Smirne: il carattere gratuito e indeducibile del kerigma
(vv. 8-11): città antichissima situata in età ellenistica romana in un’insenatura nell’Egeo che la rende un porto accogliente e riparato, attraversato da intensi traffici commerciali tra il mare e l’interno della penisola anatolica. Essa sarà oggetto di due lettere scritte da Ignazio di Antiochia (verso il 110 d.C.); di Smirne parlerà anche il documento anonimo che racconta il martirio di Policarpo (prima del 170 d.C.). Qui i cristiani sono sempre stati oggetto di una fortissima resistenza, giudaica, già dai tempi dell’Apocalisse. Il Cristo risorto si presenta con gli stessi titoli che aveva mostrato il narratore in 1,17-18, ossia come il primo e l’ultimo, colui che è diventato morto ed è rivissuto, esprimendo così, tramite il riferimento al mistero pasquale, il pieno dominio sul tempo e sulla storia. Al v. 9 il risorto descrive la condizione sociale di questa Chiesa, che attraversa un tempo di sofferenza, afflizione e persecuzione continua: il termine che più caratterizza questa descrizione è ptocheia, che indica una povertà che raggiunge quasi l’indigenza e la mancanza di mezzi di sussistenza materiali. Ma questa situazione paradossalmente è descritta dal risorto come una ricchezza: si potrebbe vedere qui una ripresa delle beatitudini matteane dei poveri nello Spirito (cf. Mt 5,3). La povertà è condizione per confidare in modo più pieno e totale nell’accompagnamento e nella presenza del risorto e quindi diviene una ricchezza di fede.

La persecuzione di cui si parla qui con il termine “blasfemia” indica un parlare contro Dio, opponendosi alla sua rivelazione. Il soggetto di questa blasfemia è definita la “sinagoga di Satana”: si tratta di gruppi giudaici sinagogali che si oppongono alla comunità giovannea di Smirne. È interessante notare che il risorto nega a questi tali il titolo di “giudei”, ammettendo implicitamente che lo siano i credenti in Gesù (cf. 3,9). L’apocalisse si colloca qui in una via ancora precedente ad una definitiva separazione delle vie: essa si rivolge ad una Chiesa che si pensa come una comunità messianica giudaica, che ha colto in Gesù di Nazareth, morto e risorto, il messia di Israele. Questa attività blasfema potrebbe essere collegata alle motivazioni delle denunce che i giudei della sinagoga di Smirne presentavano all’autorità a danno della comunità giovannea, per indebolirla e minare il suo espansionismo crescente. Cristo annuncia anche una persecuzione di dieci giorni ai danni della Chiesa, con imprigionamenti di alcuni di loro: la durata ha probabilmente anche un significato simbolico, un tempo lungo ma limitato, a cui Dio porrà fine: la persecuzione non potrà durare per sempre e questo incoraggia i credenti ad affrontare l’afflizione con speranza e senza lasciarsi spaventare sino a retrocedere nel cammino della “via” cristiana.
Mi sembra qui importante sottolineare il carattere sempre nuovo e indeducibile, dal punto di vista culturale, del kèrigma cristiano, capace di imprimere una discontinuità con un giudaismo ormai molto ben inserito nel contesto culturale ellenistico. Il carattere messianico “personale” del nascente cristianesimo finisce per collidere con un giudaismo ormai profondamente impastato con l’ellenismo, al punto di identificare la sapienza stessa di Dio con la Legge giudaica e il logos filosofico greco. Il punto di discordia è esattamente la pretesa della comunità giovannea di identificare questa sapienza/logos con un uomo storico concreto, Gesù di Nazareth, attraverso la porta del mistero pasquale di morte e resurrezione. Questa novità è al contempo profondamente inserita nel contesto giudaico e assolutamente originale nel suo svolgimento. Continuità e discontinuità sono articolate insieme e determinano un salto che spiega l’opposizione e la resistenza culturale e religiosa delle comunità giudaiche, come già sperimentato da Paolo nel suo disegno teologico e missionario.
Nella prospettiva evangelizzante della comunità cristiana non si può trascurare questo aspetto: il vangelo non si comunica per semplice adattamento, ma può suscitare anche dei contrasti profondi, vediamo ad esempio il rapporto con le culture orientali, dove c’è un arricchimento reciproco tra il logos presente nelle vie religiose e mistiche orientali e il logos fatto carne rivelato dal cristianesimo. Questa reciproca “fecondazione” si è data nella storia degli ultimi 500 anni in oriente anche con conflitti che possono essere superati solo con una reciproca umiltà. Da un lato è l’umiltà da parte di culture millenarie di riconoscersi non autosufficienti ma bisognose di riscoprire il loro logos in dialogo con una forma storico-salvifica di logos, con un logos storico, un Cristo salvatore che è storicamente esistito in un luogo e in un tempo particolari, ed è Gesù di Nazareth. Dall’altro l’umiltà della via cristiana di arricchire la comprensione del Cristo totale di tutte quegli apporti, ancora in gran parte inesplorati, che provengono da queste vie di sapienza e di spiritualità. Adattamenti parziali, unilateralismi, e conseguenti conflitti e tensioni, saranno ancora inevitabili, fuori e dentro la comunità cristiana e questo va messo in conto come un “peso” proprio del carattere gratuito e indeducibile della rivelazione storica offerta dalla via cristiana.
