Scrittura e Scritture (3 – X – 2013)

SCRITTURA E SCRITTURE (11 – X – 2012)

La seconda lettera a Timoteo presenta Paolo consapevole di aver ormai portato a termine la sua missione di apostolo. Ora egli sente il dovere di trasmettere l’ufficio della predicazione e della custodia del deposito ( parathēkē. “bene prezioso” trad. CEI 2008 cfr. 1, 13 – 14). Non si tratta ancora di un quadro formalizzato di proposizioni vere, come il catechismo che la Chiesa ha elaborato negli ultimi secoli, ma di un impasto, un amalgama vitale tra verità di fede, trasmesse oralmente e per iscritto (cfr. inno cristologico 1, 9 – 10), e di esperienza nella fede, consolidata attraverso la prassi dei sacramenti e dei vari ministeri, nelle comunità cristiane di origine paolina. Questo deposito della fede, che scaturisce dal vangelo vissuto nelle comunità paoline, è ciò che Timoteo è incaricato di custodire, avendo come norma e modello di riferimento per la sua predicazione la parola di Paolo, ispirata alla fede e all’amore di / per Gesù Cristo.

Ci troviamo dunque ad un passaggio fondamentale della comunità cristiana, attestato nella Scrittura canonica, dalla generazione apostolica, di cui Paolo fa parte, alla generazione immediatamente successiva (cfr. anche 1 Tm; Tt). È di fondamentale importanza riflettere ulteriormente su questo passaggio e su ciò che comporta in relazione alla Scrittura stessa e alla comprensione della sua canonicità (cfr. DV 7; Deiana p. 33).

In questo passaggio di consegne tra una generazione e l’altra si trasmette tutto ciò che serve a mantenere integro e custodire questo deposito della fede, ossia l’insieme delle verità e dell’esperienza consolidata di fede della comunità cristiana. Si tratta di una trasmissione vitale, che deve tenere per riferimento e modello la predicazione apostolica, che è l’elemento fondante e generativo di tale deposito. In questo processo di trasmissione diviene necessario ancorare la predicazione di colui che ha il dono dello Spirito per la preservazione del deposito, sulla Scrittura. È importante che chi ha ricevuto questo carisma di verità per l’imposizione delle mani dell’Apostolo, sappia fondarsi su una Parola che ha a che fare con lo Spirito stesso di verità, la Scrittura (cfr. 2 Tm 3, 16). “Tu rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente. Conosci coloro da cui l’hai appreso e conosci le Sacre Scritture fin dall’infanzia: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene mediante la fede in Cristo Gesù. Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona” ( 2 Tm 3, 15 -16 trad. CEI 2008)

Sono due gli elementi su cui vorrei soffermarmi a proposito di questo importante versetto della lettera.

1. L’aggettivo “ispirata da Dio”, che si può anche tradurre come “spirante Dio”.

2.   L’identità di questo termine “ tutta la Scrittura” o “ogni scrittura”.

1. questa definizione è complessa e non facile da chiarire. L’aggettivo verbale che viene qui usato in greco può esprimere una voce passiva ma anche attiva. Se il verbo è da intendersi al passivo allora più chiaramente il termine Dio può essere un complemento d’agente, e dunque si può tradurre “ispirata da Dio”. L’autore della lettera vorrebbe qui sottolineare l’intervento attivo di Dio che ha ispirato, ha reso possibile, col dono del suo Spirito, la creazione di quest’opera letteraria. Dio sarebbe quindi il vero autore, nel senso che l’origine ultima della Scrittura si deve al lavoro del suo Spirito.  Oppure si può intendere l’aggettivo verbale all’attivo, nel senso che la Scrittura è essa stessa ispirante, ossia produce in chi la legge un’ispirazione  che conduce a Dio stesso. È chiaro i due significati possono essere compresenti. Proprio perché ispirata da Dio la Scrittura porta a Dio chi la legge, nell’azione dello Spirito. Insomma l’azione dello Spirito non si limita al processo che ha portato alla stesura dello scritto, ma si prolunga nell’atto stesso della lettura, in cui chi la legge è portato a conoscere Dio e ad entrare in comunione con lui (la Scrittura è come uno spartito musicale dove c’è una tradizione di composizione e una di esecuzione). Ciò significa che la Scrittura ha una caratteristica duplice: da un lato attesta una rivelazione di Dio stesso, perché è ispirata da Dio, dall’altro prolunga la comprensione di questa rivelazione nel cuore di ogni credente di tutti i tempi e di tutti i luoghi, perché è ispirante. Si può notare allora una concezione dinamica della Scrittura, come un fenomeno che tiene insieme la fissità di un riferimento non estendibile ad altro (essa e solo essa è Scrittura) e l’elasticità di una comunicazione continua nella storia.

