In tutte le religioni c’è sempre un monte, su cui l’uomo fa esperienza di Dio.
Nelle letture di oggi abbiamo due monti, il monte Moria, in cui Dio si rivela ad Abramo e il monte Tabor in cui Gesù si rivela ai suoi tre discepoli, Pietro, Giacomo e Giovanni.
C’è una profonda analogia tra le due esperienze di Dio e i due monti, perché in entrambi i casi si tratta di una rivelazione della vera immagine di Dio all’uomo.

Spesso infatti noi scambiamo il Dio della vita con un’immagine di morte, come se Dio ci chiedesse sacrifici impossibili o volesse farci attraversare prove superiori alle nostre forze, per poi giudicarci se noi non riusciamo a farcela. È infatti nella prova che noi ci confrontiamo con queste immagini di Dio: una fatica, una fragilità, una sofferenza, una mancanza improvvisa rompono certi equilibri e portano con sé molte domande, tra cui la più paradossale è: ma Dio vuole davvero la morte?
Anche Abramo ha vissuto tutto questo ed è andato fino in fondo, nella consapevolezza che Dio non vuole la morte ma la vita. E così ha accettato di mettere alla prova Dio, andando sul monte a sacrificare il figlio, perché Dio si rivelasse come il Dio della vita: Dio provvede l’agnello per l’olocausto, figlio mio! Questa è la grande fede di Abramo. È stato in quel paradosso del figlio atteso, ricevuto e richiesto da Dio che Abramo ha creduto fino in fondo nel fatto che Dio si rivelasse come il Dio della vita, fino al culmine del paradosso della morte. Così Dio si rivela come uno che vuole la vita, la gioia, la bellezza che, tradotto per Abramo, significa una generazione numerosa come le stelle del cielo.
Anche la trasfigurazione è questo: il segnale di una bellezza anticipata che deve reggere all’urto del dolore, della sofferenza e della croce che Gesù vivrà a Gerusalemme, una bellezza più forte della morte, segno di una futura resurrezione.
Gesù non ha dubbi su questo, la luce che splende in questa meravigliosa visione è per i suoi discepoli, che se ne dovranno ricordare dopo gli eventi della passione, per consolidare la loro fede in Gesù e comprendere che davvero quegli eventi sono parte di un disegno più grande, che culmina nella gioia e nella luce della resurrezione.
Anche noi abbiamo i nostri Tabor, solo che spesso non ce ne rendiamo conto: i momenti in cui siamo particolarmente stupiti delle persone accanto a noi, della nostra vita e siamo ancora in grado di meravigliarci di essere al mondo.
Oppure i momenti in cui riscopriamo con stupore il cuore della nostra chiamata, della nostra vocazione ad amare, spesso anche in mezzo alle prove e alle difficoltà. Sono esperienze di luce, in grado di illuminare anni di buio e di lotte interiori.
Sono tutti Tabor che dobbiamo riconoscere, doni di Dio che ci fanno capire quanto il Signore sia buono e non ci chieda nulla di diverso da ciò che siamo in profondità; ci fanno capire quanto il Signore ci voglia bene e quanto la nostra vita sia incamminata verso un amore grande e meraviglioso, pur in mezzo a fatiche e fragilità che facciamo fatica a spiegarci.
Forse dovremmo smettere di chiederci spiegazioni e imparare a vivere amando e ringraziando.
Ogni giorno educhiamoci a cogliere la bellezza intorno a noi: ci vogliono gli occhi della fede per farlo. Alla sera, prima di andare a dormire, preghiamo insieme, nella nostra famiglia, e chiediamo al Signore di aiutarci a riscoprire la bellezza nella nostra giornata: ognuno dica una cosa bella della giornata, che vale la pena rimettere nelle mani del Signore, per ringraziarlo della sua presenza in mezzo a noi e per gustare e vedere sempre di più “quanto è buono il Signore”.
