Come si può pensare alla pace in un tempo di guerra?
Spesso ci diciamo che dobbiamo portare la pace nelle nostre relazioni, una pace artigianale, che parte dal basso. Ed è vero, ma il problema della guerra, delle guerre che vanno avanti spietate, in Ucraina come in Israele, continua. E noi siamo presi da un senso di impotenza. E allora?
Se non vogliamo che i nostri gesti di pace quotidiani risultino essere un modo un po’ moralistico per chiudere la questione, per non avvertire un lancinante senso di impotenza, allora dobbiamo scendere più in profondità.
Non basta porre con le nostre azioni pensieri di pace e poi rassegnarci ad un mondo di guerra.
Alla pace dobbiamo credere con tutte le fibre del nostro essere. Come?
Possiamo riconoscere che Dio ha fatto pace nei nostri cuori e solo lui può portarla nel mondo. Il Natale non è la celebrazione di un fatto avvenuto 2000 anni fa, ma il segno di una presenza tutt’ora attiva nel mondo, che si esprime con la potenza dell’amore.
Qual è il Segno? Isaia ce lo profetizza: “un bambino è nato per noi”. Ed egli è il principe della pace.
Luca lo racconta attraverso la testimonianza degli angeli e dei pastori: “un bambino avvolto in fasce e adagiato in una mangiatoia”.

Come può un semplice bambino custodire in sé tutta questa potenza d’amore in grado di ribaltare la forza distruttiva della guerra? È davvero realistico pensare che, in questi duemila anni dalla sua nascita, sia accaduto un qualche cambiamento nella storia dell’uomo, che ci ha portato a diventare più buoni?
Queste sono le nostre obiezioni al Natale, quelle che risuonano nel nostro cuore, davanti al teatro della guerra. Allora dobbiamo approfondire il nostro ascolto della parola. Il profeta non ci dice affatto che non ci sono delle guerre, anzi ci dice che il popolo cammina nelle tenebre e che le calzature dei soldati marciano rimbombando. La situazione politica al tempo di Isaia è stata ricca di sconvolgimenti politici, invasioni militari, deportazioni, massacri. Anche al tempo in cui è nato Gesù, malgrado la pax romana, la terra di palestina non era affatto tranquilla, con rischi continui di sommosse ed insurrezioni. E allora?
Allora il profeta e l’evangelista ci dicono che la forza di quel bambino ha una potenza d’amore che, proprio passando attraverso tutte le ostilità e le fatiche, è in grado di far germogliare la pace. Questo bambino è un segno che porta con sé un cambio di sguardo sulla storia, capace di vedere l’altra faccia, quella meno conosciuta e raccontata, ma più fondamentale, quella dei segni di vita, di fecondità, di amore, di amicizia che reggono il mondo. Questi segni sono molto più forti di qualsiasi potere distruttivo, perché sono continui e capillari, e sono in grado di rigenerare un tessuto quotidiano relazioni anche dopo anni di ferite.
Certo ci vuole tempo; ci vuole perseveranza, ci vogliono gli occhiali giusti per leggere la vita, occhiali in grado di percepire quella gioia dello Spirito che i pastori provano al vedere il bambino. Non si può giudicare la storia solo con lo spirito della desolazione, dello sconforto, del cinismo, della rassegnazione alla violenza. Bisogna invece leggerla, all’opposto, con lo spirito di Dio, che è in grado di valorizzare la forza inesauribile della vita e dell’amore, proprio lì dove sembra dominare la distruzione.
La forza dello Spirito che si esprime nella vita è in grado di offrire segni di speranza sempre e dovunque, nella nostra vita e nella vita del mondo, e perfino tra israeliani e palestinesi. Volete qualche esempio?
Il 12 ottobre 2023 centinaia di donne palestinesie israeliane si sono radunate a Gerusalemme e sul Mar Morto, nella Cisgiordania occupata, chiedendo la fine dei conflitti israelo-palestinesi. Vogliamo la pace, hanno cantato le manifestanti, vestite di bianco e con cartelli con la scritta “Smettetela di uccidere i nostri figli”.

Imad Hamdan, un palestinese proveniente da una famiglia di rifugiati a Gaza, e Dalia, ebrea israeliana. Erano gli anni ’80 e Imad lavorava nei cantieri di Tel Aviv. A Dalia non erano particolarmente simpatici gli arabi, eppure – come in una storia d’amore che si rispetti – una volta conosciuto Imad se ne è innamorato e ha superato con tutte le forze ogni difficoltà, comprese quelle poste dalla sua famiglia d’origine.
Divenne virale, in piena pandemia, la foto di due paramedici, uno musulmano Zoher Abu Jama e l’altro ebreo Avraham Mintz, che pregavano insieme di fronte all’ambulanza su cui lavoravano ogni giorno. Fu allora il simbolo dell’unione di tutti nel raggiungere lo stesso importante obiettivo, nonostante le divergenze culturali e religiose, anche quelle più difficili da accantonare.
Siamo nel 2017 e mentre il conflitto israeliano-palestinese non accenna ad arrestarsi, a Gerusalemme l’infermiera israeliana Ula Ostrowski-Zak compì un enorme gesto di pace e amore tra i più belli allattando al seno il bimbo di una paziente palestinese in coma.
Questa è la forza del bambino, la forza della vita, della tenerezza, dell’amore, più forte di qualsiasi odio e violenza. Lasciamo che questa forza prevalga non solo in noi, ma anche nello sguardo con cui osserviamo il mondo intorno a noi.