Una conferma di quanto detto risiede nelle applicazioni successive del v. 16. La Scrittura infatti è utile ad insegnare, confutare, correggere ed educare alla giustizia. Si tratta di compiti di carattere morale ed “anagogico”, che fanno parte dei sensi propri della Scrittura, come più tardi il medioevo formalizzerà ( littera gesta docet, moralis quid agas, quid credes allegoria, quid speres anagogia ). È un compito che si rinnova ad ogni generazione nella Chiesa in cui l’interpretazione della Scrittura deve fare i conti con la storia e con le esigenze della cultura che in quel tempo emergono tra gli uomini, con le loro domande e i loro dubbi. Qui l’operatività spirante della Scrittura attualizza, per mezzo del carisma apostolico di verità, il deposito del vangelo per ogni tempo e ogni luogo. Qui la Scrittura diviene “anima della teologia” (cfr. DV 24), fonte del pensiero morale e ispirazione della riflessione e della missione pastorale  della Chiesa ( cfr. Verbum Domini 73).

2. altro punto da affrontare è cosa intenda l’autore per tutta la Scrittura. Anzitutto bisogna segnalare che l’espressione greca non è del tutto univoca. Essa si può intendere sia in senso globale, come “ tutta la Scrittura” sia in senso distributivo, come “ogni Scrittura”, ossia ogni passo della Scrittura. La seconda modalità è tuttavia implicata nella prima, infatti non potremmo intendere ogni versetto o passo o brano della Scrittura come Scrittura stessa, se non alla luce di una comprensione sintetica della Scrittura come totalità. È importante allora riconoscere che all’epoca della redazione neotestamentaria c’è una comprensione unitaria della Scrittura, anche se non conosciamo esattamente l’estensione di questo termine. È chiaro che l’espressione in esame si riferisce all’AT, dal momento che al v. 15 si fa riferimento agli ierà grammata, ossia all’educazione infantile alle Scrittura, praticata in Israele ( Timoteo era ebreo di madre ) e più tardi raccomandata dalla tradizione rabbinica fin dall’età di cinque anni( cfr. Pirque Abot 5, 21 ). A quali libri qui si faccia riferimento non è chiaro e può essere ipotizzato solo a partire da un’indagine più approfondita sul giudaismo ellenistico del I secolo. Comunque ciò che a noi importa è che nonostante la grande varietà di questi scritti ( torà, profeti, libri storici, salmi e forse l’espressione include anche i libri sapienziali ) c’è una comprensione unitaria di questa realtà, che non proviene semplicemente da un’assunzione dogmatica arbitraria della comunità paolina, ma dalla tradizione ebraica: essa è non solo lettera,  ma lettera sacra, essa è Scrittura.

Mi sembra molto importante anche per noi. Riguardo alla Scrittura siamo davanti ad una pluralità enorme di fenomeni, quanto alle lingue, alle fonti, alle tradizioni, alle traduzioni, ai generi letterari e alle culture di riferimento.

a. Quanto alle lingue vi sono nella Scrittura almeno tre lingue ( ebraico, aramaico e greco ). In greco sono state scritte alcuni libri che per la Chiesa cattolica sono parte dell’Antico Testamento, come il libro della Sapienza e il Siracide ( che probabilmente aveva un originale ebraico ); Dn 13 – 14; Giuditta; Est 9, 20 – 32 ) In aramaico vi sono parti del libro di Esdra e del libro di Daniele    ( Dn 2, 5 – 7, 28 ).

