Il tempo della carestia, con cui inizia il ciclo di Elia, è il rib (accusa) di Dio verso Acab e il Regno del Nord, il Regno di Israele. L’inizio di questo ciclo è improvviso e senza preparazione: non c’è una presentazione di Elia, non c’è un incarico esplicito che Dio dà al profeta, non c’è un invio ad Acab. Tutto è messo in movimento dalla Parola del profeta, che si mostra nella sua piena valenza accusatoria, appunto come un rib. Di cosa si tratta?
Il rib è una procedura giuridica di accusa che non si svolge in un tribunale o alla porta della città, ma nel contesto stesso della vita, per ottenere una riconciliazione e un risarcimento alla parte lesa. In questo caso è Dio stesso che si presenta come parte lesa: l’alleanza è stata unilateralmente infranta dal popolo e dal re che lo rappresenta, senza alcuna motivazione plausibile. La politica di espansionismo e di accordi dei re, da Geroboamo in avanti, ha portato con sé una serie di matrimoni e di conseguenti importazioni di culti e divinità straniere. Il culmine di questa linea di equilibrio e alleanze nella politica del Regno del Nord si colloca con il matrimonio tra Acab e Gezabele. Questa regina ha intenzione di svellere totalmente la radice jahwista di Israele a favore dei culti cananei baalistici e il re Acab non pare in grado di mettersi contro questa politica della regina.
A questo punto, di fronte ad una tale distorsione dell’identità di Israele, il profeta interviene con la sua parola, una parola in grado di manovrare la creazione, di stabilire i tempi della pioggia e i tempi dell’aridità. Se Baal era il Dio della pioggia, che in un poderoso atto unitivo con la terra doveva seminarla, quale vitello d’oro, che con la sua forma e potenza sessuale rassicurava le tribù cananaiche, la parola del profeta mostra dove collocare le origini stesse della pioggia e della fecondità dei campi: nel Dio di Israele.
La carestia diviene allora lo sconvolgimento cosmico dovuto alla rottura dell’alleanza con Dio. Il cosmo si lascia modificare e plasmare dalla parola del profeta, come già al tempo di Mosè con le piaghe esodiche e il passaggio del mare, per mostrare il disordine insito nella lontananza dell’uomo da Dio. Non che la siccità sia una punizione di Dio: essa è semplicemente la conseguenza del disordine che il peccato dell’uomo ha immesso nella creazione e che si manifesta in modo plateale, allora come oggi!

Elia è allora qui ancor qui che una sorta di nuovo Mosè, proprio un nuovo Israele, che rivive nella sua carne l’esodo, il tempo dell’unione e del fidanzamento con Dio e ristabilisce anzitutto in lui, nella sua carne, le condizioni dell’originaria alleanza. Siamo ad oriente del Giordano, quindi al di fuori della terra di Israele, della terra donata da Dio al suo popolo. Qui Elia rivive l’esodo: un tempo di deserto, prima di rientrare nella terra di Dio, un tempo in cui abituarsi ad obbedire quotidianamente ad una parola che viene dall’alto e che nutre ogni giorno, fidandosi di questo quotidiano nutrimento. Nella sua carne Elia vive il nutrimento di Dio, attraverso il torrente Cherit e il cibo/pane portato dai corvi: in tal modo ristabilisce anzitutto in sé, nel suo corpo e nel suo cuore, l’alleanza con Dio, attraverso il medium della creazione. Anche qui come nell’esodo questo pane consegnatogli dai corvi assume la funzione di una manna che viene da Dio: esso è cibo della terra, cibo degli animali, ma al contempo è dono di Dio, attraverso la mediazione degli animali stessi.
Il torrente poi diviene, pur nel carattere scarno del racconto, il luogo della regalità messianica, di una nuova umanità nutrita e dissetata da Dio: “lungo il cammino si disseta al torrente, perciò solleva alta la testa” (Sal 110,7). Questa riplasmazione dell’umano non potrà accadere però senza che l’alleanza si compia, in una sorta di ripresa non solo dell’esodo, ma anche della genesi.
In questa rinnovazione dell’alleanza messianica, che il profeta ristabilisce nella sua carne, e che riporta alle origini, è coinvolta una vedova a Sarepta di Sidone. La nuova umanità riplasmata dalla Parola di Dio e concentrata nel corpo del profeta ri-trova una piena significazione nell’incontro con la donna, una vedova, a Sarepta di Sidone. Israele e i popoli pagani sono come riassunti da questa coppia, lui e lei, il profeta e la sidonita, come a dire che quando Israele ritrova la sua vocazione profetica, ecco allora che ridiventa segno e strumento di comunione per tutti i popoli, un segno sponsale. Tutto questo però risulta qui dentro una figura di radicale povertà e spoliazione: il compimento passa attraverso la povertà del segno.

Si tratta anzitutto di una vedova: ella nella sua carne contraddice il segno stesso della sponsalità, che per lei è divenuto privazione e morte. È una vedova povera, come ogni vedova nell’antichità, esposta all’arbitrio maschile, per la mancanza di una protezione da parte dello sposo. Eppure il luogo della sua carenza, del suo bisogno, della sua esposizione all’altro, allo straniero, a colui che può dominare e abusare, viene visitato da Dio attraverso il profeta.
Quello spazio, lo spazio del bisogno, della mancanza, del vuoto, della solitudine, esemplificate dalla fame e dalla sete, viene improvvisamente abitato.
Ella non se ne rende subito conto. Il profeta quando arriva chiede. Chiede acqua (ricordate Gesù con la donna di Samaria?) per dare però la sua acqua, quella della Parola. Poi chiede cibo: e qui la donna mostra tutta la sua situazione di prossimità alla morte. Solo un po’ di farina e un po’ di olio. Nient’altro. Mangeremo e poi moriremo: è un cibo che dà la morte, la donna non aspetta più nulla se non di morire, perché la promessa della vita è stata definitivamente ribaltata nel suo opposto, nella morte, per lei e per il figlio.
È qui che la Parola del profeta interviene, con la sua forza di dono totale: “la farina della giara non si esaurirà e l’olio dell’orcio non diminuirà”: il profeta chiede alla donna una fiducia totale. Davanti alla morte solo donandosi si accede alla vita. È così che la donna, proprio accettando di mettere il profeta davanti a sé, proprio donando la vita di sé stessa e di suo figlio ed esponendola radicalmente al potere della Parola dentro alla morte, lascia agire la Parola come potenza di vita.
La Parola non permette all’olio e alla farina di esaurirsi. La Parola del profeta si compie!
La vedovanza della donna, il suo bisogno, la sua carenza, la sua esposizione alla morte, diventa così luogo di accoglienza della vita, luogo di un riscatto, perché la Parola di Dio possa prendere il sopravvento. Questo accadrà anche nell’episodio successivo, quello della morte del figlio e del suo risuscitamento: attraverso la morte e resurrezione del figlio, la donna riconosce il profeta. Ella trasforma l’attesa della morte nell’accoglienza del dono della vita.
Nel riconoscimento del profeta ella stessa diviene profetica, accoglie il dono del Dio di Israele. La sua vedovanza riceve una nuova funzione, quella di annunciare la sponsalità del Dio di Israele, nel quadro ampio del rapporto tra Israele e i popoli pagani.
