Mc 15, 21 – 38 par./ Sal 22
Il testo della passione nel vangelo di Marco, analogamente a Matteo e diversamente da Luca, presenta il grido di Gesù sulla croce con la citazione dell’inizio del Salmo 22: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato” (15, 34). Assieme al v. 24, dove si trova il riferimento alla tunica tirata a sorte (cfr. Sal 22, 19) si tratta delle uniche citazioni esplicite del Salmo nel Vangelo di Marco. Si trovano poi delle allusioni al v. 31 dove i capi dei sacerdoti e gli scribi si fanno beffe di Gesù, e “scuotono la testa” invitandolo a salvarsi ( cfr. Sal 22, 8 – 9). Il testo di Luca non cita esplicitamente il Salmo 22 nel grido di Gesù sulla croce ma descrive la morte di Gesù come un abbandono radicale nelle mani del Padre (“Padre nelle tue mani consegno il mio Spirito Lc 23, 46). In realtà le due formulazioni sinottiche non sono poi così distanti. Tutto dipende infatti da come si interpreta la citazione del Salmo 22: essa è un grido di disperazione e in fondo di mancanza di fede? Oppure può essere compreso proprio come un estrema supplica di fede, che nell’urgenza del pericolo, rivela proprio un affidamento totale a Dio? Solo un breve approfondimento di questo Salmo puo rivelarcelo.
Il Salmo 22 è composto da due parti, la prima è una supplica nella tribolazione mentre la seconda è un rendimento di grazie per la liberazione. La supplica descrive una situazione tragica, al limite della vita, caratterizzata dall’urgenza e da una fortissima intensità espressiva ed emotiva. Essa fa appello a ciò che il Signore ha fatto per il suo popolo, alla sua salvezza nei confronti dei padri. Al contempo l’orante non afferma una qualche colpa da parte sua: si tratta di un innocente perseguitato. Il rendimento di grazie si sviluppa per molto tempo (vv. 24 – 32) e allarga enormemente la prospettiva di questo Salmo. La liberazione in sè è descritta da un solo verbo (v. 22), ma il suo annuncio ha una risonanza globale e duratura.
La supplica si impernia sul termine “lontano”: è la richiesta a Dio di non stare “lontano” (v. 2. 12. 22), cioè di manifestarsi vicino, con la sua salvezza, così come ha fatto con i padri (vv. 4 – 6). Infatti nel momento presente vicino all’orante ci sono solo tori e leoni che lo accerchiano e spalancano le loro fauci (vv. 13 – 14. 21 – 22), immagine terribile di un cerchio accusatorio e implacabile di nemici. Egli ha bisogno di aiuto, ma non c’è nessuno (vv. 12. 20). Chi sono questi nemici? Le metafore di animali indicano plasticamente alcune caratteristiche: essi hanno il furore dei tori e la loro potenza fisica. Hanno la capacità di afferrare e sbranare come un leone. Si indica qui la fame del leone e la potenza stritolatrice delle sue mascelle. Infine l’ultima immagine è quella di un branco di cani. Infatti se i leoni sono cacciatori per lo più solitari, i nemici dell’orante aggiungono la capacità di cacciare in branco come i cani, in modo da non lasciare alcuna via di uscita o di scampo. Essi formano un cerchio implacabile e rabbioso. Ma la loro descrizione non finisce qui. Essi si prendono gioco, scuotono il capo per indicare una disapprovazione morale. Non solo sono responsabili del male fisico ma aggiungono anche una disapprovazione morale che colpisce ulteriormente l’orante. La frase che rappresenta l’apice del loro scherno si trova al v. 9: “Si rivolga al Signore; lui lo liberi lo porti in salvo se davvero lo ama”. Si tratta della sfida suprema, la sfida di fede, che vede l’uomo innocente sconfitto, abbandonato anche da Dio (cfr. Sap 2, 12 – 18). Al Sal 18, 20 il salmista affermava felicemente di essere stato esaudito da Dio. Ora questa citazione in bocca ai nemici dell’orante suona vuota e derisoria, è una specie di ribaltamento della salvezza operata da Dio nei confronti Israele. In fin dei conti la situazione di pericolo e di morte imminente dell’orante mette in gioco l’essenza stessa di jhwh e della sua rivelazione storica in favore di Israele.