b. Quanto alle traduzioni antiche vi è anzitutto la grande traduzione greca della LXX ( aggiungere qualcosa ). Poi ci sono altre traduzioni greche del testo ebraico ( o testo masoretico ), denominate Aquila, Simmaco e Teodozione, e che noi siamo in grado di ricostruire grazie all’esapla di Origene.  Poi ancora esistono versioni siriache e copte dell’AT. Alcuni testi, come Geremia, presentano una traduzione greca molto diversa dal testo masoretico. Di altri testi, come il Siracide, sono state ritrovate parti in ebraico, probabilmente molto vicine all’originale ebraico di cui parla lo stesso autore. Quale è in questo caso il testo originale, da considerarsi come ispirato? (cfr Deiana 99 – 110, e in particolare i punti 1 – 2 – 3 del cap. 4).

c. C’è una certa varietà nel comprendere il canone ( cfr. Deiana 79 – 97 e particolarmente 2.3; 2.4). La tradizione ebraica non ha considerato al suo interno le parti scritte in greco, pure presenti nella tradizione alessandrina della traduzione dei LXX. La tradizione cristiana ha per lungo tempo oscillato tra un canone ristretto di tipo ebraico ( lista di Atanasio ) e il canone allargato ( lista di Agostino ). Quando le comunità protestanti hanno optato per il canone ristretto la Chiesa cattolica riunita a Trento ha dogmatizzato il canone allargato.

d. la varietà della Scrittura deve essere anche considerata alla luce della diversità dei suoi libri e generi letterari. Si passa dalla poesia ebraica, all’invettiva profetica, dalla storiografia teologica ebraica alle lettere scritte con la retorica di impianto ellenistico. Anche gli sfondi culturali possono essere molto diversi: si passa dal  rapporto del giudaismo con le culture del mediooriente antico per l’AT e al rapporto con l’ellenismo per il NT e la traduzione greca della LXX.

Dal punto di vista del fenomeno, la Scrittura sembra sbriciolarsi in un insieme variegato ed estremamente disomogeneo di Scritture.

Da tutta questa complessità e varietà come può emergere l’unità del fenomeno della Scrittura?

Due sono gli elementi da sottolineare.

1. L’unità fa parte di un processo attestato nella stessa tradizione giudaica, come sottolinea 1 Tm 3, 15 e non imposto arbitrariamente dagli Apostoli.

2. Tenendo conto del fatto che questa stessa lettera ( cfr. anche 2 Pt ) è poi riconosciuta parte del canone scritturistico, allora si può dire che qui la Scrittura testimonia di se stessa di essere parte della Tradizione fondante degli Apostoli e come tale si consegna al lettore nell’atto stesso in cui la tradizione apostolica cede il passo a quella successiva. Il riconoscimento del canone non avviene fuori della tradizione.

Quindi il riconoscimento della canonicità della Scrittura, dogmatizzato definitivamente a Trento, è un’operazione che parte dall’esperienza di fede della Chiesa, radicata nella tradizione del popolo ebraico e fondata attraverso la predicazione e l’insegnamento degli Apostoli. Non si tratta di elaborare a priori un principio che permetta di distinguere ciò che è canonico da ciò che non lo è, ma di riconoscere che la storia e l’identità della Chiesa è profondamente connessa all’unità di un libro, la Scrittura, in cui la Chiesa stessa si riconosce e cresce rileggendolo alla luce della sua storia (cfr. DV 7 – 8; Deiana p. 38 – 39 ).

Pubblicato da bibbiainrete

prete cattolico particolarmente impegnato nello studio e divulgazione della bibbia e nell'animazione biblica della pastorale

6 pensieri riguardo “Scrittura e Scritture (3 – X – 2013)

