
Ne fa esperienza il profeta Isaia, che sente di essere un uomo dalle labbra impure, cioè incapace di stare davanti alla bellezza e perfezione d’amore propria di Dio e ha bisogno di essere purificato da Dio stesso. Ne fa esperienza anche Pietro, che chiede a Gesù di allontanarsi perché ha paura della propria fragilità.
Ma da dove nasce la vocazione e come si presenta alla nostra attenzione umana? Con quali passaggi si manifesta?
Alla luce del vangelo di oggi, possiamo dire che la vocazione si esprima attraverso cinque passaggi, che procedono circolarmente e sempre in avanti, come in una spirale.
Il primo passo è la sua origine. Essa nasce anzitutto da una voce che arriva un po’ come dall’esterno, risuonando attraverso un invito, una proposta, un’esperienza che ci mette in contatto con l’altro e con Dio. Così accade a Pietro che, in un giorno qualsiasi, dopo una nottata di lavoro infruttuoso, risponde all’invito di questo sconosciuto maestro di poter parlare alla gente dalla sua barca, per evitare di essere schiacciato dalla folla. Pietro offre la sua barca, senza pensarci su. Il punto di partenza viene quindi dalla realtà della vita, che chiede a Pietro un’ospitalità, un’attenzione, e lo invita a farsi attento alla sua Parola.
In un secondo passaggio possiamo immaginare che anche Pietro, così come tutta la gente, si metta in ascolto della Parola del maestro e ne ricavi gioia, piacere, desiderio di ascoltare ancora: ne sente tutta l’autorità, a partire dalle risonanze interiori che questa Parola gli provoca. È una voce esterna, sicuramente, ma anche una voce interiore, che lo spinge a fidarsi di questa parola, e lo prepara a rispondere positivamente ad un invito tanto strano quanto insolito: pescare in pieno giorno! “Sulla tua parola, getterò le reti”.
Quindi nel terzo passaggio la vocazione, quando c’è consonanza interiore e si avverte un desiderio profondo, richiede anche uno sbilanciamento, un buttarsi anche lì dove non ci sono certezze, anzi sembrerebbe tutto un po’ paradossale e nuovo. Qui è in gioco la nostra libertà, di costruire qualcosa di nuovo, che non sappiamo ancora, di fidarci di un disegno che ancora non conosciamo e che saremo però noi a costruire, insieme con Dio.
Quando si da ascolto a questo e arrivano i primi frutti, può esserci gioia, pace, ma anche molto stupore e, se si sente chiaramente che ciò che arriva non dipende da noi, può subentrare anche un po’ di paura, unita ad un profondo senso di indegnità. È il quarto passaggio della vocazione ed è quello che accade a Pietro, che dopo la pesca miracolosa è talmente sbalordito da cadere ai piedi di Gesù e chiedergli di allontanarsi: lo prende la paura e il senso della propria indegnità, del proprio peccato, della propria fragilità. È solo lì, quando si prende consapevolezza di tutta la propria mancanza umana e indegnità, quando cadono tutte le maschere e si rimane nella completa debolezza, senza potersi più difendere, che allora risuona nel cuore l’appello più profondo della vocazione, della chiamata: “non temere, sarai pescatore di uomini”. È lì, nel quinto passaggio della vocazione, che è il culmine ed è anche un nuovo inizio, che comprendiamo che tutto questo non viene da noi, ma da qualcun altro, eppure che è in grado di corrispondere alla parte più profonda e vera di noi, rispettando e onorando la nostra umanità e il nostro percorso.
Solo così i pescatori potranno diventare “pescatori di uomini”, capaci di rispettare profondamente l’umanità e la libertà dell’altro e al contempo testimoniare una strada di pienezza e di amore.