Proprio su questo infatti insiste l’orante con la sua preghiera, richiamando la vicinanza di Dio in altri contesti particolari: nel tempio dove lo si prega (v. 4), nella storia della salvezza con i padri (v. 5 – 6; cfr. Dt 26, 7 ),nell’atto con cui lo ha creato e lo ha fatto uscire alla vita facendolo riposare sul seno della madre. Quest’ultima è un’ immagine di grande delicatezza, che indica l’amore di un corpo che porta in se un altro corpo e si dona a lui. Il corpo della madre è il segno dell’amore di Dio nella creazione, un amore che nutre e che fa crescere, con indicibile tenerezza, ogni uomo.
Ma ora proprio il corpo di quest’uomo si trova in una condizione di imminente distruzione. Sembra disfarsi come l’acqua che si versa (cfr 2 Sam 14, 14) e il cuore sembra sciogliersi come cera. Al disfacimento corporeo descritto con immagini di liquidi fa da contrasto la terribile aridità del palato, riarso come un coccio. Come un coccio fatto di polvere di argilla è ormai la vitalità di un uomo il cui destino sembra essere quello di tornare alla polvere e quindi alla morte. Qui l’orante si esprime alla seconda persona singolare (“mi deponi su polvere di morte”), come se gli balenasse l’idea che alla fine Dio è responsabile di tutto ciò. Da qui si comprende il grido iniziale dell’orante al v. 1., descritto come un ruggito disumano. Egli invoca e non trova risposta da parte di Dio. Anche la notte, tempo del riposo e della protezione di DIo, diventa una lotta senza tregua (v. 3). Il grido dell’orante testimonia il contrario di ciò che dice. Proprio perchè grida, ammette di avere ancora fiducia in Dio. Egli confida come i padri (v. 4) che sono stati esauditi (cfr. Es 6, 5). Il suo grido mette in gioco tutta la storia di Israele, come una storia di suppliche esaudite.
A questo punto estremo si colloca l’intervento di Dio, descritto brevissimamente al v. 22: Tu mi hai risposto! Da qui in poi al v. 23 viene annunciata quella lode di DIo, che inizierà effettivamente al v. 24. In un movimento a cerchi concentrici si passa dall’orante (v. 23) alla discendenza di Israele, chiamata a lodare e temere Dio perchè ha risposto al grido di aiuto dell’afflitto (vv. 24 – 25). Come i padri avevano confidato in Dio (v. 4), ora i figli, la discendenza di Israele, è chiamata a lodare il Signore per una salvezza sempre attuale. La lode si allarga poi fino a tutti i confini della terra (v. 28) e anche ai defunti, coloro che dormono sotto terra e discendono nella polvere (v. 30). All’immagine di morte della polvere si contrappone ora la vita che Dio dona ai poveri sotto forma di cibo con cui essi si saziano. Questo cibo rappresenta il memoriale perenne dell’azione salvifica di Dio. Infatti anche coloro che sono morti in realtà vivono per lui e tutti gli uomini sono rappresentanti da questa discendenza vivente che loda il Signore e insegna ai figli la memoria vivente delle sue opere di salvezza.
Suggerimenti per la preghiera.
1. Mi dispongo davanti a Dio in preghiera. Sto in ginocchio o seduto, per entrare in colloquio con il Signore, o meditare su ciò che leggo, a seconda di ciò che voglio.
2. Leggo con attenzione il brano di Mc 15, 21 – 38 e il Salmo 22.
3. Chiedo al Signore di donarmi dolore, dispiacere e confusione, perché per i miei peccati il Signore va alla passione.
4. Osservo come Gesù si lascia fare, senza opporre resistenza ai suoi nemici e torturatori. Contemplo il dolore fisico e morale di un uomo spogliato di tutto e che è per di più oppresso dallo scherno.
5. Ascolto le parole di scherno dei nemici, che lo credono abbandonato da Dio e il grido di Gesù sulla croce, grido di supremo affidamento al Signore e contemplo la salvezza operata da Dio.
6. Termino con un Padre Nostro

Signore aiutaci!
. La nostra sofferenza diventi la sofferenza di Gesù,
appena alleviata dal Cireneo (ce ne siano!),
così che si tramuti in gioia.
. come nel salmo si legge la lode,
nella nostra vita si legga la salvezza,
contagi tutta la vita.
. – la comunità di San Lorenzo in strada –
nel silenzio della fede
. fatta di fughe e muto deridere
eccheggia un grido
. e squarcia i nostri cuori
. . più che il velo del Tempio
e dona nubi di pioggia
. al deserto bruciante delle vite
Claudio