  1. Riporto una domanda che mi è arrivata via e – mail. In riferimento invece ai testi inviati, in particolare “Scruttura e Scritture” vorrei per favore chiarimenti sui punti b e c : non ho ben capito qual’è il criterio per capire quale testo/versione è da considersi come ispirato, e quindi come avviene la scelta del canone (ultimo paragrafo).
    Partiamo dal punto c sul canone. La scelta del canone non avviene tramite alcuni principi a-priori, ossia astratti che hanno permesso alla chiesa di stabilire ciò che è canonico da ciò che non lo è. Invece si tratta di una scelta che ha l’esperienza vitale della Chiesae la riflessione sull’esperienza come criterio fondamentale. Ossia la Chiesa ha riconosciuto come canonici quei libri che ha potuto comprendere come parte integrante della sua fede, perchè li ha sempre letti nella liturgia e li ha per lo più sempre inseriti negli elenchi dei libri sacri, pur con qualche variazione a seconda delle consuetudini locali. Insomma il criterio definitivo per la chiusura del canone della bibbia non può che essere la tradizione della Chiesa, la sua storia, nella quale essa ha riconosciuto alcuni libri come fondamentali per la comprensione del mistero di Cristo e per la nostra salvezza.

    Riguardo al punto b: questa domanda rimane aperta. Ad oggi è difficile stabilire esattamente quale sia il testo originale, perchè abbiamo tanti manoscritti di tante epoche diverse, e con diverse tradizioni testuali( a volte con differenze importanti, altre votle meno ). Inoltre ci sono le traduzioni, le quali ci possono mostrare versioni più antiche del testo che possediamo nella lingua originale ( la traduzione greca della settanta fa spesso riferimento ad un testo ebraico probabilmente più antico di quello che possediamo oggi, attraverso il codice di leningrado): quando ci sono differenze, qual’è il testo originale? A volte possiamo cercare di ragionare sulle differenze e capire dove possono esserci stati errori di trascrizione o incomprensioni di traduzione, e allora prendere una decisione per una versione o per l’altra. Ma altre volte è davvero difficile! Allora qual’è il testo ispirato? Io direi che l’ispirazione è un processo complesso, che attraversa le comunità ebraiche sparse nel mediterraneo e le Chiese che hanno poi tramandato il riconoscimento e la trascrizione dei testi. Io direi che tutte le versioni che troviamo partecipano a tale processo dell’ispirazione, nella misura in cui attestano una tradizione di fede e di preghiera della comunità locali. Ti ho risposto?

  2. Grazie Don Davide,
    mi sembra di aver compreso la risposta ma ho ancora qualche perplessità ad accettare come indice di ispirazione “una tradizione di fede e di preghiera della comunità locali” a meno che non si intendano “comunità locali” ben definite e circoscritte sia nella identificazione geografica/culturale sia nel tempo storico, ovvero le comunità che sicuramente hanno avuto conoscenza diretta e sicura di Gesù e dei primi apostoli.
    Mi dispiace essere troppo insistente ma vorrei sciogliere i dubbi all’origine.
    Antonella

    1. Cara Antonella,
      mi sembra che il tuo dubbio sia fondato. Qui entriamo nei procedimenti della teologia dogmatica e bisognerebbe essere molto più accurati di quanto io non possa farlo ora. Tuttavia posso chiarire almeno questo punto: quando intendo comunità locali voglio porre l’accento su tradizioni diverse di trasmissione del testo, che fanno capo a grandi comunità ecclesiali ( cfr. Antiochia e Alessandria ). Ciò non vuole assolutamente negare il fatto che tale tradizione di fede e di preghiera sia in continuità con la radice apostolica. Anzi proprio la comunione cattolica delle diverse chiese locali ( ultimamente garantita dal vescovo di Roma, anche nel I millennio ) è stata la garanzia di una tradizione comune di fede, che ovviamente si riflette in una comune identificazione del canone dei libri ispirati ( a parte qualche variazione nei primi secoli tra un canone ristretto di Atanasio e uno allrgato di Agostino, riguardante i cosiddetti libri deutorocanonici).

  3. Mi inserisco nel dibattito; reputo positivo il fatto che il criterio di scelta della canonicità delle scritture sia basato sull’esperienza di fede della Chiesa.
    Un’esperienza attraverso la quale la Scrittura è giunta a noi, letta, tradotta e pregata e che siamo chiamati a trasmettere all’interno della Chiesa.
    Dove per Chiesa non si intende la gerarchia e pochi altri, ma l’intero popolo di Dio che crede in Gesù Cristo.

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